Ritorno ai classici. Una conversazione con Giampiero Neri
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Ritorno ai classici. Una conversazione con Giampiero Neri

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Ritorno ai classici. Una conversazione con Giampiero Neri

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"I classici sono libri senza tempo, raccontano la gioia e il dolore, sono l'immagine di noi stessi: sono il frumento, il nostro pane quotidiano... Il mistero della letteratura è il mistero della vita".La necessità dei classici per comprendere il nostro tempo. La felicità della lettura. La riscoperta di un Canone diverso: sono solo alcuni dei temi toccati da questa intensa conversazione (da Omero a Dante, da Pasternak a Fenoglio) tra Giampiero Neri, decano e "maestro in ombra" della poesia italiana, e un discepolo più giovane che da lui ha appreso l'Abc della scrittura.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2020
ISBN
9788881559640

Capitolo I

Nella luce di Omero

Iliade e Odissea
Cos’è per te un classico?
Un testo che non ha tempo, un testo che può essere letto in ogni tempo.
I Classici sono fatti per essere letti, raccontano di gioia e di dolore, sono l’immagine di noi stessi. Sono il frumento, il nostro pane quotidiano. Omero nutre e per questo tutti gli artisti tornano a lui.
Se nella letteratura non ci fosse il mistero, sarebbe alla portata di tutti.
C’è un passo che hai particolarmente a cuore dell’Iliade?
Una cosa che ci sorprende nel primo impatto con l’Iliade è il discorso di Agamennone sul suo privilegio di avere Briseide come compagna. È un discorso concreto, realista fuori dalla retorica che si accompagna generalmente alla letteratura, è la prima testimonianza che la poesia è verità.
Quello di Agamennone è un discorso vero. Nel poema ci sono insieme i vari codici della guerra, ma questi codici non ci trovano impreparati, sono già nel nostro dna, mentre il discorso di Agamennone è fuori dagli schemi.
In generale, è sgradevole il trattamento che lui riserva al padre di Criseide, gli intima di non farsi più vedere. Agamennone è un uomo dispotico, sanguigno, che pensa al suo esercito e si preoccupa molto delle defezioni dei suoi. Non è privo di diplomazia, cerca in tutti i modi di conciliarsi con loro. Agamennone è una figura di condottiero, è il comandante della spedizione degli Achei, ma non è certo l’eroe.
Da bambino, mio padre mi raccontava spesso dell’Iliade. Ricordo l’emozione quando mi regalò una scatola di soldatini che raffiguravano quei guerrieri dell’antichità. Eravamo a Genova sul piazzale San Francesco, la grande rotonda sul mare, allora per noi teatro di accese sfide calcistiche. Inizialmente parteggiavo per Achille, mentre lui era invariabilmente per Ettore...
Achille, rispetto ad Agamennone è crudele ed essenzialmente vendicativo. Fa da contraltare a Ettore, figura nobile, che invece assomma le caratteristiche di attaccamento al suo dovere in difesa della città. Ettore è umano: ha paura, cerca di sottrarsi al combattimento diretto con Achille, perché è consapevole della maggiore forza del nemico e sa anche che sarà sconfitto. Ettore è la figura più vicina al nostro modo di sentire.
In fin dei conti, lo stesso inizio dell’Iliade descrive la crudeltà di Achille, «che infiniti lutti addusse agli Achei». Achille torna in campo solo per vendicare Patroclo, in precedenza non si è lasciato commuovere dalla, diciamo così, decimazione delle forze achee.
Ho spesso sottolineato il realismo di Omero, che scrive senza orpelli, in modo vero e vitale, e la sua pietà, perché nelle uccisioni che si susseguono fra Achei e Troiani c’è molta pietà dietro l’apparente impassibilità della descrizione: in Omero impressiona la pietà profonda per entrambi gli schieramenti.
Ci sono altri personaggi del poema che ritornano nella tua memoria?
Prima di tutto la figura di Ulisse, straordinaria per capacità e astuzia.
Poi, Paride, un uomo inadeguato al ruolo in cui lo pongono gli avvenimenti. Non è un eroe, non è un comandante, si direbbe uno spettatore della guerra che si compie davanti ai suoi occhi e di cui è causa sua moglie. È un bellimbusto.
Ed Elena, la vittima di tutta la violenza che entra in scena nell’Iliade. La sua colpa è stata quella di non opporsi. La sua figura non si oppone mai. È in una prospettiva di accettazione fatalista del destino, con sua sofferenza personale.
Ulisse si colloca invece in una prospettiva di mediazione. È probabilmente il personaggio che insieme all’astuzia dispone di una sensibilità notevole: è sempre molto comprensivo. È un personaggio che quasi aleggia sulla contesa, sulla guerra, proprio come una figura di comprensione. Naturalmente, cercherà in ogni modo di far vincere la sua parte, è sua la macchinazione del cavallo, anche se non la racconta Omero nell’Iliade, ma senza perdere di umanità. Farà quanto necessario, ma senza compiacimenti.
Quando è stato il tuo primo incontro con i poemi omerici? Tante volte Eugenio Corti, scrittore che mi è caro, ha ricordato che scoprì la sua vocazione dopo l’incontro con Omero sui banchi di scuola.
Ero in prima media, avevo 11 anni, a Erba all’Istituto Carlo Annoni, che ora non c’è più.
Ricordo la professoressa Mazzarri, una donna molto bella. C’era un’atmosfera giocosa. Questo combattimento tra guerrieri ci eccitava. Non ricordo altre situazioni così coinvolgenti dal punto di vista sentimentale o, se vuoi, psicologico. Dovrei forse citare il ricordo della canzone di guerra «Lili Marlene» per trovare un corrispettivo evocativo a causa della guerra. È stata una canzone di grande malinconia. Mi portava a pensare con pessimismo sulla guerra, anticipava la sconfitta, in un certo senso, non c’era niente di eroico, ma la guerra comporta l’odio e invece la canzone era una canzone che parlava d’amore. A scuola molti parteggiavano per Ettore. La professoressa era orientata per Ettore, il suo prediletto. Questa è una nota però che in qualche modo ci avvicina la figura di Achille, che è sì egoista, ma è anche un solitario.
Quando lavoravamo insieme alla tua biografia hai speso spesso parole di ammirazione per chi riscoprì le rovine di Troia: «Mi piace ricordare la figura dell’archeologo Schliemann che andò a Troia con in mano l’Iliade per trovare la città di Ilio. Adesso può sembrare scontato, ma ai suoi tempi non lo era affatto, si poteva pensare a una leggenda epica, a un racconto mitico e invece lui ha creduto alle parole che leggeva e ha trovato la città. Non mi meraviglia che Schliemann fosse un uomo che proveniva dal commercio e non un uomo di studi, di quelli che talvolta si lasciano prendere dall’idea che tutto sia un’astrazione o un parto della fantasia. In base alla sua mentalità, che lo portava a credere a quello che leggeva, è riuscito a trovare la favolosa città di Priamo “in riva di Scamandro”» (Giampiero Neri – Un maestro in ombra, Jaca Book, Milano 2013, p. 96).
Schliemann è una figura straordinaria. Il fatto che sia andato a Troia con in mano l’Iliade non può non commuovere. Ha qualcosa della «puerile epopea» di cui parla Emilio Villa a proposito di Omero. Schliemann aveva in mano l’Iliade come un Baedeker e iniziò a mobilitare uno stuolo di persone, di opere, di scavatori. È entusiasmante che abbia creduto alla verità di Omero, quella verità che è ancora oggi messa in discussione, come chi vuol ambientare l’Odissea nei mari del Nord.
Mi entusiasmo sapendo che quanto scrive Omero è la verità e non il frutto di invenzione, se leggiamo le Mille e una notte ci rendiamo conto che è un altro tipo di verità.
Schliemann ha avuto ragione contro l’opinione degli accademici, della cultura ufficiale che pensava a una guerra soltanto immaginata. Invece la poesia dice la verità. E questo è l’insegnamento più grande dall’esperienza di Schliemann.
Con la poesia si ricerca la parola nella sua nudità, la verità della parola come tale, come nucleo e ha una presenza che sappiamo non essere variabile: è quella e non un’altra. Questo lavoro sulla parola crea una corrispondenza con la verità altra che cerchiamo di più. Il fabbro lavora sul ferro, ma l’opera è qualcosa d’altro, non è più solo ferro, e non a caso Eliot si è rivolto a Pound chiamandolo «miglior fabbro». Lo scrittore lavora come un fabbro batte il ferro, cerca tutte le parole che attendono da lui di essere ordinate secondo un preciso discorso, proprio quello... non ci vuole una parola di più...
Carlo Carena introducendo una riduzione scolastica della Scoperta di Troia annota: «Enrico Schliemann è uno degli esempi, se non più grandiosi, certo più commoventi, di quanto possa nella vita dell’uomo la fede in un ideale, la convinzione di una verità. Fanciullo, egli udì dalla bocca del padre, fra molte altre leggende, quella della guerra di Troia, cantata dal poeta più affascinante che l’umanità abbia avuto, e decise di cercare da grande i resti dell’antica città, sepolti nell’Asia lontana dalla polvere dei millenni» (Heinrich Schliemann, La scoperta di Troia, letture per la scuola media, Prefazione e note di Carlo Carena, Einaudi, Torino 1968, p. 5).
Hai desiderato di vedere dal vivo i luoghi dell’Iliade?
Sì. Mio cugino Ezio Frigerio, lo scenografo del Piccolo Teatro e della Scala, si era costruito una villa proprio davanti a Troia. Ora l’ha venduta. Aveva ospitato lì anche mio fratello Peppo.
Sei mai stato in Grecia?
Sì, avevo 50 anni. È stato il primo viaggio importante, andai con mio figlio. Non pensai però mai all’Iliade perché tutta la scena in effetti si è svolta in Asia Minore. Atene non mi ha suggerito nulla in questo senso. Quello che mi fece un’impressione straordinaria furono i Propilei, arrivare quasi in cima e trovare queste mura ciclopiche di colore bianco avorio... credo che quel giorno piovigginasse. Fu il primo impatto con le costruzioni megalitiche greche e fu una grande impressione. E sulla recinzione che delimitava la zona archeologica vidi una civetta. Era ferma. Per me richiamava l’idea della sapienza, di Atena noctua, il nome latino della civetta.
Alla civetta è dedicata una delle tue poesie più note:
«La civetta è un uccello pericoloso di notte
quando appare sul suo terreno
come un attore sulla scena
ha smesso la sua parte di zimbello.
Con una strana voce
fa udire il suo richiamo,
vola nell’aria notturna.
Allora tace chi si prendeva gioco,
si nasconde dietro un riparo di foglie.
Ma è breve il seguito degli atti,
il teatro naturale si allontana.
All’apparire del giorno
la civetta ritorna al suo nido,
al suo dimesso destino».
(Giampiero Neri, Poesie, cit., p. 59).
Nella tua ricerca sei sempre stato molto attento ai dettagli. Quanto sono importanti in Omero?
Nell’Iliade, c’è una meticolosità di osservazione che trova la sua maggiore illustrazione nella descrizione dello scudo di Achille. Ma anche in forma, questa volta ironica, della descrizione di uno scudo fatto con materiale prezioso a salvaguardia di un combattente che invece perirà. Questo è uno dei pregi di Omero: non parteggiare.
Sull’importanza dei dettagli nella scrittura, ho molto amato questa riflessione di Carver: «In una poesia o in un racconto si possono descrivere cose, oggetti comuni, usando un linguaggio comune ma preciso, e dotare questi oggetti – una sedia, le tendine di una finestra, una forchetta, un sasso, un orecchino – di un potere immenso, addirittura sbalorditivo. Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena» (Raymond Carver, Nien...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Come una promessa
  2. Capitolo I. Nella luce di Omero
  3. Capitolo II. Dai Vangeli a Dante
  4. Capitolo III. Da Machiavelli a Pasternak
  5. Appendice. Testi inediti di Giampiero Neri
  6. Ringraziamenti
  7. Indice dei nomi
  8. Indice generale