Il signore dei sogni. Il patriarca Giuseppe  - Giuseppe sposo di Maria - Josemaría Escrivá
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Il signore dei sogni. Il patriarca Giuseppe - Giuseppe sposo di Maria - Josemaría Escrivá

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Il signore dei sogni. Il patriarca Giuseppe - Giuseppe sposo di Maria - Josemaría Escrivá

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Chi è «il sognatore»? Non un distratto cronico o un «estraniato», ma chi è radicato nella realtà con uno sguardo contemplativo: chi sa accogliere il sogno di Dio, incarnato anche nella nostra vita di tutti i giorni, comprendendo quell'infinita tenerezza così spesso ricordata da papa Francesco. È possibile intuire l'orizzonte della nostra storia d'amore con Dio? Sì, con il coraggio umile della preghiera e dell'ascolto, e cercando di seguire il sentiero tracciato dai santi.Dopo Mezz'ora di orazione e la profonda ricognizione sul senso del celibato apostolico contenuta in Come Gesù, Mauro Leonardi ci insegna a scoprire il «sogno» che Dio ha su ciascuno di noi: nel suo suggestivo itinerario, che analizza anche tre celebri film come Titanic, A Beautiful Mind e Biancaneve, riflette su alcuni episodi decisivi della vita di tre grandi «sognatori»: il patriarca Giuseppe, Giuseppe sposo di Maria e Josemaría Escrivá.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2016
ISBN
9788881556854

Giuseppe & Maria

Maria, Maria di Nazareth, la Madre di Gesù e la sposa di Giuseppe è, per eccellenza, colei che attende, l’essere che attende. «La madre vive nell’attesa – nella pazienza dell’attesa – custodendo il suo frutto sconosciuto a sé stessa. Una divisione interna che non colpisce il padre, il quale può solo osservare dall’esterno, testimoniare da fuori, da un altro luogo, quello che avviene nel corpo della donna. Solo la madre può fare esperienza di una prossimità assolutamente straniera, di una trascendenza e di un’immanenza assolute. La vita che ospita – già prima del suo concepimento – nelle fantasie e nei sogni è un’altra vita, vita diversa, vita che, pur venendo dalla sua carne e dal suo sangue, appare fatta di un’altra carne e di un altro sangue. L’attesa della madre è ciò che sfugge per principio a una descrizione solo biologica della vita. [...] È quello su cui insistono in modo diverso sia la psicanalisi sia il magistero biblico. Non a caso le patriarche narrate nell’Antico Testamento – Sara, Rebecca, Rachele – sono figure, almeno dal punto di vista ristretto della natura, di madri sterili. La lezione sulla maternità che si ricava dalle matriarche è che la maternità non è solo un accadimento che colpisce il corpo, ma un andare verso, un’apertura. Essere madri non significa coltivare il proprio ma aprirsi all’Altro» (Massimo Recalcati, Le mani della madre, cit., pp. 26-27).
Le donne dell’Antico Testamento che da sterili divenivano madri di figli importanti, quelle di cui ho parlato più sopra sono – come ho già detto – preludio della Vergine Madre: la verginità è, per così dire, la sterilità portata al suo culmine. Maria quindi è la donna dell’attesa. Anzi dell’Attesa. Anzi, essa stessa è l’Attesa.
Ho spesso immaginato il momento in cui, prima di fidanzarsi, Maria ha rivelato a Giuseppe il suo proposito di rimanere vergine. Erano l’uno di fronte all’altro, Maria aveva, tra le sue, le mani di Giuseppe e gli diceva con tanta dolcezza: «Io sono l’Attesa». So bene che alcuni ritengono che Maria giungesse al momento dell’Annunciazione totalmente ignara di quali fossero i progetti di Dio su di Lei. A me questa tesi non convince, sebbene sia sicuro che anche per Lei ci sia stato un processo di crescita nella consapevolezza, nella maturazione.
Se il vangelo dice che il Figlio «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52) tanto più questa dinamica di sviluppo sarà stata vera per Maria. Però non riesco a pensare che per la Madonna l’Annunciazione sia stata una sorta di «pillola rossa pillola blu» del film Matrix, con Lei nei panni di Neo e Gabriele in quelli di Morpheus. La decisione di essere Vergine da dove nasce? Come le avviene di decidere qualcosa che non era assolutamente nelle tradizioni di Israele?
Non so esattamente a che cosa pensasse Recalcati quando ha scritto «essere madri non significa coltivare il proprio ma aprirsi all’Altro», ma queste parole descrivono perfettamente quanto ho nel cuore quando parlo dell’Annunciazione. Per me «non coltivare il proprio» significa la decisione della verginità, ovvero rinunciare a «coltivare il proprio» nel senso di non coltivare una forma di maternità come quella di ogni altra donna; e «aprirsi all’Altro» – scritto dall’autore in maiuscolo – lo interpreto come un aprirsi al mistero di Jahvè, di Dio. Mistero quanto mai fitto quando si consideri che Maria si sente contemporaneamente spinta alla verginità ma anche, secondo una modalità misteriosa e che non conosce, coinvolta molto da vicino nella venuta del Messia.
Quella che a noi sembra una contraddizione viene superata in Maria dalla sua attitudine all’Attesa. Maria attende nel Mistero e, poiché il Mistero è un Dio che è Creatore e Padre, Ella ama e dona una totale libertà al proprio Figlio (Cfr M. Recalcati, Le mani della madre, cit., pp. 80-84).
Non vuole risolvere il mistero, ma lascia che cresca in Lei e la coinvolga. Lei non solo è l’Attesa in senso passivo – Colei che è attesa, aspettata – ma è Attesa anche in senso attivo, cioè è Colei che attende: attende fiduciosa che l’Altro, cui è infinitamente aperta, operi in Lei il mistero della Vita. In tal modo Maria – Lei, prima custode, nuova come il sepolcro dove il corpo di Cristo sarebbe diventato glorioso (Cfr Lc 23, 53) – incarna in sé stessa l’attesa dell’intera umanità.
L’attesa antica, quella della creazione in travaglio di parto (cfr Rm 8, 22) che va dagli inizi dei tempi fino alla manifestazione conclusiva dell’Apocalisse. Lei è l’adempimento di una lunga speranza. Lei è la promessa antica che si compie. Tutto il mondo, tutta l’umanità, è come il paralitico che per tutta la vita ha tentato invano di avvicinarsi alla piscina senza riuscirci (cfr Gv 5). E ora giunge il Salvatore che finalmente cura e guarisce la creazione ferita.
Maria non si stupì affatto della presenza di un angelo. Fu invece l’angelo a stupirsi di lei. Maria vedeva il Creatore in tutte le creature, e vederlo negli occhi di un angelo le sembrava altrettanto sublime che vederlo in quelli di un uomo. Non la stupiva scorgere ovunque il Creatore. Era intenta a normali lavori domestici. Aveva forse un panno in mano o una spazzola di legno che a un certo punto le erano caduti non perché fosse rimasta trasecolata dall’apparizione di Gabriele, ma per lo stesso identico motivo per cui a ciascuno di noi cascano di mano le penne e gli smartphone.
Gabriele ha il volto di un giovane molto bello, dai lineamenti molto delicati. Capelli leggermente ondulati, castani. Occhi verdi. Niente ali però, questo no. Solo una veste candida. È lui a stupirsi. Molto, molto più di Maria. Gabriele è un arcangelo eviterno abituato a guardare fisso l’eterno Dio, e sa bene tutta l’opaca caligine che avrebbe trovato arrivando sulla terra. Aveva ancora fresca una certa esperienza con Zaccaria (cfr Lc 1). Proprio per questo si stupì. Di Maria. Si stupì molto. Non si aspettava di vedere il Creatore guardando una creatura. Di vedere una creatura tutta così piena di Creatore. Così stracolma, così piena di grazia, così kecharitoménê.
Devo aver sbagliato strada, pensò Gabriele. Credevo d’esser sceso sulla terra, e guarda un po’ sono arrivato in cielo. Si guardava attorno nella stanza mentre Maria curava cose casalinghe impercettibili a un angelo, e quel principe del cielo pensava: «Guarda un po’, qui è tutto pieno di cielo. È tutto pieno degli spirituali sorrisi che si sorridono nei cieli, delle trepidanti parole che alitano su da noi nei cieli». Era molto stupito, Gabriele, di fronte a Maria. Era stupefatto. Non aveva mai visto nulla di simile. Con nessuna creatura aveva mai visto Dio comportarsi in simile modo. Gabriele disse «il Signore è con te» (Lc 1, 28) e non lo aveva mai detto a nessuno. Una cosa così non l’aveva mai detta. Era una prima volta, una primizia. Di tutta la creazione, di tutte le creazioni. Mai vista una cosa simile, pensava Gabriele, mentre Maria lo guardava e non si stupiva più di tanto. E lui proprio di questo era stupefatto. Dell’atmosfera famigliare, normale, che lo sguardo di Lei, le sue mani, la sua presenza, creavano. Lei era quasi seduta a terra (forse a filare o a pulire) e lui, che veniva dal più alto dei cieli, era molto affascinato da quelle dita, da quelle mani. E si chiedeva se stesse filando o forse solo pulendo, e si stupiva di essere affascinato da una cosa così semplice e umile.
«Io che adesso sono qui e dovrei dire le parole che tutta la Creazione si attende da sempre, sono qui e sto rimandando. Sono perplesso perché non capisco se Lei sta filando o sta pulendo. Perché filare e pulire sono due cose molto diverse. Pulire – pulire per terra – lo fanno le serve, le schiave. Invece filare lo fanno le principesse. Le mani che filano e ricamano non possono essere le stesse che puliscono. Le prime devono essere delicate e morbide, e non potrebbero esserlo se pulissero perché a chi cucina, spazza, lava, le mani diventano dure e rudi. Poco e male sensibili ai fili delicati, ai ricami. Io sono qui e guardo Lei che sta all’origine della Chiesa e vedo dietro Lei i secoli dei secoli in cui monache e suore saranno divise in categorie ben precise: le coriste e le converse, rispecchiando così le divisioni delle società del loro tempo. Le prime fileranno, e saranno della classe sociale superiore, e le seconde puliranno, e saranno della classe sociale inferiore. Sarà così, ed è sempre stato così tra gli uomini di tutti i tempi. Solo da noi, in paradiso, non ci sono queste divisioni. Ma, qui, con Lei, io più guardo, più non capisco. Quelle mani – le Sue mani – mi sembrano come il roveto ardente che incantò Mosé (Es 3, 3). Adesso puliscono ma, no, ecco adesso ricamano. Spazzano e filano, cucinano e filano. O io non sono più quello che sono, un Principe eviterno del Paradiso, o qui c’è qualcosa che non ho mai visto».
Questa era la grandezza degli angeli, vedere le cose in tutta la loro storia, nel loro insieme, nella loro grandezza globale e definitiva. Ma adesso quello era anche il limite che lo tratteneva misteriosamente dal parlare a Maria perché lui, quell’arciprincipe, ora vedeva tutta la grandezza nella piccolezza. E non capiva come fosse, e non riusciva a distogliere lo sguardo.
Si ridestò Gabriele, e capì. Era qualcosa che non aveva mai capito per bene. E il motivo era che aveva vissuto solo e sempre in cielo. Non era mai sceso giù sulla terra. Capì quale fosse il motivo per cui Dio, che pur aveva da guardare tutto il Cielo che voleva, si ritrovava sempre a guardare giù, a guardare Lei, una piccola ragazza silenziosa, un’intimità della terra così tutta raccolta nell’umiltà. Lo scopriva spesso Gabriele, il Dio Uno e Trino, che sbirciava rapito quella Donna e le dita di Lei che insieme filavano e pulivano.
Così gli sfuggì di dire: «Da sempre Ti ha guardata». Fu in quel momento quando Cielo e terra si riconobbero e finalmente Gabriele riuscì a dire: «Darai alla luce un figlio e lo chiamerai Emmanuele, Gesù: Dio è con noi» (Cfr Mt 1, 23; Lc 1, 31; Is 7, 14). A quelle parole, sfiorò appena con la mano il grembo di Lei e Lei guardò in alto e una Presenza Luminosa li avvolse. Il suo cuore, di umiltà e purezza cristallina, rifulse in modo così eminente nella sua trasparenza, da lasciare commossi. Senza parole. Senza fiato.
Quel Cuore così meraviglioso viene avvolto dalla Luce dello Spirito e si unisce liberamente all’Amore, a quella Luce che fa sembrare ombra quella della terra. Quella luce, così intensa e calda, è tanto presente nella povera stanza qualunque di un qualsiasi giorno qualunque come mai in nessuna reggia è avvenuto. Si toccano, Lei e la Luce, e il suo sorriso è tutt’uno con quella Luce che si concentra e diventa intensissima. Poi un’ombra avvolge tutto (cfr Lc 1, 35).
E poi, solo, si sente il battito di un cuore che inizia il proprio palpito.
Noi uomini abbiamo avuto bisogno di un po’ di secoli per scoprire quello che distrasse Gabriele: l’Annunciazione è proprio l’inizio di qualcosa di nuovo. Perché l’Incarnazione dà il via alla Redenzione, ed è l’inizio della Chiesa, cioè di una nuova creazione. Maria è l’Arca della Nuova Alleanza. Cioè significa che è come se Dio, nell’arca di Noè, preparasse la sua Misericordia perché già nell’Arca della Nuova Alleanza vedeva Maria. E quindi è come se vedesse l’Incarnazione del Figlio per costruire una nuova umanità. Gesù, quando tocca la polvere, la terra, davanti all’adultera (cfr Gv 8, 6.8) scrive che noi siamo quello, polvere, e vuole toccarci. Se noi entrassimo nel suo perdono e imparassimo a perdonarci, le adultere e i carnefici rinascerebbero di nuovo. Nuovamente creati. Nuova creazione.
È così incredibile, pertanto, che sia possibile trovare una sottile linea comune tra la donna della Scrittura come essere che attende, e la donna di un film come essere che attende? Può esistere o no una linea sottile e forte – forse, concedo, non sarà una linea dritta ma avrà l’andamento dell’arabesco... – tra cose che sembrano tanto diverse? Giuseppe dell’Antico Testamento ha avuto accanto la moglie di Potifar, e cioè una donna che non ha atteso, che era incapace di attendere. E, con linguaggio moderno, abbiamo visto la medesima vicenda nella Rose del Titanic. In lei ho evidenziato la donna che non attende proprio nel senso di non saper ancorare nella realtà colui che lei ama. Ama in lui il suo vivere nell’irreale, nell’ideale immaginario, nel non esistente.
Ora, Giuseppe del Vangelo invece ha accanto a sé Maria, donna dell’attesa reale, del radicamento nella storia. Per questo vorrei iniziare il capitolo su Giuseppe e Maria parlando di un film di grande successo come A beautiful mind in cui c’è la splendida figura di Alicia Larde, colei che sradica il marito dalla follia, dall’essere lontano dalla vita, dell’essere lontano dalla vera speranza, cioè dalla sterilità, per condurlo all’àmbito della realtà, della vita, della speranza. È la storia di John Nash, il matematico che vinse il Nobel nel 1998 nonostante fosse affetto da una gravissima malattia psichiatrica. Accanto a lui, appunto, rifulge la splendida figura di Alicia Larde, la moglie: una giovane studentessa di matematica bella, brillante, intelligente e affascinata da quel professore così particolare.
Alicia è un meraviglioso esempio della donna che sa attendere. Dell’amore che sa strappare chi ama dall’irrealtà. Che ama il reale e non l’ideale. Che lo sa distogliere dall’ideale nel senso più deleterio e pericoloso per alimentare invece la parte vera, reale. Reale e non ideale, come dicevo più sopra. Alicia – lo vedremo – è colei che permette al proprio uomo di vivere, di incarnare il proprio sogno che altrimenti sarebbe rimasto solo un terribile delirio. La moglie di Potifar ha avuto verso Giuseppe un amore che cattura, non aperto verso l’altro: non era donna dell’attesa. Rose si è comportata allo stesso modo seguendo Jack nel mondo dell’irreale. Anche se in una dimensione interamente umana, Alicia, come Maria la sposa di Giuseppe, è invece donna dell’attesa: che sa amare l’uomo reale, che c’è, e lo sa condurre nella realtà.
L’amore è ciò che fa vivere e Alicia è questo per Nash, che così diventa un «Signore dei sogni», uno che realizza il Sogno.
Maria è la sposa che aiuta Giuseppe a essere sé stesso, a essere «Signore dei Sogni». Maria – donna dell’attesa – è per questo, prima di tutto, donna e madre. Così la presenta il Vangelo di Giovanni, quel quarto Vangelo che mai indica l’apostolo adolescente con il nome proprio, ma che lo designa sempre con l’espressione «discepolo prediletto»: allo stesso modo Giovanni non chiama mai la sposa di Giuseppe con il nome di Maria, ma la indica sempre come «donna» o «madre», proprio a sottolineare che quella è la sua definizione, quello è il suo nome.
In questo modo di riferirsi alla Madre di Dio c’è tutta la sapienza dello Spirito Santo. Maria è una donna, anzi, per l’Apocalisse è la donna per eccellenza. Lo Spirito Santo è l’Amore e Maria, che è tempio dello Spirito Santo, è tempio dell’Amore: non solo quello straordinario ma, innanzitutto, quello che troviamo ogni giorno. Quello quotidiano della realtà.
A Beautiful Mind
La moglie del protagonista di A Beautiful Mind, ho già detto, è l’opposto della Rose del Titanic.
Se quest’ultima aveva qualche somiglianza con la moglie di Potifar, Alicia, invece, è la donna che, come Maria, sa mostrare allo sposo in modo eccellente come prendere in mano la propria vita e farla diventare una storia: come trasformare il passato in «memoria» e così costruire la speranza, quella vera, cioè il sogno che si realizza. John Nash, impersonato nel film da Russel Crowe, vinse il Nobel per l’economia grazie ai suoi studi sulla teoria dei giochi, ma durante la sua vita fu colpito da una terribile forma di schizofrenia: deliri, allucinazioni, che gli facevano credere come veramente esistenti persone che, in realtà, erano solo sue proiezioni mentali.
Alicia però – l’attrice Jennifer Connelly – continua ad amare il marito dimostrando come l’amore vero sia quello che fa vivere veramente.
Poiché addito il film come esempio positivo di amore fedele nel matrimonio, è importante premettere che conosco le accuse che ha ricevuto di essere poco aderente al libro da cui è stato tratto (Sylvia Nasar, A Beautiful Mind, 1998, tr. it. Il genio dei numeri, Rizzoli, Milano 1999): dove invece si racconta che nella vita reale dei due protagonisti c’è stato anche un divorzio, seppur momentaneo. A ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Introduzione
  3. Giuseppe & i suoi fratelli
  4. Giuseppe & Maria
  5. Josemaría
  6. L’ostacolo per chi sogna: la compagnia della maldicenza
  7. Conclusione il Magnificat
  8. Bibliografia