Là dove non c'è tenebra
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Storie di amicizie tra scrittori

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Storie di amicizie tra scrittori

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Cicerone scriveva che l'amicizia è superiore a tutte le cose perché dona speranza e non fa piegare l'uomo dinnanzi al destino. Quando due persone scoprono di avere in comune un'idea, un interesse o anche soltanto un gusto, che gli altri non condividono e che, fino a quel momento, ciascuno di loro considerava un suo esclusivo tesoro (o fardello), può nascere con sorpresa un'amicizia. Vedere quello che altri non vedono, ecco la straordinaria condivisione che può unire due persone nell'amicizia. Cosa succede quando questo tipo di relazione nasce tra gli scrittori? Gli effetti sono spesso mirabolanti. A volte delle carriere letterarie sono nate in virtù di un'amicizia. Autori si sono influenzati reciprocamente, altri si sono aiutati, spesso hanno condiviso i propri destini, in alcuni casi anche tragici. Questo libro va alla scoperta di questo straordinario sentimento tra alcuni dei più celebri scrittori di tutti i tempi, da Melville a Manzoni, da Dumas a Tolkien, da Leopardi a Chesterton.

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Informazioni

Editore
Ares
Anno
2019
ISBN
9788881559015
Capitolo 1

Melville & Hawthorne









L’amicizia a volte non è solo condividere gusti, passioni, interessi, attività, ma è anche scendere insieme nell’abisso del cuore umano. È il caso di due amici, Nathaniel Hawthorne e Herman Melville, autori di libri come La lettera scarlatta e Moby Dick.
L’epoca moderna non ha perso il gusto dell’avventura, e nell’Ottocento, secolo della scienza e della tecnologia, del trionfo delle macchine, un uomo dal cuore sognante, malinconico e avventuroso, scrisse un grande classico della letteratura, un libro complesso, ma all’apparenza semplice. Scritto nel 1851, Moby Dick continua a essere pubblicato, letto, magari reinterpretato nel cinema, nel teatro, nella musica.
La storia è ben nota: la caccia a una balena bianca di nome Moby Dick da parte di un capitano di nome Achab che conduce la sua nave, il Pequod, con tutto il suo equipaggio, in un folle, allucinato inseguimento del cetaceo per i mari di tutto il mondo.
Il libro in realtà è molto più profondo di quanto possa sembrare perché assume una dimensione mitica.
Tutto in Moby Dick sembra essere fuori dal tempo e dallo spazio: la caccia sembra non finire mai, il Pequod veleggia sulle acque di oceani senza fine, tutto sembra muoversi e stare fermo allo stesso tempo.
Tutto il libro comunque parla di avventura, di ricerca e di fede. Lo aveva compreso perfettamente il primo traduttore italiano del capolavoro di Melville, Cesare Pavese: «Leggete quest’opera (Moby Dick) tenendo a mente la Bibbia e vedrete come quello che vi potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, vi si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano».
Così scriveva Pavese nel 1932 quando aveva ventiquattro anni e si era appena laureato con una tesi mirabile sulla poetica di Walt Whitman. La Balena, che inizialmente per Pavese rappresentava il vuoto, il nulla mostruoso, sottendeva il mito, un conflitto cosmico ancestrale accettato stoicamente.
«La coerenza del libro si celebra proprio in questa tensione che l’ombra fuggente del mistico Moby Dick induce nei suoi ricercatori. […] La ricchezza di una favola sta nella capacità che essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze. Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia di inseparabili».
Pavese aveva colto l’aspetto sacrale di questa opera. Un sacro che riconduce alla Divinità, in una forma misteriosa, celata, tutta da decifrare, e alle sue manifestazioni, che agli occhi dell’uomo possono apparire anche negative, oltre che incomprensibili. Il racconto della voce narrante dell’opera, che è quella del marinaio Ismaele, prende il via da una tentazione di auto-distruzione. Il motivo infatti per cui il giovane Ismaele decide di imbarcarsi sul Pequod e di diventare così testimone della sua febbrile e folle caccia alla balena, non è il desiderio di gloria o di successo o di potere o la ricerca di una sorta di Santo Graal, ma più drammaticamente e freddamente il tentativo di sfuggire alla noia, al tedium vitae. Melville realizzò l’epica della giovane America dell’Ottocento che aveva conquistato con la forza l’indipendenza, distaccandosi dalle sue radici britanniche ed europee, lanciandosi alla conquista di nuove frontiere. È l’epica di una nazione, ma anche di un tempo, l’Ottocento positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli.
I poemi epici di tutte le letterature tuttavia attingono a un patrimonio di miti preesistente; Melville quindi si ispira agli elementi dell’epica più antica, quella che vedeva uomini senza paura affrontare le sfide del mare: l’Iliade, l’Odissea.
Così come gli antichi poemi epici hanno influenzato profondamente tutta la tradizione culturale e letteraria dell’Occidente, rappresentando degli archetipi con cui hanno continuato a confrontarsi autori di epoche successive, che li hanno considerati modelli di stile e grandi repertori di personaggi e temi, vicende e situazioni eroiche e avventurose, così l’epica di Moby Dick è espressione della modernità occidentale, della sua ricerca, dei suoi dubbi e delle sue follie.
All’inizio del romanzo, troviamo una dedica: a Nathaniel Hawthorne. Era l’omaggio a un grande amico e collega scrittore con cui Melville aveva condiviso lunghe chiacchierate.
Moby Dick uscì pochi mesi dopo che nelle librerie era arrivato il capolavoro di Hawthorne: la Lettera scarlatta.
Due grandi libri: uno faceva i conti con la storia della giovane nazione americana, l’altro con l’epica oceanica. Entrambi, in ogni caso, rappresentavano un’esplorazione degli angoli più cupi del cuore umano. Erano una vera e propria discesa nell’abisso.
Herman Melville era nato a New York City il 1° agosto 1819, figlio di Allan, ricco commerciante, e di Maria Gansevoort. Si trattava di una famiglia benestante e che poteva vantare membri illustri. Il ramo paterno era in America da alcune generazioni: i Melville erano un’antica famiglia scozzese, mentre da parte materna discendeva dai primi coloni olandesi, quelli che avevano fondato Nuova Amsterdam, poi divenuta New York.
La famiglia di Melville era finita economicamente sul lastrico; il padre di Herman era morto di crepacuore e al giovane newyorchese toccò lasciare gli studi e andare a lavorare. Finì alla base della scala sociale: fece il mozzo sulle navi, tra cui le baleniere. Viaggiò per il mondo, per alcuni anni, e ciò che vide e incontrò ispirò la sua penna. Tornato in America, prese a scrivere e i suoi avventurosi romanzi di viaggio nei Mari del Sud ottennero un buon successo. Decise così di stabilirsi nel New England, la parte del Paese più intellettualmente stimolante.
Era appena iniziato quel periodo che fu chiamato il Rinascimento americano, il quale vide la pubblicazione di opere letterarie come La lettera scarlatta (1850) di Nathaniel Hawthorne, Walden (1854) di Henry David Thoreau, la prima edizione di Foglie d’erba (1855) di Walt Whitman e La capanna dello zio Tom (1852), di Harriet Beecher Stowe, autentiche pietre miliari della narrativa americana.
L’espressione Rinascimento americano venne coniata da un critico letterario, che vedeva nel movimento letterario e culturale fiorito intorno alla metà dell’Ottocento, alla vigilia della seconda rivoluzione industriale, un parallelo con il risveglio culturale avvenuto in Europa nel Cinquecento, auspicando per l’America un ruolo di nuova Atene o di nuova Firenze.
Tra i principali rappresentanti del Rinascimento americano, oltre ai già citati Thoreau e Whitman, spiccò il filosofo Ralph Waldo Emerson.
Questo movimento intellettuale che si estenderà poi anche alla generazione successiva e che stava a indicare l’esistenza di un impulso collettivo collegato al fiorire di una letteratura originariamente americana, era di poco successivo al Romanticismo europeo. Se nel Vecchio Continente avevano brillato i vari Goethe, Scott, Leopardi, e poi Dickens, Manzoni, e così via, in America era fiorito un movimento filosofico e poetico che, esprimendo – come il Romanticismo – una reazione al razionalismo, e partendo dall’affermazione di trascendentale kantiano (di qui la definizione di trascendentalisti) come unica realtà, esprimeva una esaltazione dell’individuo nei rapporti con la natura e la società, un tipo di filosofia che venne chiamata trascendentalismo, che si poneva come vigorosa affermazione dell’originalità della cultura americana nei confronti di quella europea.
Nel momento stesso in cui viene edificata la nazione americana, si respirava nelle ex-colonie un’intensità di intenti e ideali. Molti degli scrittori americani erano insegnanti ed educatori, che provavano un profondo e intenso legame di riconoscenza per la giovane repubblica che i loro padri avevano creato. Erano uomini liberi che si sentivano parte di una viva, organica, comunità credente, attiva nel perseguire scopi incompiuti, forse mai realizzati. Uomini che obbedivano a una profonda voce interiore di fede religiosa.
Il centro della vita culturale americana era il New England, La Nuova Inghilterra, una regione situata nella parte nordorientale del Paese e affacciata sull’oceano.
La Nuova Inghilterra fu la prima regione degli Stati Uniti a definire una propria identità. Originariamente abitata da popolazioni native, fu essa, all’inizio del Settecento, a ricevere i Padre Pellegrini, in prevalenza puritani inglesi, una minoranza in quel momento perseguitata in patria. Quelle del New England furono le prime colonie britanniche nel Nord America a elaborare progetti per l’indipendenza dalla Corona britannica.
La libertà e i diritti civili troveranno sempre terreno fertile nella cultura del New England, tanto che nel corso dell’Ottocento nasceranno qui i movimenti per l’abrogazione della schiavitù.
La città più importante del New England è sempre stata Boston, capitale del Massachusetts, che è pure il suo maggior centro culturale ed economico. Qui ha sede Harvard, una delle più prestigiose università del mondo. La Boston di Herman Melville e Nathaniel Hawthorne era il centro culturale propulsivo del Paese. Accanto ai club esclusivi, agli austeri ambienti bostoniani, agli eredi del puritanesimo dagli orizzonti ristretti, si era sviluppata una vivacissima vita intellettuale, umanitaria e artistica.
In questo contesto così poliedrico si affermò una narrativa che si propose di dar voce alle diverse anime di un’America che stava cambiando radicalmente a causa del forte impatto industriale, tecnologico e finanziario, e anche dall’arrivo di migliaia di emigranti che arrivavano dall’Europa.
In un’America che stava cambiando, la letteratura affrontò il bisogno di ritornare alle origini, alle realtà locali che sembravano destinate a scomparire sotto la minaccia della modernizzazione incombente, dell’immigrazione di massa, della standardizzazione progressiva dei costumi e dei modi di vita.
Era una letteratura che, nell’incessante ricerca della realtà, accoglieva in modo dialettico tutte le sue sfaccettature, cercando di amarle e descriverle come i mille volti di un’unica identità. Questa stessa tensione tra unità e poliedricità, però, rimase a volte irrisolta e venne vissuta come insolubile, in quanto a una cultura veramente nazionale si oppose una conoscenza legata alle regioni geografiche, alle diversità sociali, psicologiche e linguistiche, in cui la nazione americana continuava a essere divisa.
Melville crebbe in un’America ancora legata a un passato recente di cui si avvertiva la nostalgia, dove l’ebbrezza per l’irrompere di un mondo tecnologico si accompagnava al desiderio di conservare realtà semplici e domestiche, fatte di attenzione per le piccole cose, per la vita di ogni giorno, per la riscoperta di valori vecchi e nuovi.
Fin dai suoi esordi letterari, Melville spiccò per la sua originalità. Non voleva cantare le rosse foglie del Massachusetts che rendono così unico e affascinante il suo panorama, né rivolgere il suo sguardo alla frontiera lontana delle praterie. In un’occasione ebbe modo di recarsi nell’Illinois, nella zona dei grandi laghi, e ne rimase profondamente estraniato.
Se i suoi connazionali, a cominciare dagli artisti, sentivano una forte attrazione per la terra, per il radicamento, il suo sguardo si rivolgeva all’immensità dell’oceano. D’altra parte, i primi colonizzatori europei del New England si erano occupati soprattutto di attività legate al mare, come la pesca, e avevano sviluppato una particolare abilità per la caccia alle balene, superando i precedenti maestri europei, danesi e olandesi.
Un’intera isola del Massachusetts, Nantucket, si era sviluppata intorno alla caccia delle balene, e sarà proprio da Nantucket che salperà il Pequod per la sua caccia a Moby Dick. E di Nantucket era il suo terribile comandante, Achab.
Melville sembrò sempre avvertire il fascino dell’oceano, e volle conservare la memoria di questa prima rude epopea dei suoi abitanti, un’epica del confronto dell’uomo con la natura e con Dio.
L’opera che Melville desiderava scrivere nasce da una profonda inquietudine che era nel suo animo e allo stesso tempo dall’aspirazione di raccontare realtà straordinarie. In una lettera a Evert Duyckink, un consulente della casa editrice di New York per la quale aveva pubblicato, scriveva: «C’è in ogni uomo che si eleva al di sopra della mediocrità un qualcosa che, per lo più, si percepisce d’istinto. […] Io amo tutti gli uomini che si tuffano. Qualunque pesce sa nuotare vicino alla superficie, ma ci vuole una grossa balena per scendere a ottomila metri o più, e se questa non ce la fa a toccare il fondo, beh, tutto il piombo di Galena non basta a forgiare lo scandaglio in grado di farlo. Sto parlando dell’intero corpo dei “palombari del pensiero” che si sono immersi nel fondo per ritornare a galla con gli occhi iniettati di sangue da che è cominciato il mondo»1.
In questa lettera si avverte la giovanile ebbrezza di appartenere a una aristocrazia del pensiero, come avrebbe confidato tempo dopo a Nathaniel Hawthorne, con cui era nata una profonda amicizia. I due infatti si erano conosciuti quando Melville aveva preso dimora nel New England e aveva definitivamente posto fine alle avventure marinaresche.
Hawthorne, che è considerato il padre del romanzo storico americano, era nato vicino a Boston, a Salem, una località resa tristemente nota da un processo per stregoneria che vi ebbe luogo nel XVII secolo, e tra i giudici puritani che condannarono a morte diciannove persone, c’era anche un antenato dello scrittore. Hawthorne era nato il 4 luglio 1804, il giorno in cui l’America festeggia la propria Indipendenza. Perse il padre, capitano di marina, quando aveva solo quattro anni. Descrivendo la sua giovinezza, scrisse che nell’oscurità di quello che chiamava il suo «nido di gufo», nella casa famigliare, non viveva, ma sognava di vivere.
Frequentò un importante college, dove ebbe come compagni di scuola il futuro scrittore Henry Longfellow, e un futuro presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce.
Hawthorne, sposatosi nel 1842 con Sophia Peabody, un’artista trascendentalista, cominciò a scrivere racconti, e a lavorare come responsabile della Casa Cantoniera di Salem, un impiego pubblico che come tale era soggetto alla volontà – e alle ubbie – della politica. Le sue simpatie per i democratici infatti gli fecero perdere il lavoro in seguito a un cambio di amministrazione a Washington dopo le elezioni presidenziali del 1848. Si ritirò così nell’interno del Massachusetts, nel Berkshire, in un villaggio vicino all’abitazione di Melville. I due si conobbero e fu subito amicizia profonda. Tra i due c’erano quindici anni di differenza, Hawthorne aveva superato la quarantina, mentre Melville non aveva ancora raggiunto i trent’anni. Il matrimonio con Sophia aveva dato ad Hawthorne tre figli, mentre Melville aveva da poco iniziato la sua vita con Lizzie, che – a giudicare dai giudizi negativi sul matrimonio che Melville espresse in quegli anni nelle sue opere – non sembrava avere portato pace al suo cuore inquieto.
L’amicizia con Hawthorne fu di grande consolazione per il malinconico Herman: nella personalità matura, ma allo stesso tempo sofferente, di Nathaniel vedeva un fratello maggiore, se non il padre che gli era venuto a mancare. Un’amicizia che fu di stimolo intellettuale per entrambi, in particolare Melville ebbe a definire Hawthorne come lo scrittore americano in possesso della «qualità geniale più eccelsa e insieme più profonda di quella che finora non abbia dimostrato un qualsiasi altro americano nella carta stampata»2.
Nel giro di un anno, tra il 1850 e il 1851, entrambi produssero i propri capolavori.
La lettera scarlatta fu il primo grande romanzo storico americano, assumendo il ruolo che, per esempio, nella cultura italiana hanno avuto I promessi sposi. Come Manzoni, tra l’altro, Hawthorne ambienta la sua storia nel Seicento, ma in un contesto molto diverso se non opposto da quello rappresentato da Manzoni. Siamo nell’America delle colonie, nel New England puritano, ossessionato dal...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Melville & Hawthorne
  3. Leopardi & Ranieri
  4. Shelley & Byron
  5. Manzoni & Rosmini
  6. Brontë & Gaskell
  7. Yeats & Lady Gregory
  8. Verne & Dumas
  9. Wilde & Conan Doyle
  10. Joyce & Svevo
  11. Chesterton & Belloc
  12. Eliot & Pound
  13. Fitzgerald & Hemingway
  14. Orwell & Greene
  15. Mauriac & Gide
  16. Waugh & Knox
  17. Buzzati & Afeltra
  18. Lowell & Bishop
  19. Plath & Sexton
  20. Lee & Capote
  21. Guareschi & Manzoni
  22. Fruttero & Lucentini
  23. Carver & Gallagher
  24. Tolkien & Lewis
  25. Conclusione
  26. Note