APPENDICE & DOCUMENTI
LA PAROLA ALLA VEDOVA
La prima intervista di Gemma Calabresi
Un documento per la storia: la prima intervista rilasciata da Gemma Capra vedova Calabresi a un giornalista (l’autore di questo libro, all’epoca caporedattore di «Gente») dopo l’assassinio del marito. Fu pubblicata dal più diffuso settimanale italiano, allora diretto da Antonio Terzi, sul n. 45 del 7 novembre 1980.
DOPO OTTO ANNI DI SILENZIO, FORSE SAPREMO LA VERITÀ SULL’ASSASSINIO DEL COMMISSARIO
Gemma Calabresi: «Due cose so»
«Mio marito», dice la vedova della prima vittima del terrorismo in Italia uscendo da un lungo silenzio «ancora il venerdì prima di morire mi disse che aveva trovato delle prove sul lavoro sotterraneo compiuto da cervelli di estrema destra sui manovali dell’ultrasinistra: le piste si intersecavano» – «Già nel ’68 Pinelli ammise di aver fornito esplosivo per attentati dimostrativi. Tiri fuori quei verbali chi ha il dovere di farlo» – «Perché non fu detta subito la verità alla stampa?»
«Come l’hanno saputo i bambini? Leggendo i titoli dei giornali. Hanno letto i titoli dei giornali, qui sotto, all’edicola, mentre tornavano a casa dalla palestra. E allora sono venuti da me e me lo hanno detto. “Mamma”, mi hanno chiesto “è vero che hanno preso gli assassini di papà?”. I due più grandi, Mario e Paolo, se ne stavano lì, silenziosi, ma Luigi, il più piccolo, che è nato dopo la morte di mio marito, e il papà non l’ha mai visto se non nelle fotografie, era alterato e gli occhi pieni di pianto. Allora, poiché ho capito che quel bambino dentro di sé portava un odio tremendo, l’ho preso in braccio e ho detto: “Bambini, papà è morto, lo sapete, non c’è più niente da fare. Sapete anche che c’è qualcuno che lo ha ammazzato, è logico che ci sia qualcuno che lo ha ammazzato. Se li hanno presi, gli assassini, non lo so, ma so che noi non dobbiamo odiare nessuno. Mi avete capito?».
«Perdona loro»
Gemma Capra, la vedova del commissario di polizia Luigi Calabresi (assassinato, secondo le rivelazioni fatte in questi giorni, dai terroristi di Lotta Continua) è la donna che, otto anni fa, all’indomani del primo, feroce delitto politico nella storia del terrorismo italiano, fece pubblicare sui giornali un necrologio che incominciava con le parole pronunciate da Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Oggi ha 34 anni, è madre di tre bambini di 11, 10 e 8 anni, insegna religione alle scuole medie e preferirebbe non parlare dei fatti che hanno portato nuovamente il nome di suo marito sulle prime pagine dei giornali.
«In tutti questi anni», dice «ho cercato solo di tirar su bene i bambini, di tenerli fuori dal clima avvelenato che aveva preceduto e seguito la morte del loro papà. Per questo non ho mai parlato con nessun giornalista, neanche quando nacque Luigi, e la ferita ancora sanguinava. Ho sempre pensato che la nostra famiglia avesse pagato duramente e ho sempre sperato che ci lasciassero in pace. E poi mi dicevo: è gente che ha ammazzato una volta e può ammazzare ancora. Avevo forse torto?».
Gemma Calabresi è una donna forte, che si è fatta forza e ha saputo ritrovare il valore della vita, ma onestamente non potrei de scriverla come una donna spaurita e rassegnata soltanto a subire gli eventi. Una donna amareggiata e profondamente delusa, sì. Come tutti sanno, a partire da un certo momento della grande strage, fu deciso di dare alle vedove una “indennità” di 50 milioni, e oggi c’è anche una legge che assegna cento milioni alle famiglie delle vittime del terrorismo. Ma a lei furono date soltanto la liquidazione (cinque milioni), una pensione di 140 mila lire al mese e una busta chiusa del ministro degli Interni per il piccolo Luigi, che ancora doveva nascere, «da aprirsi quando sarà grande».
«Guardi che non è di questo che mi lamento, perché è chiaro che la vita di un uomo non ha prezzo», tiene a sottolineare, ma aggiunge: «Almeno la gente sappia che io sono l’unica vedova in Italia esclusa dalla legge dei cento milioni». Per fortuna, non vive in ristrettezze, perché suo padre, Mario Capra, stilista e importatore di tessuti inglesi, non le ha mai fatto mancare né affetto né aiuto concreto.
La «pista nera»
Ma c’è dell’altro, e non è meno sorprendente. Gemma Capra non si è mai costituita parte civile nel procedimento penale contro gli assassini di Luigi Calabresi. Perché? Disinteresse per la sorte dei colpevoli, o scarsa fiducia nei risultati delle indagini? A questa domanda, Gemma Calabresi non risponde. La risposta ci viene però da suo padre. Ed è una risposta dura: «Fino a oggi non abbiamo mai avuto la sensazione che fossero stati trovati i veri colpevoli». Come tutti sanno, la magistratura si è lanciata per anni sulla «pista nera» incriminando e perseguendo con mandati di cattura alcuni estremisti di destra, che poi sono risultati del tutto estranei al delitto. Aveva quindi ragione, Gemma Calabresi, a non costituirsi parte civile contro personaggi accusati ingiustamente in seguito a una montatura giudiziaria. Ma adesso?
«Adesso», risponde Gemma Calabresi «è ancora presto per prendere una decisione. Dei nuovi sviluppi delle indagini so soltanto quello che hanno pubblicato i giornali. E quello che hanno pubblicato i giornali non mi basta. Chi ha parlato? Che cosa ha detto? Sono stati fatti i nomi degli assassini? E gli assassini sono stati catturati o sono riusciti a fuggire? Lei può rispondere a queste domande? No. Lo vede, dunque? Io voglio la verità, sono la prima, credo, in tutta Italia, ad avere il diritto di conoscere la verità, senza zone d’ombra, senza dubbi, senza reticenze. Mio marito è morto perché le zone d’ombra e i dubbi sul suo operato sono stati lasciati colpevolmente dilagare da chi aveva il dovere di intervenire subito per stroncare la più indegna, la più vergognosa, la più tremenda campagna di linciaggio morale che un uomo innocente abbia mai dovuto subire in questo Paese.
«Perché i superiori di Calabresi e i capi della magistratura milanese non dissero subito, fin dal primo istante, che Giuseppe Pinelli si era suicidato, lanciandosi dalla finestra dell’ufficio di mio marito, in un momento in cui lui non si trovava nella stanza? Perché diffusero la falsa versione del malore di Pinelli? Perché, quando “Lotta Continua” uscì avanzando la tesi della “defenestrazione” e lanciando le prime, terribili accuse contro mio marito, non procedettero d’ufficio contro quel giornale, sequestrandolo nelle edicole e processandone i responsabili? Perché impedirono a mio marito di dire come si erano svolti i fatti?
«Niente. Non fu fatto niente. La campagna di linciaggio morale fu lasciata impunemente dilagare. Adagio adagio tutti, compreso il “Corriere della Sera”, si gettarono addosso a mio marito. So tutto, conservo tutto. Ho i ritagli bene ordinati nelle cartelle. Luigi fu costretto a dare querela a titolo personale, mentre colpita da quella campagna di stampa era tutta la polizia, il governo, lo Stato stesso. Ricordo bene, sa. Arrivavano da Roma i capi della polizia a battere la mano sulla spalla di mio marito: “Coraggio, Calabresi, si fac cia coraggio”. Poi arrivarono le comunicazioni giudiziarie della magistratura».
Perché il lettore possa comprendere bene le parole della signora Gemma Calabresi, sarà opportuno ricostruire i fatti che fanno da prologo alla tragedia.
12 dicembre 1969: strage di piazza Fontana. Sedici morti, 90 feriti.
Notte tra il 15 e il 16 dicembre: il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, fermato dalla polizia dopo l’arresto (avvenuto a Roma) del ballerino Pietro Valpreda, viene interrogato dal commissario Luigi Calabresi. Nell’ufficio del funzionario di polizia, al quarto piano della questura, sono presenti un tenente dei carabinieri e quattro sottufficiali dell’ufficio politico. «Come gli era stato ordinato dai suoi superiori», ricorda Gemma Calabresi, «mio marito iniziò l’interrogatorio con queste parole: “Valpreda ha parlato”. Pinelli sbiancò in volto e disse: “È la fine”».
Il direttore del “Giornale Nuovo”, Indro Montanelli, ha avanzato un’ipotesi diversa su come si sarebbe svolto, in realtà, quell’interrogatorio. Secondo questa versione, Calabresi, per far parlare Pinelli, sarebbe ricorso a un trucco. Avrebbe cioè manipolato un nastro sul quale era stata incisa una sua precedente conversazione con Pinelli, in modo da far apparire Pinelli stesso come un delatore nei confronti dei suoi compagni anarchici. E questo fatto (ossia il timore di venire considerato una spia dai compagni) avrebbe spinto Pinelli a suicidarsi.
«È la prima volta», dice Gemma Calabresi, «che sento una storia del genere. Mio marito non me ne parlò mai. Ricordo bene che mio marito era profondamente addolorato per il suicidio di Pinelli. Mio marito stimava Pinelli e so che questa stima era reciproca. Mio marito ha sempre insistito, anche dopo la morte di Pinelli, nel sostenere che il ferroviere a suo modo era un puro e che, se fu coinvolto negli atti preparatori della strage, vi fu coinvolto senza nemmeno lontanamente immaginare le conseguenze».
Un verbale
«Una cosa però so, con assoluta sicurezza. Che Pinelli già nel ’68 aveva ammesso di aver fornito esplosivo per attentati dimostrativi. Ci dev’essere un verbale sottoscritto da Pinelli. Mio marito me ne parlò, e non si trattava di ipotesi, ma di atti giudiziari. Li tiri fuori chi ha il dovere di tirarli fuori. E un’altra cosa so con certezza: mio marito non era nella stanza, quando Pinelli si suicidò. Si era alzato per andare a consegnare il verbale dell’interrogatorio al suo capo, il dottor Allegra. In quel momento, nella stanza c’erano un tenente dei carabinieri e quattro sottufficiali, i quali immediatamente riferirono che Pinelli si era avvicinato alla finestra facendo l’atto di gettare la cicca della sigaretta, e poi, di scatto, aveva spalancato le persiane e si era lanciato nel vuoto. Ripeto la mia domanda: perché non fu detta subito la verità ai giornalisti?».
Si preferì invece dichiarare che Pinelli, appoggiatosi al davanzale per prendere una boccata d’aria, aveva perduto l’equilibrio ed era precipitato nel vuoto. E ben presto incominciò il linciaggio.
Il primo giornale ad aprire il fuoco contro Calabresi è l’«Avanti!». Ci sono giornalisti che hanno costruito le loro carriere su Calabresi, come piraña. Il 21 febbraio 1970 «Lotta Continua» titola a piena pagina: «Per una indagine su un commissario al di sopra di ogni sospetto». A sinistra c’è la foto dell’attore Volonté, interprete del famoso film, a destra quella di Calabresi. Nella dicitura: «Quello di sinistra ha già confessato». È l’inizio di una sistematica campagna che ha per obiettivo non già la questura, o il questore Guida, o il capo dell’ufficio politico Allegra, ma Calabresi, proprio lui e soltanto lui. Ogni numero di «Lotta Continua» pubblica atroci vignette. In una si vede Calabresi che, con una piccola ghigliottina, insegna al figlio come tagliare la testa a una bambola che reca, sulla camicetta, la A degli anarchici. In via Mario Pagano, dove Calabresi abita con la moglie e i due figli, compare una scritta gigantesca: «Assassino di Pinelli».
Calabresi riceve le prime telefonate minatorie, le prime lettere anonime. Invano chiede ai suoi superiori di tutelarlo. Sono capaci solo di consigliargli la pazienza e la sopportazione. Calabresi è costretto a difendersi da solo, come se, anziché essere un funzionario di polizia, fosse un privato cittadino. Si rivolge all’avvocato Michele Lener e presenta querela per diffamazione aggravata contro il direttore responsabile di «Lotta Continua» Pio Baldelli. È il 20 aprile 1970.
Il processo inizia il 14 ottobre. Per Calabresi è la prova più dura. Migliaia di giovani, che gremiscono il piazzale e i corridoi del palazzo di giustizia, fanno ala al suo passaggio scandendo: «Assassino! Assassino!». Calabresi subisce il tiro di monetine e giornali. La città è cosparsa di scritte: «Calabresi assassino», «Calabresi sei il primo della lista», «Calabresi fascista», «Calabresi ancora pochi mesi», «Calabresi sarai suicidato», «Calabresi devi morire».
La campagna contro Calabresi è diventata una «kermesse», uno sport nazionale. I migliori «ingegni» della sinistra non si lasciano sfuggire la ghiotta occasione. Dario Fo scrive la farsa Morte accidentale di un anarchico, dove Calabresi diventa il «bieco commissario Cavalcioni».
La Cederna scrive Pinelli: una finestra sulla strage. In cambio delle accuse rivolte contro la polizia e lo Stato, la giornalista riceve, dallo Stato e dalla polizia, una scorta. Non manca il cronista «pierino» che, per mostrarsi più informato dei colleghi, scopre la «pista del karaté»: Pinelli è morto a causa di un «atemì», il colpo mortale del karaté, arte marziale nella quale Calabresi sarebbe particolarmente versato. Il sostituto procuratore della Repubblica Giovanni Caizzi, che aveva svolto l’indagine sulla morte di Pinelli, invia un esposto al Consiglio superiore della magistratura, lamentando il contenuto infamante degli articoli di stampa. L’esposto è archiviato perché «le frasi in questione vanno considerate come libera critica dell’operato della magistratura».
Intanto, il presidente della prima sezione di Milano, Carlo Biotti, lentamente trasforma il processo a Baldelli nel processo a Calabresi. Il 26 marzo 1971 Biotti è ricusato dall’avvocato Lener, il quale rivela un retroscena clamoroso. «Biotti», denuncia Lener «mi ha detto che dovrà assolvere Pio Baldelli, in quanto ha ricevuto in tal senso pressioni da componenti del Consiglio superiore della magistratura». I giudici competenti accolgono la ricusazione con la conseguenza che il processo contro «Lotta Continua» è sospeso e affidato a un nuovo giudice, mentre nessuno indagherà mai per sapere chi ha esercitato le pressioni.
«Stato assassino»
Ma le cose non cambiano. Quando Calabresi riceve la nomina a commissario capo, Milano viene tappezzata con manifesti a colori di Lotta Continua che lo mostrano con le mani alzate, lorde di sangue. Sotto, la scritta: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari».
24 giugno 1971: una novità clamorosa nella drammatica vicenda. Licia Pinelli, vedova di Giuseppe Pinelli, denuncia Calabresi per omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona e abuso d’autorità. Potrebbe essere una denuncia manifestamente infondata, dunque da archiviare, ma quindici giorni dopo la mossa giudiziaria della vedova Pinelli, arriva a palazzo di giustizia, e si insedia nella carica di procuratore generale, il dottor Luigi Bianchi d’Espinosa, il quale decide che la denuncia non dev’essere archiviata. Il 25 agosto 1971 egli fa recapitare a Calabresi una comunicazione giudiziaria per omicidio colposo: «... concorreva a causare per colpa la morte di Pinelli». Il superiore di Calabresi, Antonino Allegra, riceve a sua volta una comunicazione giudiziaria per «fermo illegale di Pinelli». Era quel che ci voleva per riaccendere la campagna di stampa che da qualche mese stava languendo. E difatti la stampa si scatena. «Lot ta Continua» guida il carro. «Lotta Continua» giornale e Lotta Continua formazione dell’ultrasinistra. In un manifesto di Lotta Continua è possibile leggere queste parole: «Chi ha messo le bombe in piazza Fontana? I fascisti pagati dai padroni, aiutati dalla polizia, protetti dai giudici. Chi ha ucciso il ferroviere anarchico Pinelli, buttandolo giù dal quarto piano della questura di Milano? Il commissario Calabresi, protetto dal questore fascista Guida, dal ministro degli Interni Restivo. Che cosa può fermare i proletari se non hanno paura dei padroni? Solo la paura di usare fino in fondo tutta la nostra forza. Un giorno saranno i proletari a fare giustizia. Nelle lotte di oggi impariamo a riconoscere i nostri nemici e a giudicarli. Domani avremo la forza di giustiziarli».
15 ottobre 1971: l’inchiesta aperta da Bianchi d’Espinosa contro Calabresi viene «formalizzata» e affidata al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che incrimina per omicidio volontario il dottor Calabresi, nonché il tenente dei carabinieri e i quattro sottufficiali presenti all’interrogatorio di Pinelli. La parabola è compiuta: ora, veramente, la campagna di stampa sembra trovare suggello in un atto, formale e gravissimo, dell’autorità giudiziaria. Sui grandi giornali, specie su quelli che della «obbiettività dell’informazione» hanno fatto un mito, la notizia viene presentata in maniera distorta. Nei titoli a piena pagina si legge: «Calabresi incriminato per la morte di Pinelli». Come se gli «avvisi di reato» non riguardassero altre cinque persone. L’opinione pubblica pensa: «Allora non erano calunnie, allora era tutto vero, allora Calabresi ha davvero buttato Pinelli dalla finestra».
Mano che non trema
In queste parole: «... per avere causato volontariamente la morte di Pinelli Giuseppe», scritte con mano che non trema da un giudice della Repubblica, si salda e si compie il destino di Luigi Calabresi. «Seguirono», ricorda Gemma Calabresi «sette mesi di inferno. Cambiammo quattro volte telefono, ci trasferimmo in via Cherubini. Ma non c’era scampo per noi».
Quei sette mesi sono contrassegnati da una serie di drammatici atti giudiziari e da una campagna di linciaggio morale ormai giunta allo spasimo.
Il 12 marzo 1972 ha luogo il teatrale esperimento del manichino gettato nel vuoto cinque volte dalla finestra di Calabresi, sotto i riflettori della televisione, che apre il telegiornale con quelle immagini. Il cadavere di Pinelli è riesumato per la seconda volta per ordine del giudice D’Ambrosio (la prima volta era stato riesumato per ordine di Biotti): si cercavano le tracce del «colpo di karaté».
Sui giornali, nelle librerie, sulle piazze, il linciaggio di Calabresi non ha soste. Al libro della Cederna, altri se ne sono aggiunti. Marco Sassano, un cronista dell’«Avanti!», ha scritto Pinelli, un suicidio di Stato, Marsilio Editori. Il capitolo dedicato a Calabresi è intitolato: «Il commendator Finestra». Marco Fini e And...