Guida minima al cattivismo italiano
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Che gli italiani siano cambiati, e non proprio in bene, è ormai un dato di fatto. Quella mutazione antropologica intuita da Pier Paolo Pasolini a metà degli anni Settanta è oggi ben più evidente e con tratti forse peggiori. E se in tutto l'Occidente si sono incrinate le democrazie e prevale un individualismo spaventato e consumista, l'Italia ha anticipato molti dei processi che oggi ci fanno guardare con sguardo preoccupato e disarmato l'involuzione civile che attraversa gli Stati Uniti e larga parte dell'Europa. Una deriva che parte da lontano, e cioè da quel 1989 che non solo non ha mantenuto le sue promesse ma ha segnato l'avvio di una nuova e spesso spietata globalizzazione del pianeta. In questo senso l'immigrazione è davvero il fenomeno che in modo più evidente permette di leggere il cambiamento delle culture degli italiani. Non l'unico, ovviamente. Ma l'immigrazione svolge una «funzione specchio» capace di rivelare la natura della società di accoglienza, portando alla luce ciò che è latente, un inconscio sociale lasciato nell'ombra.

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Informazioni

Editore
Eleuthera
Anno
2020
ISBN
9788833021119
Categoria
Sociology
capitolo ottavo
Né peggiori né migliori
Né peggiori né migliori… Non è andato tutto bene e, purtroppo, non va tutto bene. Mentre scriviamo queste pagine (agosto 2020) il sars-cov-2 si muove nel mondo a una velocità mai registrata dall’inizio dell’epidemia. I report della Johns Hopkins University dicono che il virus produce oltre 300.000 contagi al giorno. Gli sciami virali investono, con curve di crescita esponenziali, gli Stati Uniti e l’America Latina, ma anche l’India, la Russia, il Pakistan, il Sudafrica. L’onda della pandemia, che ha inizialmente viaggiato verso Ovest dall’Estremo Oriente, non solo non ha perso forza, ma si allarga con imprevedibili spirali su tutti i continenti e minaccia pericolose onde di ritorno anche dove, come in Europa, il peggio sembrava ormai passato. L’Organizzazione Mondiale della Sanità mantiene il più alto livello di allarme e parla di «lunga durata». Anzi. La speranza è tutta concentrata nella rincorsa al vaccino.
Dobbiamo, peraltro, fare i conti con tutte le incognite e le incertezze derivanti da una pluralità di sistemi di raccolta dei dati, che hanno prodotto, sin dall’irruzione del virus, letture quanto meno confusive se non reticenti e parziali. Ne scriveremo più avanti, ma è utile sottolineare da subito come il rapporto tra trasparenza statistica e grado di democrazia si sia configurato nel corso di questa emergenza sanitaria in modo direttamente proporzionale e come la veridicità dei numeri dei contaminati e dei deceduti rimanga una delle tante questioni cruciali non risolte.
A oltre otto mesi dall’irruzione del sars-cov-2 abbiamo ancora informazioni largamente lacunose, conseguenza dell’assenza di criteri condivisi e dell’oscuro sovrapporsi di manipolazioni politiche e di gelosie sanitarie o accademiche. Vale per l’Iran, dove gli infettati risultano superiori di 100 volte alle registrazioni ufficiali. Ma vale anche, sia pure in modo meno macroscopico, per tanti altri paesi, dalla Croazia, alle Filippine, alla Turchia. E in qualche modo per casa nostra. Un’indagine istat-Croce Rossa stima, in base a test sierologici effettuati su un campione rappresentativo della popolazione, che siano state infettate 1.482.000 persone, ovvero il 2,5% degli italiani. Un dato 6 volte superiore alle statistiche dei contagiati. Dato che ripropone una molteplicità di interrogativi sull’individuazione degli asintomatici e dei positivi lievi come sull’eventuale immunità acquisita. In realtà le incognite sul virus continuano a essere, come scrive la rivista «Nature», più numerose delle conoscenze. La stessa età mediana di coloro che sono stati colpiti è scesa dai 68 anni di inizio aprile ai 31 anni dell’ultimo mese (dati iss). Quanto sappiamo è comunque sufficiente per delineare i contorni di una catastrofe.
A livello mondiale più di 23 milioni di persone risultano, a oggi, contagiate. Erano 8 milioni a giugno. I decessi sono oltre 800.000. Complessivamente in Europa ci sono stati 2,5 milioni di casi e 195.000 morti. L’Italia è sesta, dopo Stati Uniti, Brasile, Messico, Regno Unito e India, nella scala internazionale, con un numero di vittime quasi 10 volte superiore a quante sono state dichiarate dalla Cina. Era al quarto posto a giugno.
Per nostra fortuna il covid-19 non ha l’indice di letalità, superiore al 70% degli infettati, dell’ebola. Un altro virus dei nostri giorni che ha però destato ben poco interesse perché riassorbito dentro i tanti flagelli africani. Fosse stato così, i morti sarebbero vicini ai 15 milioni a livello mondiale. Ed è una cosa su cui riflettere se assumiamo la pandemia come qualcosa di inaspettato ma non di totalmente imprevedibile. Perché il sars-cov-2 non è un «cigno nero», la metafora coniata nel 2007 dal filosofo e matematico libanese Nassim Nicholas Taleb, per descrivere «un evento isolato che produce un impatto enorme pur non rientrando nel campo delle aspettative, perché niente del passato poteva indicare in modo plausibile la sua possibilità».
Tutte le spiegazioni per giustificare l’accaduto non possono che essere elaborate a posteriori. Il virus corrisponde assai di più, per rimanere nell’ambito delle metafore «animali», al «rinoceronte grigio» di cui ha parlato l’economista Michele Wuker dopo la crisi finanziaria del 2008: qualcosa di sconvolgente a cui è associata «un’alta probabilità, ma di cui si sono trascurati i segnali di pericolo». È quanto è successo e rischia di succedere in un prossimo futuro.
Il rapporto World at risk del Global Preparedness Monitoring Board, un organismo indipendente delle Nazioni Unite, ci dice che tra il 2011 e il 2018 si sono registrate 1.483 epidemie in 172 paesi. Mentre il Global Health Security Index dell’ottobre 2019 annunciava, con non poca preoccupazione, che le 195 nazioni aderenti al Regolamento Sanitario Internazionale avevano una capacità assai bassa di gestire una possibile minaccia pandemica. L’Italia si classificava al 31° posto, ma con punteggi alquanto inferiori per quanto riguardava la rapidità della risposta e la mitigazione del contagio. Un terzo dei paesi risultava totalmente impreparato.
Eppure, della possibilità di un’epidemia su larga scala si parlava dagli anni zero del secolo, così come del problema delle malattie emergenti di origine animale. Le avvisaglie c’erano tutte: dall’epidemia di sars nel 2002 fino alla zika del 2016. Ora ne siamo tutti consapevoli. Come la mitica nottola di Minerva di Hegel. Abbiamo dovuto sbatterci contro, per scoprire che le epidemie non appartengono solo a un mondo distante, da cui ci separano molteplici e salvifici confini. Qualcosa di assolutamente lontano dai nostri orizzonti. La società dell’emergenza in cui da decenni siamo immersi non ci ha salvato dall’emergenza vera e più grave con cui ci siamo trovati a fare i conti da almeno mezzo secolo. L’iniziale sottovalutazione occidentale, peraltro causa della mancata attenzione al moltiplicarsi dei focolai di infezione, dipende ampiamente da questo non contemplato rovesciamento di ruolo: da spettatori immunizzati a compartecipi sconcertati e allibiti di una possibile apocalisse. La morte che occupa all’improvviso lo spazio pubblico, cancella lunghe rimozioni, entra come protagonista nella comunicazione di massa e innesca così un improvvisato e caotico scenario da fantascienza con l’isolamento/reclusione per quasi 3 miliardi di persone. Il più grande esperimento sociale in tempo di pace.
L’immagine di papa Francesco che avanza solitario al buio e sotto una pioggia battente in una piazza San Pietro deserta è un’icona che ha una valenza quasi epocale. Le sue parole rappresentano adeguatamente quello che è un sentimento collettivo diffuso, quasi palpabile: «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade, città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante». Per il papa ci siamo trovati «impauriti e smarriti, travolti da una tempesta che ha fatto cadere tutti gli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ego». Forse non è proprio così, ma in quei giorni era davvero una percezione che corrispondeva a un sentire comune e che sembrava preludere a un possibile e straordinario mutamento culturale.
Un microrganismo infinitamente piccolo – secondo la virologa Ilaria Capua ci stanno circa 10.000 virus di sars- cov-2 sulla punta di uno spillo – ha costretto, per usare un’espressione della filosofa Donatella Di Cesare, a «tirare il freno dell’emergenza della storia». Il deragliamento del treno ad alta velocità della globalizzazione ci ha però lanciati nel crollo più violento dell’economia dalla Seconda Guerra Mondiale. La Banca Mondiale ha elaborato due alternative, entrambe sconfortanti: se la pandemia persistesse a lungo, il pil globale potrebbe ridursi di quasi il 9%. Senza nuovi lockdown la contrazione sarebbe del 7%, comunque più del triplo rispetto alla crisi finanziaria globale del 2009. Se queste analisi saranno confermate, ci misureremo con la quarta recessione più grave degli ultimi 150 anni, dopo quella del 1914, del 1929 e, appunto, del 1945. I dati diffusi da eurostat a fine luglio non sembrano discostarsi molto dalle previsioni meno ottimistiche. L’Italia registra un crollo del -12,4% rispetto ai tre mesi precedenti, la Francia e la Spagna fanno peggio. Il prodotto interno lordo degli Stati Uniti è diminuito, su base annua, del 32,9%. Come se un terzo dell’economia americana fosse stata inghiottita dal covid-19 tra aprile e giugno. Soltanto la Cina sembra tenere. Seppure con un aumento del pil di appena l’1%, ai minimi dal 1976. Quanto lo tsunami sociale sia vicino ce lo dice l’istat. Rispetto a un anno fa oltre 500.000 italiani (dati ocse) hanno perso il lavoro. Senza il blocco dei licenziamenti sarebbero più di 1 milione. Altre 2,1 milioni di famiglie sono precipitate nell’indigenza assoluta. È la caduta dal filo di quegli «acrobati della povertà» di cui parla il censis, e cioè coloro che potevano contare solo su occupazioni saltuarie e irregolari che sono improvvisamente svanite. Un secondo lockdown porterebbe la disoccupazione al 25% e la povertà sopra i 10 milioni. Un salto dentro una catastrofe prossima ventura di cui è difficile immaginare l’evoluzione e l’esito, ma è anche un possibile salto all’indietro rispetto a un futuro distopico che ci riporti a un necessario nuovo inizio. O meglio a un bivio.
Si è scoperto che non solo è falso che «non c’è alternativa», ma che tornare indietro rispetto alle scelte economiche devastanti di questi decenni è l’unico modo per evitare di accentuare il collasso del pianeta. Lo studioso americano Ian Bremmer scrive che la pandemia «potrebbe rivelarsi quella crisi provvidenziale che il mondo non solo stava aspettando, ma di cui ha urgentemente bisogno. Perché il mondo, indipendentemente dal covid-19, era comunque a pezzi». I paradigmi politici e finanziari del neoliberismo, ritenuti fino a ieri sacri, appaiono finalmente esauriti. Scolpiti nella pietra dei palazzi della politica e dell’economia, sembrano sgretolarsi su sé stessi. Lo strapotere del mercato deve misurarsi con una nuova domanda di regia pubblica, di protezione collettiva. Giustamente Chantal Mouffe scrive che, per la prima volta dopo decenni, «potrebbe emergere uno scontro tra progetti contrapposti» come preludio a un nuovo contratto sociale. Non che sia scontato. Anzi, lo scivolamento in orizzonti autoritari, in una sorta di «democrazia immunitaria» per citare ancora Donatella Di Cesare, è un esito altrettanto concreto. In qualche modo è come se quello che abbiamo descritto nelle pagine di questo libro trovasse nella pandemia un’ulteriore amplificazione o, all’opposto, quella possibilità di inversione di rotta culturale e sociale che auspicavamo. Di certo, con quel mutamento antropologico degli italiani è necessario ancora fare i conti.
Codogno come Wuhan… Innanzitutto l’accelerazione e l’interconnessione, i tratti del mondo nuovo post-1989. Soltanto mezzo secolo fa con lo spillover tra il coronavirus di un pipistrello e quello di un pangolino, e dell’ulteriore salto di specie del virus con l’uomo, probabilmente non avremmo mai avuto a che farci. Il mercato di una megalopoli come Wuhan è stato una vera e propria base di lancio del sars-cov-2 verso l’intero pianeta. Non da Sud a Nord ma da Nord a Nord, cioè da un’area fortemente industrializzata e globalmente connessa ad altre aree altamente industrializzate e globalmente connesse e ugualmente inquinate. Il contagio non parte dalle tetre zone della povertà della terra, ma dai luoghi dell’innovazione, della concentrazione, della ricchezza. Con più precisione si potrebbe dire dal cortocircuito tra il lato oscuro della modernità, con la distruzione degli ecosistemi e delle biodiversità e il permanere di condizioni di arretratezza sanitaria e di sfruttamento lavorativo come quelle del mercato degli animali vivi della città cinese, e l’ormai inestricabile sistema globalizzato delle produzioni e degli scambi.
Come ci dice Ilaria Capua: «L’elemento dirompente è la velocità. Questo virus corre più veloce di quanto gli esseri umani fossero in grado di prevedere e di quanto siano in grado di reagire perché figlio di un sistema che marcia a una velocità insostenibile per il pianeta». E ancora: «Se là fuori fosse il 1800 o anche il 1950, il sars-cov-2 sarebbe arrivato in Europa già ‘ammorbidito’ a raffreddore». Di fatto «abbiamo prelevato dalla foresta qualcosa che è rimasto lì verosimilmente per decine se non centinaia di anni, ma l’abbiamo letteralmente iniettato in tutto il mondo». Istantaneità della diffusione del contagio e ritardo, perché «culturalmente ritardati» nel predisporre una difesa sanitaria. C’è un intero catalogo delle incomprensioni che è utile sfogliare velocemente. Dallo stupore per la reclusione degli 11 milioni di abitanti di Wuhan il 23 gennaio e poi dei 60 milioni della provincia dell’Hubei. Una costrizione che viene intesa come dimostrazione dell’autoritarismo cinese e ritenuta mai replicabile nell’Occidente liberale. A quella data pare che il virus circolasse indisturbato alle nostre latitudini. Il 30 gennaio l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava l’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale.
La reazione più diffusa, quasi un automatismo di quei processi di imbarbarimento civile di cui abbiamo scritto, è l’identificazione dell’immigrato cinese come untore. Vale la pena di soffermarci su questo passaggio a sottolineare lo scarto, quasi un burrone cognitivo, tra ciò che stava accadendo nella realtà e un’interpretazione che immediatamente sollecitava un innalzamento dell’emotività xenofoba. Molti esercizi commerciali cinesi si trovarono così ad anticipare il lockdown, e le immagini rassicuranti di cinesi con la mascherina, quasi un simbolo di interiorizzazione dell’emarginazione in corso, diventano il primo atto di un mutamento del nostro vestire che ci accompagna ancora oggi.
Pochi mesi dopo è toccato all’Italia essere confinata dagli altri. L’avere...

Indice dei contenuti

  1. Altri titoli dello stesso autore
  2. Frontespizio
  3. Colophone
  4. Prefazione
  5. Titolo
  6. Epigrafe
  7. Capitolo primo
  8. Capitolo secondo
  9. Capitolo terzo
  10. Capitolo quarto
  11. Capitolo quinto
  12. Capitolo sesto
  13. Capitolo settimo
  14. Capitolo ottavo
  15. Bibliografia di riferimento
  16. Titoli affini dal catalogo di elèuthera