Estetica virale
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Estetica virale

Lo spot pubblicitario nel capitalismo digitale

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Estetica virale

Lo spot pubblicitario nel capitalismo digitale

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Lo "spot", cambiando nel tempo nomi, vesti fino a diventare "virale", resta l'unica vera grande superstar della comunicazione, di ieri, oggi, domani. Per questo motivo il comunicatore deve avere su di esso uno sguardo critico e comprendere che la pubblicità è un'arte che non veicola solo un messaggio ben confezionato ma percezioni, sensazioni, emozioni, empatia. Il volume compie un'analisi di vari modelli di spot – realizzati con regie cinematografiche, su Youtube, con l'apparizione di celebrities, attraverso linguaggi che intrecciano etica e narrazione – mettendo in luce le categorie estetiche che ne tessono la trama: il genio, il gusto, il sublime, il kitsch… ALICE PALUMBO è socio dirigente di ASBORSONI e ASB\COMUNICAZIONE, docente presso l'Università Cattolica di Brescia di Media Content Management, e Consigliere del Direttivo dei Giovani Imprenditori di Confindustria Brescia. LUCA BORSONI PREVIDI è socio dirigente, oltre che Direttore creativo, di ASBORSONI e ASB\COMUNICAZIONE, è stato Presidente dei giovani imprenditori di Confindustria Brescia ed è membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione AIB oltre che del Consiglio di Amministrazione del Teatro Grande di Brescia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788828402619
Argomento
Business
Categoria
Pubblicità

1. Comunicazione pubblicitaria

1.1 La cultura visuale

La pubblicità non è solo informazione e non è solo comparazione, ma un’induzione a una vera e propria “persuasione occulta” (per usare un’espressione di packardiana memoria), finalizzata a dirigere il consumo, a sollecitare bisogni e desideri.
«Un tempo le norme morali imponevano all’individuo di adattarsi all’insieme della società, ma questo è l’ideologia ormai superata di un’epoca di produzione; in un’epoca di consumi, o che pretende di essere tale, sarà la società globale ad adattarsi all’individuo»1.
Non soltanto anticipa i suoi bisogni, ma si prende anche la cura di adattare se stessa non a questo o quel bisogno, ma addirittura all’individuo personalmente. Quando era di moda pettinarsi alla Bardot ogni razza alla moda si sentiva unica ai propri occhi, poiché il suo punto di riferimento non erano le migliaia di ragazze simili a lei, ma Brigitte Bardot, l’archetipo sublime da cui discendeva l’originale.
Con quale strategia? Il desiderio di possesso, l’erotizzazione dell’oggetto e la capitalizzazione del valore affettivo. Nella società capitalistica avanzata, per assurdo, la pubblicità fornisce gli strumenti per capirsi e le risposte alle domande inespresse, sintetizzando il tutto nel prodotto di cui si esaltano le proprietà sì miracolose ma alla portata di chiunque. L’attenzione con cui si sollecita e si induce l’individuo a sentirsi soggetto attivo in questa equazione è il segno che da qualche parte esiste un’istanza (sociale in questo caso) che accetta di informarlo sui propri desideri, di anticiparli e razionalizzarli ai propri occhi. Volli sottolinea come il meccanismo chiamato “iperseduzione” si attui in modo manipolatorio e conativo, lo scopo è innescare la necessità di far fare qualcosa a qualcuno, convincendolo che non potrebbe fare altrimenti per il proprio benessere personale. Per questo motivo il messaggio pubblicitario tende a virare l’attenzione dal contenuto al destinatario, che proverà emozioni tali da legarsi ai brand stessi. Il parallelismo che Volli porta è quello dell’ideologia di massa che sfocia nelle nuove religioni del mondo contemporaneo2. E il potere della marca è un potere fascinatorio, perché implica un’adorazione priva di riserve e un coinvolgimento emotivo estatico, totalizzante3.
Il grande fraintendimento a cui si va incontro quando si parla di pubblicità, come di altre categorie come il design o la comunicazione in genere, è dato dalla loro vicinanza all’esperienza artistica. Interrogarsi sul valore estetico della pubblicità non significa discutere sul fatto che rientri o meno nella categoria dell’arte – come se fosse invece possibile decidere cosa appunto sia l’arte. È possibile, però, cercare di usare quelle categorie che il pensiero critico ha usato per sondare il fenomeno artistico anche per il fenomeno pubblicitario.
Anche il fenomeno pubblicitario divide, in modo altrettanto controverso, lo spettatore. Il primo grande scoglio, nel target, è la fiducia nel messaggio veicolato. Da un punto di vista “tecnico”, ci sarà chi lo trova ben eseguito o addirittura geniale e chi no. Come delineato da Barthes, vi è una spaccatura tra chi segue comunque la pubblicità, anche solo per criticarla e minarne il nucleo comunicativo, e chi la rifiuta in blocco, cercando altre vie di informazione o, più radicalmente, altri prodotti che hanno la caratteristica di non essere pubblicizzati in toto. Anche in quest’ultimo caso si ripropone quella divisione tra un pubblico popolare versus target borghese, il primo comune e il secondo elitario ed esclusivo che vuole e può fare a meno dello strumento pubblicitario ( anche per un’associazione al rifiuto dei mezzi di comunicazione che lo veicolano).
Ci sono pubblicità, secondo il proprio gusto, che piacciono o non piacciono come altre definibili quasi universalmente attraenti o geniali; ne esistono alcune immediatamente definibili come “zelig” di modelli stranoti, altre del tutto sorprendenti; alcune più ermetiche, altre condivisibili, quindi comprensibili anche con altre culture, e lì esportabili; alcune che suggeriscono – proprio come quei prodotti indubbiamente “artistici” – esperienze possibili ben al di là del loro scopo commerciale.
Si dice che i campi della pubblicità e delle relazioni pubbliche, come quello della politica, siano affollati di professionisti che - con l’aiuto di tecniche efficaci e probanti - mettono ogni cura nella scelta delle parole e delle immagini giuste. Certamente, preparati e diligenti. Ci si interroga, spesso, sulla valenza, in modo oggettivo, di ciò che viene veicolato e detto. Della veridicità, come della responsabilità del messaggio. Quanto, in generale, il mondo della comunicazione sia permeato e sporcato da una quantità massiva di informazioni fuorvianti, fake news, ancor più che dalle pubblicità ingannevoli.
Un’altra critica mossa: la pubblicità ha fatto proprio fin da subito un patrimonio di conoscenze cristallizzate nei luoghi comuni, sia copiandone i meccanismi formali che i contenuti. Per quanto povero di materiale – una sola frase, una sola immagine – il messaggio pubblicitario porta con sé un’intera “immagine del mondo”. Sia per ciò che implica con il suo manifestarsi, sia per ciò che è necessario sapere e conoscere per comprenderli: un claim, un adv, uno spot si aprono a rappresentare un mondo possibile, un intero sistema di valori, credenze, rapporti sociali e politici.
La valutazione estetica può effettuarsi come un esercizio di interrogazione rispetto alla realtà che rappresenta attraverso il linguaggio adottato. In questo senso, è posto a contrasto con i tradizionali counter di validità della pubblicità stessa: l’efficacia, il costo, il gradimento del committente, la durata.
Ma non si può valutare la pubblicità dimenticando il piacere, la meraviglia, la comunicabilità della bellezza, caratteristiche non rapportabili al gusto del singolo o del target, oppure alla momentanea tendenza del mercato, ma a una complessiva “rappresentazione del mondo” (dei rapporti sociali, economici, politici) che è stata studiata e usata nel concept e che ne è la base sulla quale è stata strutturata e studiata la comunicazione relativa.
La pubblicità occupa un ruolo predominante nel vissuto di ogni uomo, tanto che lo si accusa di invadere il reale alterando gli schemi percettivi. Lo spettacolo, sia esso televisivo o pubblicitario, sembra essere un mondo senza replica, detentore del monopolio dell’apparire, all’interno del quale il fruitore deve sapersi muovere con grande scaltrezza se non vuole affondare in una scala di grigi della ragione. Cosa intendiamo? Che una fruizione consapevole delle possibilità che forniscono le nuove tecnologie e le vecchie (tv in primis) è ciò che consentirebbe il superamento di un mero attacco indifferenziato alle grandi opportunità aperte dall’era della spettacolarizzazione e della pubblicità.4

1.2 Post-medialità e comunicazione

Elemento essenziale, metafora e emblema di un’epoca e di una società sono, secondo McLuhan5, i media. Nell’elaborazione dei criteri di comprensione di questi strumenti, per prima cosa ne definì l’identità. Non solo i canonici stampa, radio, cinema, televisione ma anche abbigliamento, automotive, armi. A delineare che, con il termine media, si intende ogni prolungamento tecnologico dei sensi dell’uomo. Da qui l’interesse dell’autore ad analizzarne soprattutto la forma in cui ciascuno di essi tende a organizzare il proprio eventuale contenuto e a imporre particolari condizioni di fruizione. Notorio è il claim dell’autore: il medium è il messaggio.
Sulla stessa scia, ma in modo quasi ancor più radicale, Ruggero Eugeni in La condizione postmediale6 espone la teoria secondo la quale i dispositivi che chiamiamo media si sono in realtà dissolti in apparati di commercio, controllo, combattimento, gioco, viaggio e relazione propri della società contemporanea. Dopo l’età postmoderna, siamo entrati nell’era postmediale. Il suo saggio provocatoriamente sostiene le ere che precedono la morte dei media stessi: i media meccanici (1850-1914), i media elettronici (1915-1980) e i media digitali (1984-oggi).
Nell’esasperazione dell’ultima fase, come momento topico, Eugeni fonda come data cardine il 22 gennaio 1984. Durante il Super Bowl, lo sponsor del nuovo Macintosh irruppe nelle case degli americani, in una delle pause pubblicitarie finali del più grande appuntamento televisivo dell’anno. Non vi è alcuna rappresentazione del prodotto, se non attraverso la metafora di una giovane atleta che irrompe nel cinema e manda in frantumi lo schermo. Si tratta di una visione lucidissima, firmata Ridley Scott, di cosa sarebbe stati i media del futuro, ovvero i media di oggi. Comincia così, proprio con questa pubblicità profetica, per Eugeni, la fase di vaporizzazione. Il 1984 è la data convenzionale che indica due fenomeni che hanno portato alla fine dei media. Il primo è la moltiplicazione dei canali di erogazione dei prodotti mediali. Nuovi sono gli apparecchi di fruizione che lasciano lo spettatore libero da una fruizione del qui e ora, ad esempio i videoregistratori. Si diffondono negli anni ‘80, permettendo un uso più libero e personalizzato del proprio tempo (spostamento dell’asse della programmazione del palinsesto per un beneficio personale). Dal punto di vista spaziale, invece, i media diventano ubiqui. Walkman e iPod, successivamente, diventano la summa del consumo e della fruizione nomade e mobile. Il secondo è la digitalizzazione dei materiali che compongono i prodotti mediali. Il computer diventa un metamedia, in grado di ibridare nello stesso documento materiali differenti ed in grado di rimandare da un punto in punto, creando link.
Ma i materiali mediali in forma digitale presentano caratteristiche peculiari e intrinseche. Ogni copia è identica all’originale e può essere manipolata e modificata da chiunque abbia gli strumenti per farlo. Il digitale distrugge la gerarchia dei ruoli tra emittente e ricevente (recettore), l’emittente è depositario solo in parte di un originale dotato di valore sacrale mentre il recettore assume funzioni di autorialità e co-autorialità e distribuzione di materiali. Nasce quindi la figura del prosumer (producer+consumer). L’avvento del digitale contribuisce alla moltiplicazione dei canali di distribuzione sia on che offline. In particolare le nuove logiche di distribuzione e la digitalizzazione fanno in modo che vi siano nuove possibilità di interazione tra fruitori e media.
Questo panorama rivela una crisi radicale dei media otto-novecenteschi, motivo per il quale parliamo di una condizione postmediale. Analizzando il percorso che ci ha portato a questa riflessione, vediamo come negli ultimi due decenni del XX secolo i media, in quanto dispositivi, sono stati deindividuati fino a sparire all’interno di una rete di apparati, processi e pratiche che rendono impossibile isolare le componenti mediali da quelle non mediali. L’avvento di questa condizione è stato accompagnato da tre grandi momenti topici. La naturalizzazione, ovvero una nuova sintesi di natura e cultura, una occultazione della logica del mercato tale da non rendere percepibile l’atto del consumo. La più grande banca dati al mondo sui consumi e sui gusti in fatto di fiction è Netflix. Un patrimonio di big data di enorme valore che la società non concede neppure agli stessi produttori dei film e delle serie televisive che rende disponibili. A seguito: la soggettivazione dell’esperienza e, di conseguenza, l’oggettivazione del soggetto nella socialità, dove il controllo si esprime attraverso pratiche condivise di sorveglianza in cui siamo immersi (es. video camere nei luoghi pubblici, profili e attività sul web). L’ultimo step è quello della socializzazione della relazione intersoggettiva, ovvero il superamento della distinzione tra individualità del soggetto e convenzioni del suo contesto sociale è specificamente orientato a occultare una logica di potere.
Poco più di dieci anni fa il mondo si affacciava a internet, e di conseguenza, lo cambiava. In poco tempo, l’utente veniva reso non più spettatore ma atto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Indice
  6. Introduzione
  7. 1. Comunicazione pubblicitaria
  8. 2. I maestri del cinema nella pubblicità
  9. 3. YouTube: i dieci spot 2018 più popolari
  10. 4. Campagne premiate ai Cannes Lions 2018
  11. 5. Celebrity & Storytelling
  12. 6. Etica: dallo spettacolo ai nuovi media
  13. 7. Il Covid-19 e la gestione del potenziale digitale
  14. APPENDICE
  15. Bibliografia
  16. Sitografia
  17. Videografia
  18. Risvolto di copertina
  19. Gli autori
  20. Collana “L’arca di Scholé”