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FENIKS è un romanzo di denuncia ispirato da fatti realmente accaduti, in una Russia che discrimina pesantemente le persone LGBT ( Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender ). In Russia, tantissime persone appartenenti alla comunità LGBT vivono un vero e proprio inferno: innocenti presi di mira da un decreto insensato e crudele, adescate e derubate, picchiate, private dei documenti e tenute come ostaggi in cambio di denaro e favori. E per cosa? Perché sono nate nella semplice maniera in cui sono. La libertà, il rispetto e la dignità. Feniks parla di questo. Un cammino nell’oscurità dell’indifferenza e del pregiudizio umano, alla ricerca di uno spiraglio di speranza. Una speranza che le persone potranno migliorare, se solo vorranno ascoltare e vedere con i propri occhi che non c’è niente da temere, che non esistono reali differenze. Siamo identici, esseri umani con passioni diverse. Solo quelle. Feniks è una storia di ingiustizia e di paura. Parla di Eva, una pugile di grande successo e del dolore causato dalla perdita della sua compagna. Un omicidio misterioso su cui nessuno si dà grande pena di indagare. Feniks da una parte è fame di giustizia, dall'altra è un tentativo di comprendere cosa significhi stare dalla parte dei “nemici” del popolo. SINOSSI La polizia di Mosca ha tra le mani uno di quei casi scomodi che nessun poliziotto che si rispetti vorrebbe dover risolvere: i ragazzi e le ragazze omosessuali della città stanno venendo presi di mira da un aggressore seriale che, invisibile agli occhi di una comunità indifferente, si avvicina e li pugnala lasciandoli a terra, agonizzanti ma vivi. Ma un vero poliziotto, un vero uomo russo non ha alcun desiderio di fare giustizia ad un omosessuale tacciato come criminoso dalla legge di Stato. Questo pensa Isey Volkov, quando gli viene assegnato il caso. Ma sarà proprio questa difficile indagine a sconvolgergli la vita. L'incontro con la giovane Eva, famosa boxer professionista alla ricerca di giustizia per il perduto e segreto amore della sua vita, le vittime dell'aggressore e le loro famiglie, lo porterà verso la verità il sangue versato è uguale per tutti, il dolore è il medesimo nel cuore di ogni essere umano.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788893053785
Argomento
Literature
Categoria
Drama

IV

 
 
Dopo quattro giorni di indagini e prese in giro, Isey Volkov ha cominciato a contare più rughe sul proprio volto: Boris non risponde alle telefonate, i suoi rapporti sono poco dettagliati, se non addirittura totalmente incompleti. Le deposizioni raccolte dalle vittime dell’aggressore sono sparute e frammentarie. I tentativi di ottenere informazioni migliori si sono rivelati praticamente un fiasco totale. Nessuno ha voglia di parlare nuovamente delle aggressioni. Delle dieci vittime, ci sono due ragazzi e una ragazza ormai fuori dalla casa familiare, schivi e con nessuna voglia di confidarsi con un poliziotto. Tutti gli altri si sono nascosti o sono stati nascosti da famiglie riottose e ricolme di vergogna.
Il peggio è stato alla porta della seconda vittima, un giovane ricco studente universitario. La madre, una leonessa inferocita, ha minacciato di chiamare un avvocato così da far causa all’intero reparto investigativo. A Isey non è rimasto da far altro che scappare via a mani miseramente vuote. Mosso a compassione, Yuri, dall’alto della sua furbizia, poco prima di uscire dalla centrale per iniziare il suo turno, ha dispensato il consiglio per risolvere il problema. A Isey basterà un capro espiatorio. Un ubriaco magari. Un barbone con tendenze violente. A meno che non abbia voglia di continuare a fare il cavalier servente dei froci. Mandarlo al diavolo è stato pressoché un dovere.
Certo, il problema resta. Il capodivisione ha chiaramente detto di volere il colpevole in manette e il caso chiuso nel minor tempo possibile e con il minor rumore. Gli omosessuali e le loro continue manifestazioni sono un problema politico e il signor Makarov non gradisce la politica all’interno della sua giurisdizione. Sbuffa sonoramente Isey, la pioggia battente aumenta il volume della sua emicrania e il suo scontento. Come se guidare, diretto nei sobborghi di Mosca, non fosse già abbastanza deprimente. L’ultima persona della sua lista è la signora Deya Tabourina, la madre dell’unica vittima deceduta dell’aggressore seriale. Un ritardo di qualche minuto dell’ambulanza, il ragazzo perde troppo sangue e non arriva in ospedale. Fu la madre la prima a segnalare l’accaduto come crimine d’odio nei riguardi di suo figlio. Nessuna esitazione, nessuna voglia di nascondersi.
Ferma la macchina davanti a un complesso di palazzine, una attaccata all’altra, i mattoni marrone scuro, le finestre buie, i cortiletti poco curati, la vernice dei cancelli scrostata. Difficile dire se fossero verdi o bianchi, da appena montati. Il rumore battente delle gocce sul tettuccio tende i nervi dell’agente Volkov. Getta un’occhiata alle cartelle appoggiate sul sedile del passeggero, nessuno ha interesse in questo caso, nessuno se ne vuole occupare, o anche solo sentirne parlare. Né la polizia, né le vittime stesse. Dunque perché mandare via Boris e assegnare proprio a lui una simile grana? Perché i ragazzi e le ragazze omosessuali devono per forza ritrovarsi in locali fatti solo per loro? Perché ci sono locali fatti solo per loro? Se non ci fossero, l’aggressore magari non li avrebbe trovati e lui ora non sarebbe in una simile situazione. Soffia seccato, non c’è scampo e, per quanto sia irritante da ammettere, forse Yuri ha ragione. Senza alcun tipo di collaborazione, cercare qualcuno di altrettanto violento e meritevole di un bel periodo in prigione potrebbe essere l’unica rapida soluzione per far contento Makarov. Deve pensare alla sua carriera, Isey, non può mettersi nei guai, ha una figlia da mantenere e una pretenziosa ex-moglie da tener buona in qualsiasi maniera. Niente contro le vittime, figurarsi, ma che può fare. Si volta in direzione di uno dei portoni delle palazzine. Sbuffa per la terza volta. Scende dall’auto e corre lungo il cortile del condominio sotto il temporale. Legge velocemente tutti i nomi, ma quello che cerca manca. La pioggia si sta trasformando velocemente in neve, con una mano il poliziotto si copre gli occhi alla ricerca del numero civico: è nel posto giusto. Possibile che... . L’ordinata lista di campanelli ha un componente rotto, l’etichetta del nome rimossa. Riesce a farsi aprire da un’altra persona: è venuto finalmente a prendersi Deya? Sale tre rampe di scale, Isey, per quale ragione dovrebbe portarsi via qualcuno a cui è morto il figlio all’inizio dell’estate dell’anno prima?
Lungo il corridoio dalla pavimentazione grigio fumo, infondo, c’è una donna. È in ginocchio, con una spazzola sta fregando il legno della porta. La scritta rossa si vede fin dalla posizione dell’agente. Suka. Puttana. L’ombra di altre lettere più in alto. Pidor. Frocio. Una morsa fredda stringe il petto di Isey, come se qualcuno avesse appena infilato la mano tra le costole della gabbia toracica e gli stesse stritolando il cuore.
“Signora Deya Tabourina?” Si avvicina con circospezione il poliziotto, la donna sobbalza, si volta smettendo di sfregare con la spazzola. Ha due grandi occhi verdi, la pelle bianca e solo vagamente spruzzata di efelidi ormai opache sulle guance. Poco più grande di Isey.
“Oh! Agente, mi scusi davvero tanto. Sono impresentabile. Speravo di finire prima del suo arrivo, ma la vernice non se ne voleva andare. Mi scusi.”
Sorride, imbarazzata, mentre getta la spazzola nel secchio pieno di prodotti non troppo efficaci. Ha le mani arrossate e rovinate, unghie poco curate e cortissime. “Prego, è tutto bagnato, mi dia il suo cappotto. La gradirebbe una tazza di caffè?”
L’emozione che attraversa Isey è improvvisa, intensa, si sente quasi la febbre. Porta la mano destra a coprirsi gli occhi: la gentilezza di Deya, le sue mani rovinate, il campanello rotto della sua porta vandalizzata lo feriscono.
“Agente, si sente bene?”
Ma più di qualsiasi cosa, sono i pensieri avuti in auto che lo fanno sentire piccolo e meschino davanti ai grandi occhi di Deya, ora vicina, con una mano tesa in sua direzione.
“Agente?”
“Mi perdoni. Mi perdoni lei, signora Deya. Per averci messo tanto ad arrivare. Sarei dovuto venire ieri.”
Forse, se fosse arrivato prima, avrebbe potuto sorprendere chi ha scritto quelle odiose parole sulla sua porta. Abbassa la mano e trovarla sorridente è straziante.
“Non si deve preoccupare, agente. Venga, non stiamo qui, si gela.”
La casa di Deya Tabourina è piccola, come lo sono tutti gli appartamenti nei sobborghi. C’è un angusto angolo cottura con un tavolino rettangolare accostato al muro, un salotto di modeste dimensioni con un vecchio divano coperto di coperte di lana colorate, un televisore con dietro una massiccia libreria di legno ricolma di spessi tomi. Due porte e nulla di più. Alle pareti sono appese parecchie fotografie, ritraggono per lo più la crescita di un bambino. Stessi occhi verdi.
“Prego, si sieda agente, le porto subito un buon caffè. Sarà in piedi dall’alba.”
Si toglie il cappello e la giacca, Isey, permette alla gentilezza di Deya di riporli sull’appendiabiti accanto alla porta d’entrata. Seduto al piccolo tavolo, osserva la padrona di casa affaccendarsi per lui. Riesce a immaginarla mentre prepara la colazione a suo figlio, ormai ragazzo quasi adulto. Riesce a vederla mentre gli augura una buona serata, di fare attenzione e di provare a rientrare un poco prima dell’alba. Una fitta attraversa lo stomaco e si acuisce quando si ritrova davvero una tazza di fumante caffè nero sotto il naso e un contenitore di zollette di zucchero a fianco.
“Non aveva alcun vizio, Ermil, a parte questo.” Si siede davanti al poliziotto, la donna, l’attenzione fissa sulla zuccheriera di ceramica. “Fin da bambino, adorava le zollette di zucchero. Non poteva iniziare una giornata senza mangiarne una.” Sorride, batte le ciglia più volte e sospira profondamente. “Cosa posso fare per lei, agente?”
“Isey, mi chiami Isey, la prego.”
Annuisce la donna, le dita delle mani risciacquate incrociate sul tavolo.
“Io... io vorrei che mi parlasse un po’ di suo figlio. O di qualsiasi cosa avesse voglia di dirmi. La porta. Il campanello di sotto. Qualsiasi cosa, signora Deya.”
Il sorriso di Deya si rabbuia, china appena il capo, alcune ciocche di lisci capelli neri le scivolano davanti alle spalle ossute.
“È colpa mia. Non sarei mai dovuta venire ad abitare qui. Sicuramente me ne sarei dovuta andare quando i vicini scoprirono dell’omosessualità di Ermil. Avrei dovuto trovare il modo di trovare un altro posto. Ma, in un modo o nell’altro, mi convinceva sempre che invece dovevamo restare. Ci pensava sempre lui, appena sentiva qualcuno che si avvicinava usciva con in mano la scopa. Persino quando, tornando a casa dal lavoro, l’ho trovato pieno di lividi, è riuscito a far apparire tutto come una cosa da nulla. Era coraggioso, il mio Ermil. Molto coraggioso, più di me.” Inspira profondamente, la donna, le dita si serrano tra loro tanto da far sbiancare le nocche. Per una ventina di secondi si morde le labbra. “Ero una ragazza sciocca, signor Isey. Avevo diciotto anni quando rimasi incinta. Credevo che il mio ragazzo fosse il migliore. Metteva paura a tutti, mi sentivo importante quando mi additavano, dicendo ‘È la ragazza di Sergey’. Credevo di aver vinto alla lotteria, conquistandolo. Non avevo idea che spacciasse droga. Quando scoprì che aspettavo un bambino, la prima cosa che ha fatto è stata scaricarmi. Ero all’ottavo mese quando lo hanno preso e tutti a quel punto pensarono che anche io fossi coinvolta. Una delle sue prostitute. A scuola so che alcuni bambini dicevano a Ermil che i loro padri raccontavano che mi vendevo. Una madre single, poco istruita, niente famiglia a sostenerla e un bambino piccolo da mantenere. Di sicuro avevo ripreso le vecchie abitudini. Ed Ermil, lui che era così piccolo, pelle e ossa, finiva sempre in qualche rissa. Difendeva il mio onore.” Dalla tasca del maglione blu, lavato troppe volte, Deya estrae una fotografia plastificata: la appoggia con delicatezza sul tavolo, ritrae un bambino sui dieci anni circa, riccioli rossicci e due grandi occhi verdi. Ha in mano un aeroplanino di plastica, la fusoliera e le ali rosse, le pale grigie e delle stelle bianche a decorarne, in fila, la parte superiore delle ali. Sorride alla macchina fotografica. “Amo questa fotografia, me la feci stampare in questo piccolo formato per poterla avere sempre con me. Sarà accaduto dodici anni fa, una mia collega di lavoro era andata in vacanza a Firenze con il marito. Mi aveva spedito una cartolina. Ero contenta, non gioiosa, solo contenta. Ermil mi si attaccò ai pantaloni e mi chiese di mostrargli cosa avevo in mano. Gli dissi che posto ritraeva, il Duomo, in Italia. Non mi scorderò mai la sua espressione, seria come quella di un adulto. ‘Come si raggiunge l’Italia?’, mi chiese. Lì per lì non capii dove volesse andare a parare, non potevo immaginarlo. Gli dissi, ‘In aeroplano’. Da quel giorno cominciò a dire che avrebbe voluto tanto fare il pilota di aeroplani. Riesce a immaginare perché, Isey?”
Gli occhi dell’agente sono fermi sulla fotografia del piccolo Ermil. Ascoltare Deya è doloroso, non perché la sua storia sia canonicamente triste o così pregna di malinconia da toccare i tasti sensibili del suo ascoltatore. Isey vorrebbe poter parlare così di Karina. Vorrebbe poter avere ricordi tanto dolci di sua figlia e se ne ritrova sprovvisto, nonostante sia oggettivamente un uomo molto più fortunato e agiato di Deya.
“Voleva portarla a Firenze con un aereo?” Domanda retorica, quella del poliziotto, non è servito il suo brillante intuito per indovinare. La donna annuisce, un sorriso luminoso le piega le labbra.
“Sì, sì, si era messo in testa che voleva a tutti i costi portarmi in Italia e che doveva essere lui a guidare l’aereo. Lo diceva a scuola ogni volta che le maestre chiedevano che lavoro avrebbero voluto fare. Per comprargli quell’aeroplanino telecomandato ho dovuto metter via i soldi per un anno e mezzo. Ma com’era contento. Non mi importava di dover lavorare di continuo, mio figlio valeva ogni ora passata a faticare. Era un bambino meraviglioso, Isey, non si lamentava mai, anche se sapevo che era triste vedendo i suoi compagni andare a spasso con i loro genitori. Sapevo che probabilmente avrebbe voluto avere un papà come tutti, ma non me lo diceva. Non me l’ha mai detto, anzi. Mi ringraziava sempre, ogni singolo giorno. Grazie mamma. Per le più piccole cose. Non avevo i soldi per pagare una scuola di aviazione, figurarsi, ma lui era deciso. Avrebbe lavorato anche lui e avrebbe vinto una borsa di studio. Sarebbe diventato un pilota, per me, per potermi portare in Italia e vedermi contenta.” Si alza in piedi, Deya, si avvicina al lavabo, si scusa sommessamente mentre si soffia il naso, senza obbligare il poliziotto a guardarla, si versa un bicchiere d’acqua. “Ne vuole?”
“No, Deya, la ringrazio.” Poco professionale il pensiero che attraversa il cervello di Isey, sicuramente fuori luogo, ma vedere la donna tremare, colpita da quel minuscolo ringraziamento, fa salire nell’agente il bisogno quasi fisico di abbracciarla. Di rassicurarla che, in qualche modo, andrà tutto bene. Passa un minuto, forse qualche secondo di più, quando Deya si rimette seduta, ha gli occhi arrossati ma asciutti.
“Io sapevo che Ermil era gay. Non sapevo perché, se fosse colpa mia che non avevo trovato un altro uomo o se fosse colpa di qualcosa in generale. Semplicemente, la sua dolcezza, il suo modo attento con cui trattava le cose, le persone, tutto... . Lo sapevo. Me lo disse il giorno del suo sedicesimo compleanno. Mi chiese scusa. Aveva cercato di farsi piacere le ragazzine ma non le sopportava. Ero l’unica donna che riusciva ad adorare. Mi scongiurò di non odiarlo. Mio figlio mi pregò di non odiarlo, Isey. La nostra è una società che ha qualcosa che non va, se un ragazzo si sente in dovere di implorare la propria madre di non odiarlo. Gli tirai forte le orecchie e lo sgridai. Non solo non lo avrei mai odiato, ma fino e oltre il momento della mia morte lo avrei amato più di me stessa. Anche allora mi ringraziò, mi disse che era il ragazzo più fortunato di tutta la Russia. Che Dio lo aveva benedetto, mio figlio disse che Dio lo aveva benedetto per avergli permesso di nascere da me. Le è mai capitato di sentirsi tanto amato, Isey?”
Scuote il capo, il poliziotto, non una sola parola abbandona le sue labbra.
“Mi dispiace. Tutti dovrebbero poterlo sentire. Quelle sue parole hanno dato senso a tutto. Alla mia stupidità di ragazza, ai miei sbagli, ai miei momenti di debolezza. Ermil, quel giorno, mi rese una persona migliore. E continuò a farlo, cacciando via i vicini, non piegandosi mai davanti ai suoi compagni di scuola che lo prendevano in giro. Anche se lo picchiavano, anche se rendevano le sue giornate terribili. Si difendeva, ma senza mai esagerare. Senza lasciarsi infettare dall’odio. Finite le scuole superiori, lavorò per un anno in un bar, usciva all'alba, tornava a notte fonda. Studiava in biblioteca per prepararsi all’esame d’ingresso alla MAN, l’Istituto dell’Aviazione Nazionale a Mosca. E li passò gli esami, vinse la borsa di studio e cominciò così a frequentare. Io facevo tre lavori, ogni rublo che avevo accumulato ci serviva per comprare i libri.”
La massiccia biblioteca di legno viene indicata, tutti i libri che contiene sono inerenti all’aviazione, al volo, manuali spessi come mattoni.
“Era dura, non avevamo un attimo, ma Ermil era felice e lo ero anche io. Anche se i nostri vicini mi guardavano male o parlavano alle nostre spalle, grazie alla sua determinazione mi dicevo che le nostre fatiche ci avrebbero alla fine ripagati. Non mi rendevo conto, Isey, che più Ermil cresceva, più la voce si spargeva e più era in pericolo. Quando due anni fa mi chiamarono dall’ospedale, pensai di morire di crepacuore. Era uscito con degli amici, usciva pochissimo, li avevano picchiati tutti e tre, un branco di venti uomini. Andammo alla polizia ma, beh, Ermil mi disse che non importava. I lividi sarebbero passati, avrebbe avuto un’eroica cicatrice sotto l’occhio. Si sarebbe difeso meglio la prossima volta. Lo sapeva che ci sarebbe stata. Mi vergogno di quello che gli chiesi. Lo pregai di nascondersi. Di fare in modo di convincere tutti di essere eterosessuale. Io non mi vergognavo di lui, Isey, questo è importante che lei lo sappia. Io non volevo che lo aggredissero di nuovo. Non volevo una prossima volta. Ma sia benedetta la sua testardaggine e il suo cuore. Mi chiese ‘Mamma mi ami?’. Gli dissi di sì, certo che lo amavo. Con tutta l’anima. Replicò che allora non poteva nascondere la persona che amavo tanto. Non poteva. Perché lo amavo, esattamente com’era.”
Deglutisce rumorosamente la donna, porta il dorso della mano destra sotto il naso, scaccia via due lacrime traditrici.
“Quando lo aggredirono, lui stava tornando a casa da un locale. Il Central Station Club. È un locale gay, ci andava due volte al mese, mai di più. Per ballare, per sfogarsi un po’. La polizia all’inizio disse che si era trattata di una rapina finita male, ma, quando mi restituirono i suoi effetti personali dall’ospedale, nel portafoglio c’erano ancora dei soldi, il suo cellulare, le chiavi della macchina. C’era tutto. Dopo le aggressioni successive, quando effettivamente i suoi colleghi si resero conto che Ermil era solo stato il primo, mi sentii in parte sollevata. Pensavo che alla fine sarebbe stata fatta giustizia. Però quando il suo collega è venuto qui, ecco, non voglio parlar male di lui ma...”
La testa di Deya si abbassa colpevole, il volto devastato dalla stanchezza e dall’ombra di un’amara rassegnazione. L’agente la fissa, ripensa al se stesso di una quindicina di minuti prima, seduto nella macchina sferzata dalla tempesta. Che cosa potrebbe fare, per le vittime dell’aggressore seriale, per Ermil? Ora sa la risposta. Allunga la mano destra, fino alla fotografia plastificata sul tavolo.
“Il mio collega non fa più parte del dipartimento investigativo di Mosca, Deya. È stato trasferito. Ora ci sono io a lavorare su questo caso e le prometto, anzi, glielo giuro, troverò la persona che le ha portato via suo figlio. Quando lo avrò fatto, tornerò qui con il suo permesso e la aiuterò a ridipingere la porta della sua casa. Ora voglio lasciarle il mio numero. Se i suoi vicini di casa dovessero tornare a molestarla, mi chiami.” Gli occhi di Deya sono tornati lucidi, sgranati, il viso è contratto dall’incredulità. “Non mi ringrazi. Io non ho fatto nulla per lei. Né come persona, né come garante della giustizia. Ma intendo farlo, come il mio collega non è stato in grado. Per quello che vale, detto da uno sconosciuto, lei è davvero una donna straordinaria. Una delle migliori che abbia incontrato fino ad oggi.”
Il tocco della mano della donna è tiepido, leggero: la fotografia del piccolo Ermil viene posata sul palmo dell’agente. “La prenda. Se non le è di disturbo, la prenda e la tenga. Ermil di sicuro approverebbe.”
Il pianto di Deya è privo di singhiozzi, è silenzioso e dignitoso. Quello di Isey, all’interno della sua auto, è ricolmo di una tristezza gelida, come la neve che sta scendendo dal cielo. La consapevolezza del piccolo Ermil e il suo aeroplanino rosso lo straziano, tanto da obbligarlo a chinarsi sul volante.
 
 

V

Per il traffico di Mosca non c’è nulla di più comune della neve, ma questo non toglie che sia il solito impiccio, capa...

Indice dei contenuti

  1. PREFAZIONE
  2. I
  3. II
  4. III
  5. IV
  6. V
  7. VI
  8. VII
  9. VIII
  10. IX
  11. X
  12. XI
  13. XII
  14. XIII
  15. XIV
  16. XV
  17. XVI
  18. XVII
  19. XVIII
  20. XIX
  21. XX