Introduzione
elogio della semplicità
«It would be disappointing if so fundamental a change as Einstein has introduced involved no philosophical novelty».
(B. Russell)
Il breve saggio di Schlick, che si presenta qui in traduzione italiana, è interessante da molti punti di vista, come cercherò di mostrare in queste pagine, ma è particolarmente suggestivo, proprio perché anticipa il grande dibattito sulla teoria della relatività di Einstein che si avrà negli anni ’20 del secolo scorso, e si colloca in un momento che si potrebbe definire “sospeso”: la teoria della relatività ristretta non si era ancora imposta – e tuttavia contava già i suoi avversari, soprattutto in campo fisico, ed aveva già suscitato reazioni, più o meno scomposte, in ambito filosofico – e la teoria della relatività generale era ancora ai primi albori. Si tratta dunque di un vero e proprio lavoro pionieristico, scritto però con mano sicura e con grande competenza. Del resto Schlick aveva una solida preparazione scientifica, essendosi addottorato in fisica nel 1904, sotto la guida di Max Planck.
Einstein, al quale Schlick aveva mandato il suo scritto, lo apprezzò moltissimo e si complimentò immediatamente con Schlick: «ieri – scrive Einstein – ho ricevuto il Suo saggio e l’ho già studiato attentamente. È una delle cose migliori che siano state scritte finora sulla relatività. In ambito filosofico sembra che non sia stato scritto nulla sul tema che anche soltanto vi si avvicini per chiarezza». Einstein non si limitò però a questi apprezzamenti generali; egli entrò anche nei dettagli, individuando con estrema lucidità gli aspetti più significativi dello scritto di Schlick: «il rapporto della teoria della relatività con la teoria di Lorentz – egli osserva – è esposto in modo eccellente e davvero magistralmente il rapporto con la dottrina di Kant e dei suoi seguaci. La fiducia nella “certezza apodittica” dei “giudizi sintetici a priori” difficilmente può essere scossa dalla conoscenza della non validità di uno solo di questi giudizi. Molto corrette sono anche le Sue considerazioni relative alla vicinanza del positivismo alla teoria della rel[atività], senza che per questo la implichi. Anche in questo Lei ha visto giusto: questa corrente di pensiero ha esercitato un notevole influsso sui miei tentativi, in particolare E. Mach, ma ancor più Hume». L’impressione tanto favorevole che Einstein trasse dalla lettura del saggio di Schlick lo indusse probabilmente ad interessarsi anche alle ulteriori opere del filosofo, tanto da riconoscersi quasi completamente, almeno in questo periodo, con l’epistemologia di quest’ultimo. «Domani – scrive nuovamente a Schlick – parto per l’Olanda per due settimane e, come unica lettura, mi sono preso la sua Teoria della conoscenza. A dimostrazione di quanto volentieri la leggo».
Nelle pagine che seguono mi richiamerò alle considerazioni di Einstein riportate sopra, come ad una sorta di fil rouge, concentrando dunque la mia attenzione sui tre aspetti emersi fin qui: il rapporto tra la teoria della relatività ristretta e la concorrente teoria di Lorentz; gli aspetti metodologici e più in generale epistemologici dello scritto del 1915 ed il suo rapporto con l’opera maggiore di Schlick, l’Allgemeine Erkenntnislehre (1918); la discussione con le differenti posizioni filosofiche ed in particolare col neokantismo.
1. Un fulmine a ciel sereno?
I miti e le leggende, si sa, sono duri a morire, anche perché la realtà è quasi sempre meno affascinante e sorprendente. Questo vale naturalmente anche per la teoria della relatività di Einstein. È senz’altro molto suggestivo pensare che uno scienziato solitario, geniale, anticonformista, un outsider che non era neppure stato tanto brillante a scuola, abbia tirato fuori dal cilindro, come per magia, una teoria rivoluzionaria. Sorprendentemente questa leggenda fu alimentata dallo stesso Lorentz che, nel 1927, un anno prima della sua morte, in occasione di una conferenza organizzata per il quarantennale dell’esperimento di Michelson e Morley dirà:
«non vi può essere dubbio alcuno sul fatto che egli [Einstein] l’avrebbe concepita [la teoria della relatività] anche se il lavoro teorico di tutti i suoi predecessori in questo campo non fosse stato affatto compiuto. In questo senso il suo lavoro è indipendente dalle teorie precedenti».
Le cose, naturalmente, non andarono affatto così. Senza nulla togliere alla genialità e all’arditezza di Einstein, la teoria della relatività ha una storia abbastanza lunga, che affonda le sue radici almeno nell’elettrodinamica di Maxwell, come denuncia già il titolo della memoria dello stesso Einstein, che fece conoscere al mondo la sua teoria: Zur Elektrodynamik bewegter Körper (1905). Una storia che ha senz’altro come protagonista Lorentz, di cui dirò tra breve, ma che passa necessariamente attraverso i lavori di Oliver Heaviside e di Heinrich Hertz sulla deformazione dei campi generati da cariche in moto ad altissima velocità, e sulla simmetria formale nella formulazione delle equazioni di campo. Né si deve dimenticare che altri scienziati erano giunti ad un passo dalla formulazione di una teoria equivalente alla teoria della relatività. Spicca fra tutti Henri Poincaré il quale, fin dalla metà degli anni ’90 del xix secolo, si era interrogato sulla connessione tra spazio e tempo e in La mesure du temps (1898) aveva sostenuto la tesi che spazio e tempo possono essere percepiti in modo differente da osservatori che si trovino in moto traslato uniforme. I tratti essenziali della teoria della relatività, che verranno avanzati da Einstein in forma di postulati, erano già presenti ed utilizzati con piena consapevolezza da Poincaré: il principio di relatività e la costanza della luce. È vero che Poincaré non elaborò mai una teoria della relatività, come oggi potremmo intendere quella di Einstein, ma riuscì a dare una risposta a tutti quei temi che successivamente Einstein riunì sotto un’unica teoria, in forma assiomatica. Si può dunque sostenere che, da un punto di vista e...