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Leggere e scrivere al tempo
del digitale
Al tempo dei media digitali si legge di più o si legge di meno? Leggere a schermo modifica il nostro modo di comprendere i significati? E cambia il nostro modo di scrivere? Sono alcune delle domande che genitori e insegnanti si pongono per capire quali siano spazi e tempi corretti da lasciare ai dispositivi a casa, a scuola, nel tempo libero.
Crisi della lettura?
Il rapporto ISTAT sulla lettura, pubblicato nel dicembre del 2018, indica che il solo 41% della popolazione italiana di età superiore ai sei anni nel 2017 ha letto almeno un libro per ragioni non professionali. Di questi, solo il 13% si possono considerare “lettori forti”, ovvero lettori che leggano più di tre libri l’anno.
Le indagini INVALSI e OCSE-PISA consentono di aggiungere elementi utili a capire come il problema non sia solo quantitativo ma qualitativo, e investa quello che viene definito come “analfabetismo funzionale”, ovvero non l’incapacità di leggere per mancanza di competenze (si continua a insegnare e a imparare a leggere e scrivere), ma la difficoltà a farlo comprendendo quello che si sta leggendo e utilizzandolo in maniera consapevole.
È inevitabile che questi dati vengano posti in relazione con la diffusione degli schermi digitali. In Italia 55 milioni di persone dispongono di un accesso a Internet e, in media, passano 6 ore al giorno sul Web e 2 di esse nei social. Ma ancora una volta non è il dato quantitativo a essere maggiormente impattante, quanto quello qualitativo. I contenuti disponibili in Rete sono “pacchettizzati”, ovvero tendono a risparmiare al lettore il lavoro di smontaggio e rimontaggio che è fondamentale per acquisire autonomia critica nell’interazione con le forme culturali (Roncaglia, 2018). Inoltre, il numero dei contenuti che si riescono a processare e la rapidità con cui lo si fa possono illudere che le prestazioni in tema di apprendimento stiano migliorando, senza considerare che gli apprendimenti reali si ottengono quando si trasferiscono le informazioni elaborate dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine (Carr, 2010).
Dunque è il digitale a compromettere il nostro rapporto con la lettura fissato da secoli di carta stampata?
Il cervello che legge
Maryanne Wolf (2010; 2018), neuroscienziata, da anni studia il cervello che legge. Credo sia utile seguirla nella sua riflessione.
Il punto di partenza è la constatazione che non siamo nati per leggere: il nostro cervello non è dotato di aree specializzate in tal senso e quindi imparare a leggere comporta di rispecializzare zone della corteccia non destinate alla lettura in modo da renderle adatte al compito. Il cosidetto “circuito della lettura” nasce così. Esso è il risultato di un processo di “riciclaggio neuronale”, come suggerisce il neuroscienziato Stanislas Dehaene (2007): alcune aree della visione situate nella regione occipitale divengono adatte a riconoscere i grafemi e poi vengono messe in relazione con le aree del linguaggio che presiedono al riconoscimento uditivo, alle competenze fonologiche, al lessico. Questa rispecializzazione di alcune aree corticali è alla base dell’atto della lettura. Esso consta di una sequenza estremamente complessa di processi compresi in un tempo di circa 500 millisecondi. Sinteticamente e senza entrare nel dettaglio, si può dire che entro i primi 170 millisecondi sono al lavoro i fotoricettori e le aree visive dei lobi occipitali. Questi frammentano lo stimolo visivo e lo rendono disponibile all’area occipito-temporale sinistra, ovvero la “regione della forma visiva delle parole” che ospita i “neuroni della lettura” (Dehaene, 2007) rispecializzati in seguito al processo di apprendimento della letto-scrittura. I neuroni di quest’area procedono al riconoscimento delle lettere. Poi la parola viene processata in parallelo dalla via fonologica e dalla via lessicale. La prima coinvolge il planum temporale, la zona superiore dell’omonimo lobo, che svolge una funzione chiave nella sintesi di parole e suoni, un processo che si compie tra i 225 e i 400 millisecondi dopo che il grafema è stato registrato sulla retina. La via lessicale, che occupa parte della regione temporale media e basale e parte della circonvoluzione frontale inferiore, è invece chiamata in gioco nel riconoscimento dei significati. Essa lavora a partire dai lessici di cui il cervello dispone (in media circa 50.000 parole), selezionando i significati plausibili da associare alle parole che vengono lette sulla base delle co-occorrenze tra lettere che iniziano a verificarsi già dal momento in cui la parola inizia a disegnarsi sulla retina.
Fig. 1 - Il circuito della lettura secondo
le correnti teorie neuroscientifiche
(Fonte: Patterson, 2015).
Fin qui il processo fisiologico che spiega la materialità dell’atto della lettura, ma come si giunge dall’atto materiale del leggere alla comprensione e all’interpretazione di un testo? La Wolf definisce lettura profonda l’insieme di processi che consentono al lettore di comprendere quello che sta leggendo e di attribuirvi un significato. È la lettura profonda a essere oggi parzialmente compromessa, come sopra accennavamo a partire dai dati delle statistiche.
Leggere in profondità
La base della lettura profonda è il ragionamento analogico. Esso presiede all’attribuzione di significato a quanto stiamo leggendo a partire da script che sono già presenti nella nostra mente: vale per il funzionamento dei generi, per la grammatica del racconto, o più semplicemente per le situazioni quotidiane che abbiamo imparato a riconoscere o per i sistemi di credenze che si sono fissati in seguito alle nostre esperienze.
Sulla base di questa premessa è possibile raggiungere i livelli più alti della lettura profonda, quelli che chiamano in gioco il lettore come colui che è invitato ad attivare la “macchina pigra” (Eco, 1979) del testo. Si tratta di immaginare mondi possibili, di lavorare sulle disgiunzioni di possibilità presenti nel testo, di seguirne sviluppi possibili attraverso la costruzione di vere e proprie “passeggiate inferenziali” (Eco, 1994).
Naturalmente il versante cognitivo non è il solo a essere sollecitato. Il testo attiva le competenze emotive del lettore (Levorato, 2018), favorisce lo sviluppo di empatia fino a configurare l’esperienza della lettura come una vera e propria esperienza clinica (Recalcati, 2018). La Wolf (2019) spiega bene questo punto, sottolineando come quando si legge si sia portati a vedere le cose dell’universo narrativo con gli occhi dei personaggi. Fare questo significa mettersi nei panni degli altri, provare quello che provano: è un’esperienza che Vittorio Gallese ha spiegato molto bene nelle sue basi neurofisiologiche dimostrando che il circuito specchio rende possibile nell’uomo una vera e propria simulazione incarnata di quanto viene vissuto per interposta persona nell’universo narrativo, in maniera particolarmente efficace se si sta parlando di un racconto per immagini come nel caso del cinema (Gallese e Guerra, 2015). Se ci mettiamo nei panni degli altri, se grazie al racconto impariamo a “leggere nell’anima” dei personaggi, impareremo a comprendere meglio anche quello che caratterizza il nostro mondo interiore. Se si leggesse di più, conclude la Wolf, forse si sarebbe meno aggressivi e meglio predisposti verso gli altri.
La scrittura che cambia
Quanto alla scrittura, in maniera totalmente controintuitiva, i dati dicono che si scrive decisamente di più oggi che rispetto a qualche decennio fa. Ma certo questo dato quantitativo va interpretato: non si scrivono più saggi, o più romanzi; spesso la scrittura è funzionale alla comunicazione privata e professionale; si scrivono mail, si posta sui social. La scrittura si accorcia, si fa sintetica. Gli schermi digitali sono a questo riguardo un fattore codeterminante: proprio perché si dispone di poco tempo, il formato dello Short Message risulta assolutamente funzionale, ma a lungo andare quel formato finisce per modificare la nostra attitudine alla scrittura e così finiamo per essere sintetici sempre, anche quando non servirebbe o forse sarebbe meglio non esserlo.
Andrea Lunsford, professoressa di inglese all’Università di Stanford, ha concepito una ricerca longitudinale (lo Stanford Study of Writing) che studia come si modifichino le pratiche di scrittura degli studenti nel corso dei cinque anni della loro permanenza in Università. E il dato è che negli ultimi anni è progressivamente cresciuta la capacità dei partecipanti di scrivere testi sintetici, perfettamente centrati sul loro obiettivo, capaci di raggiungere il destinatario in maniera efficace.
Ma si può dire che sia andata modificandosi anche la pratica stessa della scrittura. Sono passati più di vent’anni da quando Landow (1992), nel suo libro Ipertesto, il futuro della scrittura, disegnava quella che oggi è diventata la normalità. In quegli anni si discuteva se scrivere a video modificasse o meno la pratica della scrittura. Era un dibattito condizionato dalla diffusione relativamente recente dei sistemi di videoscrittura e dalla resistenza di pratiche più consolidate: nel 1988, la mia tesi di laurea la scrissi ancora sulla mia vecchia Olivetti; poi, dopo averla corretta, la inserii nel mio AT&T nuovo di zecca. Continuava a funzionare, dietro alle mie decisioni, una rappresentazione imperfetta del computer, soprattutto in quegli anni non si riusciva ancora a immaginare come fosse possibile scrivere direttamente sullo schermo. Il libro di Landow proprio su questo punto iniziava a coagulare la riflessione. Due erano le considerazioni principali, ancora oggi assolutamente valide: la videoscrittura è una scrittura virtuale e tridimensionale.
Virtualità e tridimensionalità della scrittura digitale
La virtualità della videoscrittura dice dell’infinita modificabilità del testo. Non ci sono più la brutta e la bella, scompare la prima bozza e con essa tutte le correzioni successive. Esiste solo un testo fluido, modificabile a piacere, che a un certo punto, quando lo si ritenga pronto, viene stampato. La stampa, il momento in cui si fissa sul supporto cartaceo, ne decreta l’attualizzazione, ma subito dopo posso riprendere a modificarlo in digitale. La differenza rispetto alla scrittura tradizionale si registra nel momento della dispositio. Al tempo della scrittura su supporto fisico doveva essere rigorosamente a priori: immagino, per così dire, il testo nel suo distendersi prima nella mia testa e poi lo trasferisco su carta; e ho bisogno di sapere cosa viene prima e cosa viene dopo. Non prevederlo significherebbe costringersi a troppi interventi di correzione che la pagina, con il suo spazio limitato, non consentirebbe. Sullo schermo, invece, l’organizzazione della pagina è completamente diversa: la scrittura può procedere per accumulazione, partendo da un abstract, espandendolo, incominciando dalla fine, spostando le parti del testo attraverso il taglia e incolla. A una scrittura sequenziale se ne sostituisce una “a mosaico”: il labor limae sul supporto cartaceo si esprim...