Conclusione
Il trionfo di Fomà Fomìč fu pieno e incontestabile. Realmente, senza di lui nulla si sarebbe combinato e il fatto compiuto schiacciava tutti i dubbi e tutte le obiezioni. La riconoscenza dei «felicitati» era senza limiti. Lo zio e Nàsten’ka mi sventolarono addirittura le mani addosso, quando mi provai a fare una leggera allusione al processo con cui si era ottenuto il consenso di Fomà alle loro nozze. Sàšen’ka gridava: «Che buono Fomà Fomìč! Io gli ricamerò un cuscino di lana!» e mi svergognò perfino per la mia mancanza di cuore. Il neoconvertito Stepàn Alekséevič, credo, mi avrebbe strozzato, se mi fosse saltato in mente di dire in sua presenza qualcosa sul conto di Fomà Fomìč. Adesso andava dietro a Fomà come un cagnolino, lo guardava con venerazione e a ogni sua parola aggiungeva: «Tu sei un uomo nobilissimo, Fomà! Tu sei un dotto, Fomà!» Per quanto poi riguarda Eževìkin, egli era al colmo dell’entusiasmo. Il vecchietto s’era accorto da un bel pezzo che Nàsten’ka aveva fatto girar la testa a Egòr Il’ìč, e da allora, nella veglia e nel sonno, non aveva fatto che sognare come dargli in moglie la propria figliola. Egli era stato dietro alla cosa fino a che c’era stata una possibilità e ci aveva rinunziato solo quando era impossibile non rinunziare. Fomà aveva restaurato le sorti. Naturalmente il vecchio, nonostante il suo entusiasmo, leggeva dentro a Fomà Fomìč; insomma, gli era chiaro che Fomà Fomìč s’era insediato in quella casa per sempre e che la sua tirannia ormai non avrebbe più avuto fine. È noto che le persone meno amabili e più capricciose si ammansiscono, sia pure solo temporaneamente, quando si soddisfano i loro desideri. Fomà Fomìč, tutt’al contrario, pareva farsi ancor più strambo nella buona fortuna e levava su la cresta sempre più in alto. Proprio prima di pranzo, cambiatosi di biancheria e di abiti, egli sedette nella poltrona, chiamò lo zio e, in presenza di tutta la famiglia, si mise a fargli una nuova predica.
«Colonnello!» cominciò, «voi contraete un’unione legale. Comprendete voi l’obbligo…»
Eccetera, eccetera; figuratevi dieci pagine nel formato del Journal des Débats, della stampa più minuta, piene della roba più bislacca, fra cui non c’era un bel nulla sugli obblighi, ma solo le più spudorate lodi dell’ingegno, della mansuetudine, della generosità, del coraggio e del disinteresse di lui medesimo, Fomà Fomìč. Tutti erano affamati; tutti avrebbero voluto pranzare; ma, ciò malgrado, nessuno osava contraddirlo, e tutti ascoltarono con reverenza fino alla fine le sue stramberie; anche Bachcèev, con tutto il suo tormentoso appetito, restava a sedere senza parlare, con la massima deferenza. Saziatosi della propria eloquenza, Fomà Fomìč infine divenne gaio e a pranzo alzò perfino discretamente il gomito, pronunziando i brindisi più singolari. Egli si mise a far dello spirito e a scherzare, naturalmente, alle spese dei giovani. Tutti ridevano forte e applaudivano. Ma alcuni dei suoi scherzi erano salaci a tal punto, e così poco ambigui, che perfino Bachcèev si confuse. Infine Nàsten’ka balzò su da tavola e corse via. Ciò piombò Fomà Fomìč in un entusiasmo indescrivibile; ma egli si ritrovò subito: in brevi, ma energiche parole dipinse le virtù di Nàsten’ka e levò un brindisi alla salute dell’assente. Lo zio, che per un momento si era confuso e aveva sofferto, era adesso pronto ad abbracciare Fomà Fomìč. Del resto, fidanzato e fidanzata parevano vergognarsi l’uno dell’altro e della propria felicità, e io notai che fin dalla benedizione essi non s’erano ancora detta una parola e sembrava anzi che evitassero di guardarsi a vicenda. Quando ci si alzò da tavola, lo zio scomparve a un tratto non so dove. Cercandolo, arrivai sulla terrazza. Là, seduto in una poltrona, davanti al caffè, concionava Fomà, tutto pieno di baldanza. Accanto a lui c’erano solo Eževìkin, Bachcèev e Mizìncikov. Io mi fermai ad ascoltare.
«Perché», gridava Fomà, «perché io son pronto a salir subito sul rogo per le mie convinzioni? E perché nessuno di voi è capace di salire sul rogo? Perché, perché?»
«Ma questo poi sarebbe anche inutile, Fomà Fomìč, salire sul rogo!» si spassava Eževìkin. «Be’, che gusto c’è? In primo luogo, si soffre, e in secondo luogo, ti bruciano, che ne rimane?»
«Che ne rimane? Una nobile cenere rimane! Ma come potresti tu comprendermi, come potresti apprezzarmi? Per voi non esistono grandi uomini, all’infuori di un qualche Cesare o Alessandro il Macedone! Ma che han fatto i tuoi Cesari? Chi han reso felice? Che ha fatto il tuo celebrato Alessandro il Macedone? Conquistò tutta la terra? Ma dammi una falange come la sua, e anch’io conquisterò, e anche tu conquisterai, e anche lui conquisterà… In cambio egli uccise il virtuoso Clito, mentre io il virtuoso Clito non l’ho ucciso… Moccioso! Cialtrone! Picchiarlo con le verghe bisognerebbe, e non esaltarlo nella storia universale… e insieme con lui anche Cesare!»
«Cesare almeno risparmiatelo, Fomà Fomìč!»
«Non risparmierò un imbecille!» gridava Fomà.
«E non risparmiarlo!» interloquì con calore Stepàn Alekséevič, che aveva pure alzato il gomito, «non è il caso di risparmiarli; son tutti saltimbanchi, vorrebbero tutti solo piroettare su un piede! Salumai! Ecco, uno, poco fa, voleva fondare non so che borsa. E che cos’è una borsa? Lo sa il diavolo cosa vuol dire! Scommetto, qualche nuova porcheria. E quell’altro che, in una società come si deve, tracciava monogrammi e chiedeva del rhum! Secondo me, perché non bere? E tu bevi, bevi, poi mettici un tramezzo, e poi bevi magari di nuovo… non c’è da risparmiarli! Tutti furfanti! Tu solo sei dotto, Fomà!» Bachcèev, se si dava a qualcuno, si dava tutto, incondizionatamente e senza critiche di sorta.
Io trovai lo zio in giardino, presso lo stagno, nel sito più remoto. Egli era con Nàsten’ka. Vedendomi, Nàsten’ka sparì come una freccia nei cespugli, quasi fosse colpevole. Lo zio mi venne incontro con un viso raggiante; nei suoi occhi c’eran lacrime di entusiasmo. Egli mi prese per le due mani e le strinse forte.
«Amico mio!» diss’egli, «io non credo quasi ancora alla mia felicità… Nàstja pure. Noi non facciamo che meravigliarci e lodare l’Altissimo. Poco fa lei piangeva...