1. Homo apocalypticus
L’orizzonte contemporaneo della discussione
Esiste un’esperienza del tempo originariamente messianica, tale cioè che ci rende responsabili delle sofferenze che lo “schema di questo mondo” produce a danno degli abitanti della terra? Questa è la domanda di fondo, la “costante”, che attraversa i vari capitoli di questo libro. Potrebbe allora sembrare strano che io inizi con una riflessione sull’apocalittica, che nell’uso corrente del termine evoca immediatamente “catastrofismo”. Ma Gesù il Messia, che fu un apocalittico, anche se molti e tra questi i teologi fanno fatica a pensarlo, non ebbe mai un atteggiamento catastrofico, e visse in una continua presa di responsabilità verso tutti coloro che gemevano sotto il peso del suo tempo. Anche la riflessione teologica contemporanea, dopo molte ingenue adesioni alla “teologia del progresso”, che cavalcava, anche nella visione della storia umana, il successo del giustificatissimo evoluzionismo delle scienze della natura, ha preso maggiore consapevolezza critica dei problemi.
Nel 1977 Johann Baptist Metz pubblicò una serie di “tesi inattuali sull’apocalittica”, sotto il titolo di “Speranza come attesa imminente o la lotta per il tempo perduto”. L’intenzione dichiarata, fin dall’inizio, era quella di proporre dei correttivi a una coscienza cristiana che ha affievolito il senso del tempo come attesa. E l’apocalittica veniva intesa come “concetto teologico di secondo ordine [Reflexionsbegriff ] funzionale alla tematizzazione del fattore ‘tempo’ nella teologia”.
Son passati più di quarant’anni da quel saggio. Esso seguiva di sette anni la pubblicazione di un esegeta, Klaus Koch – Difficoltà dell’apocalittica – che si presentava come “scritto polemico su un settore trascurato della scienza biblica e sugli effetti dannosi per la teologia e la filosofia”. L’apporto più importante del libro di Koch era il richiamo dell’attenzione degli interpreti attuali sul fatto che l’apocalittica doveva essere intesa, al di là dell’immaginario nel quale si articolava, come espressione di gruppi per lo più minoritari che non si rassegnavano alla legittimazione dell’esistente. Metz non citava mai Koch, ma la sua concezione dell’apocalittica andava nella stessa direzione.
Ancora nel 1977, usciva postumo, grazie alla fatica degli allievi che avevano pazientemente raccolto le schede della sua lunga ricerca, un grosso libro di Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali al quale, per quanto io ne so, i teologi non hanno dedicato soverchia attenzione. Il merito delle ricerche di De Martino, a mio avviso, era soprattutto quello di fare della mentalità apocalittica, in quanto rifiuto della forma dell’esistente, quasi un trascendentale, un atteggiamento necessario in quanti non si rassegnano, a ragione o a torto (importantissima la prima parte del libro dedicata allo studio delle psicopatie), alla piega che ha preso la loro vita. L’apocalisse protocristiana in particolare, che non è affatto statica, come pretenderebbe il Cullman di Cristo e il tempo, sarebbe stata una grande operazione culturale atta a superare un duplice rischio, incompatibile “con il dispiegarsi di una vita culturale comunitaria: il rischio dell’imminenza che rende ormai inoperabile il mondo e soffoca ogni effettiva testimonianza comunitaria, e il rischio della attualità che chiude gli ‘eletti’ in una fruizione beatificante altrettanto inerte e inoperosa. Il Cristianesimo si formò nella lotta contro questi due rischi, e questa stessa lotta è nel quadro della tematica del Regno”. Tappe fondamentali di questa grande operazione “culturale” del cristianesimo primitivo furono, secondo De Martino, la predicazione gesuana del Regno imminente, il superamento d...