Frontiere contese a Nordest
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Frontiere contese a Nordest

L'alto Adriatico. Le foibe e l'esodo giuliano-dalmata

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Frontiere contese a Nordest

L'alto Adriatico. Le foibe e l'esodo giuliano-dalmata

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La storia dell'Alto Adriatico tra Ottocento e Novecento. Il nazionalismo italiano, l'irredentismo e il «fascismo di confine», tra ideologia, squadrismo e suprematismo etnico. La «bonifica etnica» dei territori italianizzati tra le due guerre. Le politiche di occupazione italiana in Slovenia e i rapporti con la Croazia nel secondo conflitto mondiale: il trattamento delle minoranze, il destino degli ebrei, i crimini di guerra italiani. L'occupazione tedesca della «Zona di Operazioni Litorale Adriatico»; la risiera di San Sabba, le deportazioni e i crimini contro i civili. Il dramma troppo a lungo dimenticato dell'infoibamento: le foibe come tragica realtà e come simbolo. L'esodo degli italiani: pulizia etnica o che cos'altro? E poi la lunga fine: Frontiere contese a Nordest affronta anche il tema del trattato di pace e le sue ripercussioni, il territorio libero di Trieste, il Memorandum di Londra.Tutta la storia delle frontiere a Nordest. Approfondimenti, un ricco apparato iconografico e una cartografia realizzata ad hoc per capire tempi e luoghi di questa tormentata vicenda.
Un libro per informarsi senza pregiudizi. Per ricordare.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788877075536
Argomento
History

06

LA FINE DI UN’EPOCA

6.1Il nuovo orizzonte della contesa

Il destino del Nordest italiano era in mano al confronto tra inglesi e jugoslavi. Tra i primi prevalse, non senza conflitti di interpretazioni, l’ipotesi di un accordo «plausibile» con Tito. Che avrebbe implicato una revisione delle intenzioni originarie, ossia l’occupazione angloamericana di «tutto» il regno d’Italia, quindi anche della regione istriana. Sta di fatto che, nella dialettica conflittuale che vigeva anche all’interno dei diversi partiti comunisti che componevano la Lega dei Comunisti Jugoslavi, gli sloveni optassero, il 7 marzo 1945, per l’occupazione di Trieste nonché la liquidazione di tutti i «soggetti reazionari», formula volutamente ambigua per lasciare ampio spazio a eventuali rese dei conti. La nascita di una nuova armata, la IV, al comando del giovane e ambizioso generale Petar Drapšin, diede sostanza all’intendimento. La nuova formazione, che sempre meno aveva il carattere di organizzazione partigiana e sempre più di formazione di un esercito, aveva un preciso compito, ossia puntare verso Fiume, l’Istria e Trieste. L’ordine era occupare la Venezia Giulia, creando una situazione di fatto nel più breve tempo possibile, anticipando quindi gli Alleati in quella che venne in seguito chiamata «corsa per Trieste».
L’offensiva di Drapšin iniziò già il 20 marzo, presagendo il crollo prossimo venturo del dispositivo nazista, arrivando a metà aprile a occupare le isole di Pargo e Arbe, per poi risalire verso il Nord. All’epoca, le truppe britanniche erano ancora attestate in Romagna, sul fiume Senio. La IV Armata e il IX Korpus sloveno, quest’ultimo già presente nella Venezia Giulia, dal 20 aprile avviarono la sistematica occupazione del territorio giuliano. Tra il 30 aprile e il 1° maggio dilagarono nel Carso. Trieste e Gorizia furono raggiunte subito, il 3 maggio fu la volta di Fiume, il 5 di Pola, poi di Lubiana e Zagabria. Era il concretizzarsi di un piano preordinato. Sul versante militare Tito voleva generare una condizione di fatto, unificando i territori sui quali intendeva esercitare la sovranità del suo futuro Stato. L’obiettivo era arrivare fino al fiume Tagliamento, cercando anche di assicurarsi almeno una parte della Carinzia austriaca.
Immagine del libro Frontiere contese a nordest
Sul piano politico, era prioritario procedere a una celere omogeneizzazione delle terre conquistate. I reparti militari dovevano annientare ciò che restava delle truppe avversarie. La polizia politica, l’OZNA (acronimo di Oddelek za Zaščito NAroda, Dipartimento per la Protezione del Popolo, attiva dal 1944 al 1952), aveva invece l’incarico di procedere all’identificazione e alla neutralizzazione di quei soggetti che potessero costituire un ostacolo allo stabilimento della piena sovranità jugoslava. La qual cosa, presentata come lotta contro il fascismo residuo, implicava invece una vera e propria normalizzazione politica delle aree urbane e di quelle rurali, sotto l’egida del nuovo potere. Si trattava di stabilire forme di assoggettamento della popolazione, soprattutto di quella italiana. Gli organismi direttivi del Partito Comunista Sloveno avevano chiesto di arrestare i sospetti e di tradurli in Slovenia, evitando bagni di sangue in pubblico e procedendo, laddove possibile, a processi. Le nuove autorità si ponevano quindi il problema di stabilizzare quanto prima la nuova forma di legalità, cercando di comunicare alla popolazione modalità e criteri di subordinazione.
Un elemento a favore degli jugoslavi erano le iniziali incertezze degli Alleati. Mentre gli Stati Uniti intendevano procedere all’occupazione dell’intera regione, la Gran Bretagna propendeva per una presenza selettiva, nelle aree più importanti. Nel mentre, i tentativi di una mediazione e di una concertazione tra il CLN di Trieste e il Fronte di Liberazione Sloveno erano andati falliti, poiché l’uno e l’altro avevano opposti obiettivi: il primo confidava nell’arrivo degli inglesi, il secondo voleva garantirsi la città, senza tuttavia permettere alcuna insurrezione popolare, che non avrebbe comunque agevolato l’ingresso delle sue milizie, semmai generando competizioni e contrasti rispetto ai suoi obiettivi di primazia.
Tito e lo scacchiere balcanico
Fondamentale per la fortuna di Tito fu il suo rapporto con gli inglesi. Che certo non lo adoravano, ma compresero ben presto che nella complessa partita dei Balcani, in corso da prima dello scoppio della guerra, sarebbe divenuto una figura di primo piano. Più prosaicamente: le forze comuniste (ovvero, nazionalcomuniste, in quanto unione di gruppi etnolinguistici diversi, ma accomunati dall’unificazione operativa e ideologica, nel nome di una nuova Jugoslavia, molto più forte e potente di quella che era stata disintegrata dall’occupazione del 1941) risultarono alla prova dei fatti più credibili di quelle nazionaliste. Londra, pur continuando a ospitare il governo monarchico jugoslavo in esilio, dopo la scelta da parte dei cetnici serbi – già oppositori degli italotedeschi – di stabilire rapporti con questi ultimi, optò per il sostegno al partigianato comunista. Non era una scelta ideologica, temendo le mire di Stalin sui Balcani, ma di pragmatismo militare e politico. Ancora nella conferenza del Quebec (14-28 agosto 1943) gli statunitensi avevano assegnato a Trieste, Fiume e Pola il ruolo di porti adriatici per la Mitteleuropa, in un sistema di libera circolazione. Ma quasi subito non se ne fece alcunché, in quanto gli Alleati s’impegnarono ben presto a garantire agli jugoslavi i diritti ai risarcimenti territoriali, a partire dalle coste dalmate e dall’Istria. Alla conferenza di Teheran (28 novembre - 1° dicembre 1943) Tito fu quindi riconosciuto dagli angloamericani come un interlocutore, sostituendosi progressivamente al generale serbo monarchico Draža Mihajloviič. Un tale mutamento era anche legato alla scelta di aprire un secondo fronte in Europa (sbarco in Normandia) e alle richieste di Stalin rispetto ai futuri confini russo-polacchi. In un’ottica di scambio, quello che si sarebbe concesso all’URSS nell’Europa orientale gli sarebbe stato invece negato nei Balcani.
Nell’aprile del 1944, il governo partigiano jugoslavo, sotto il controllo di Tito, fu quindi riconosciuto dagli Alleati e con esso le rivendicazioni territoriali che avanzava (per più aspetti simili a quelle dei movimenti croati, sloveni e serbi della prima guerra mondiale). Il generale jugoslavo teneva impegnato un grande numero di reparti tedeschi, cosa di cui Londra era grata. Il destino della Venezia Giulia s’inseriva all’interno di questo quadro in evoluzione. Per gli USA si trattava di arrivare a un accordo globale con l’URSS, per la Gran Bretagna si trattava di spartire la regione tra aree d’influenza. I Balcani dovevano costituire, in un primo tempo, la sede per uno sbarco alleato, tale da poter accelerare sia il collasso del Terzo Reich sia il contenimento dell’espansione sovietica da est. Lo spostamento dello sbarco in Normandia (e il successivo trasferimento di navi e mezzi nel Pacifico) rese del tutto irrealizzabile l’ipotesi, derubricando lo scenario italo-balcanico a vicenda bellica di secondo piano. Di questo, per l’appunto, Tito seppe avvantaggiarsi, risultando prezioso proprio per il suo ruolo di antagonista militare dell’apparato germanico (che non poté trasferire diverse unità in Francia). Inoltre, enfatizzò la sua capacità di costituire amministrazioni civili, a guerra terminata, che garantissero qualche forma di legalità sui territori che erano stati parte del regno d’Italia. Quando i britannici informarono il generale jugoslavo della determinazione d’istituire nella regione un proprio governo militare, sospendendo la sovranità italiana (la Venezia Giulia e le aree attigue erano considerate strategiche per le attività operative contro i tedeschi intorno alle Alpi), s’impegnò ad accelerare le operazioni per guadagnare terreno nell’Adriatico settentrionale.
Il referente di Tito nell’intera area era Edvard Kardelj (1910-1979), presidente della Lega dei Comunisti della Slovenia e futuro teorico della «via jugoslava al socialismo». Nell’estate del 1944 aveva preparato un piano per l’insurrezione generale e la presa del potere a Trieste e in Carinzia. Contestualmente, definiva i caratteri della repressione nei confronti non solo degli avversari in armi, ma anche di potenziali dissidenze. La polizia politica, come attività di corredo a quella militare, assumeva quindi un ruolo determinante nelle mosse a venire.
I britannici erano divisi, al loro interno, su che cosa fare della Venezia Giulia. Già si stavano confrontando con la guerriglia comunista in Grecia, dove stava montando una tragica guerra civile. I militari propendevano per un’occupazione integrale, i politici per un condominio con gli jugoslavi. Sta di fatto che, qualsiasi fosse lo status a venire, la Venezia Giulia era destinata a essere sottoposta a un regime di dominio straniero, ossia eterodiretto. Se il punto di contrattazione da cui partire, a combattimenti finiti, doveva essere la linea di congiunzione tra opposti schieramenti Tito, contando anche sull’assenso dei comunisti italiani, intendeva spostarlo il più in avanti possibile. Un segno, in tal senso, era la fuga degli italiani da Zara. Peraltro, l’illusorietà dei propri progetti, con la quale una parte del partigianato italiano si dovette amaramente confrontare al momento in cui fu subordinata alla direzione operativa degli sloveni, lasciava ben trasparire il disegno egemonico che si stava compiendo.
Titini-titoismo
L’espressione «titino» (più di rado «titoista») indica colui che s’identificava nelle posizioni espresse da Tito durante la seconda guerra mondiale e poi nell’ideologia della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, nata nel 1945 e dissoltasi nel 1992. Il «titoismo» (oppure «titismo») era invece la peculiare posizione politica e ideologica assunta dalla Jugoslavia tra il 1945 e gli anni Ottanta, rispetto sia all’Occidente sia al resto dell’Est comunista.
L’eccidio di Porzûs
L’eccidio di Porzûs, avvenuto fra il 7 e il 18 febbraio 1945, comportò la morte di 17 partigiani (tra cui una giovane donna, Elda Turchetti, che Radio Londra aveva indicato come spia, loro ex prigioniera) membri della Brigata Osoppo, unità mista di orientamento cattolico, laico e socialista, da parte di un gruppo di partigiani appartenenti al Partito Comunista Italiano. L’evento, uno dei più tragici nella storia della Resistenza italiana, s’inseriva nelle frizioni che si erano andate determinando tra le diverse componenti dell’opposizione ai nazifascisti operanti nel Friuli e nell’area giuliana: il IX Korpus sloveno, parte dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, le brigate Garibaldi, inserite nella Divisione Garibaldi «Natisone», composte perlopiù da comunisti, e le brigate Osoppo-Friuli, costituite da monarchici, cattolici, azionisti, laici e socialisti. Le terre a est del fiume Isonzo dal 1941 erano rivendicate dal Fronte di Liberazione Sloveno, che le dichiarò annesse dal settembre del 1943. In quei territori, gli jugoslavi pretesero il comando di tutte le operazioni partigiane. Già nell’autunno del 1944 Edvard Kardelj aveva richiesto di fare piazza pulita degli «elementi imperialisti e fascisti […] camuffati da falsi democratici», rivendicando il passaggio della regione alla Slovenia. I comunisti italiani erano concordi al riguardo, riconoscendo le pretese di Tito. La Divisione Garibaldi «Natisone» passò pertanto sotto il comando del IX Korpus, venendo trasferita a Lubiana. La Osoppo, invece, si rifiutò. L’autonomia operativa di quest’ultima fu quindi sempre di più vista come un’interferenza, da contenere se non da boicottare. L’abortito tentativo di un abbocco da parte della Decima Mas (enfatizzato poi dalla stampa neofascista del dopoguerra) fu usato per ulteriori attacchi, parlando (falsamente) al riguardo di «cordiali rapporti tra fascisti e Osoppo». Un’accusa tanto più grave, dal momento che il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà aveva con vigore vietato ogni forma di collaborazione tra partigianato, milizie di Salò e truppe tedesche. Sta di fatto che le pressioni contro l’autonomia dell’unità partigiana si fecero sempre più stringenti, venendo identificata come un soggetto anticomunista.
Le reazioni risentite e argomentate del comando della brigata – che rilevava le crescenti condotte scorrette dei garibaldini e degli sloveni – non sortirono alcun effetto. Nello stesso periodo, diversi esponenti comunisti triestini di sentimenti filoitaliani, che avevano espresso dubbi sulla futura appartenenza della città alla Jugoslavia, furono arrestati dai tedeschi, si suppone in seguito a delazioni. L’accusa di «tradimento» (filobritannico) era dietro l’angolo. Il 7 febbraio un centinaio di partigiani comunisti raggiunse il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione Osoppo, situato nel Friuli orientale, presso alcune malghe in località Topli Uorch, nel Comune di Faedis (in seguito la zona divenne più nota con il toponimo di Porzûs), con l’ordine tassativo di porre le unità autonomiste sotto il comando della Divisione Garibaldi «Natisone». Durante l’incontro, gli osovani presenti furono arrestati dai gappisti comunisti. Si succedettero quindi, a più riprese e in pochi giorni, una serie di assassinii, tra i quali quelli di Guido Pasolini (fratello di Pier Paolo) e di Francesco De Gregori (zio del cantautore). Le reazioni alle prime notizie sull’eccidio furono confuse, oscillanti tra l’ipotesi che fosse opera dei nazifascisti, di fascisti travestiti da partigiani e il plauso per la soppressione del comando della Osoppo, considerato in combutta con i fascisti. I comandanti gappisti affermarono degli osovari che, «esaminati attentamente uno a uno, abbiamo notato che essi non erano altro che figli di papà, delicati attendisti che se la passavano comodamente in montagna». In seguito, tra infinite (e inconcludenti) inchieste, alcuni processi, relazioni e controrelazioni da parte comunista, fu detto che la responsabilità dell’eccidio era da attribuirsi ai locali comandi partigiani che avevano frainteso gli ordini d’incorporamento.
I partigiani della Osoppo a Topli Uorch (inverno 1944-45).
I partigiani della Osoppo a Topli Uorch (inverno 1944-45).
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici a Zakriž (Slovenia) nel gennaio 1945. Il primo a sinistra è il commissario politico Giovanni Padoan «Vanni», al centro con la barba il comandante Mario Fantini «Sasso», il primo a destra è il capo di stato maggiore Albino Marvin «Virgilio». I primi due saranno imputati nel processo per l’eccidio.
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici a Zakriž (Slovenia) nel gennaio 1945. Il primo a sinistra è il commissario politico Giovanni Padoan «Vanni», al centro con la barba il comandante Mario Fantini «Sasso», il primo a de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Sommario
  5. 01. L’ALTO ADRIATICO
  6. 02. NAZIONALISMO, IRREDENTISMO, ITALIANIZZAZIONE
  7. 03. IL LUNGO VENTENNIO
  8. 04. LA SECONDA GUERRA MONDIALE
  9. 05. 1943-1945: IL CROLLO DELLA SOVRANITÀ ITALIANA
  10. 06. LA FINE DI UN’EPOCA
  11. 07. CHE COSA RESTA DI QUESTA STORIA
  12. Bibliografia