L'Orlando furioso, l'Italia (e i Turchi)
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L'Orlando furioso, l'Italia (e i Turchi)

Note su identità, alterità, conflitti

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L'Orlando furioso, l'Italia (e i Turchi)

Note su identità, alterità, conflitti

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Poema della crisi delRinascimento, l' Orlando furioso risente delle vicende tumultuosee drammatiche dell'epoca in cuivenne composto, licenziato edemendato: la catastrofe degliStati italiani e la fine della loroindipendenza, lo scontro con lapotenza ottomana e la sua cultura.IT. È risaputo che un persistente motivo di inquietudine trascorra le ottave dell' Orlando furioso, pur senza venire apertamente tematizzato; il "poema della crisi del Rinascimento", infatti, risente delle vicende tumultuose e drammatiche dell'epoca in cui venne composto, licenziato ed emendato: la catastrofe degli stati italiani e la fine della loro indipendenza. Ma persino la rappresentazione del musulmano, quand'anche complessa e articolata, non è affattopretestuosa, quasi fosse nient'altro che un mero espediente narrativo avulso dal contesto storico e dalla realtà politica del proprio tempo: rimanda, piuttosto, alla minaccia della penetrazione ottomana in Europa e al concretissimo conflitto che si andava prospettando. Nel capolavoro ariostesco, dunque, le topiche sull'Italia e le rappresentazioni dell'alterità turca e musulmana, pur aderendo entrambe alle forme, ai modi, alle retoriche e ai modelli previsti dagli statuti letterari del classicismo civile, rivelano le implicazioni dell'opera con la storia, i conflitti, gli scontri di potere e di civiltàdel proprio tempo e sembrano dar voce a una sorta di inconscio politico collettivo.
In questo saggio si prova ad abbozzare qualche ulteriore percorso di lettura e ad aggiungere qualche notazione interpretativa a quanto già acquisito dalla critica, la quale ha ormai da tempo messo in discussione la proverbiale armonia ariostesca, insistendo sugli aspetti contraddittori e conflittuali del poema.It is well known that the whole of the Orlando Furioso is intimately affected—without this being openly acknowledged—by the tumultuous events of the times of its composition and then amendation: the catastrophe of the Italian states and the end of their independence. The very representation of the Muslim within the poem—besides being textually complex and nuanced—has nothing of the "merely literary" about it: far from being a narrative device detached from the historical context and the political reality of its time, it engages with the threat of Ottoman penetration in Europe, and the very real conflicts then taking place.
In Ariosto's masterpiece, therefore, the topoi about Italy and the representations of Turkish and Muslim "otherness," while adhering to the forms and the rhetorical models of the literature of contemporary "civil classicism," do reveal the work's imbrication with the conflicts, the clashes of power and civilization of its time, giving voice to a true collective political unconscious. In this essay we try to sketch out some further ways of reading this work and to offer some additional interpretations to what has already been detected by those critics who've been questioning Ariosto's proverbial "harmony," probing instead the contradictory and conflicting aspects of the poem.

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Informazioni

Editore
Quodlibet
Anno
2020
ISBN
9788822911377
Argomento
Literatur

II.

LA CATASTROFE ITALIANA, I TURCHI, L’ALTRO: UNA LETTURA DEL XVII CANTO

1. L’invettiva del XVII canto

Nella fitta tramatura di rimandi intertestuali di cui il Furioso è intessuto, spicca il richiamo alle ottave proemiali del canto XVII che la minuziosa digressione storica della grotta di Merlino del canto XXXIII sembra richiamare. Una connessione forse non del tutto innocente, come è stato rilevato1. Ma queste stanze potrebbero altresì essere lette come una prolessi rispetto all’invettiva che occupa la parte centrale del canto:
Il giusto Dio, quando i peccati nostri
hanno di remission passato il segno,
acciò che la giustizia sua dimostri
uguale alla pietà, spesso dà regno
a tiranni atrocissimi ed a mostri,
e dà lor forza e di mal fare ingegno.
Per questo Mario e Silla pose al mondo,
e duo Neroni e Caio furibondo,
Domiziano e l’ultimo Antonino;
e tolse da la immonda e bassa plebe,
ed esaltò all’imperio Massimino;
e nascer prima fe’ Creonte a Tebe;
e dié Mezenzio al populo Agilino,
che fe’ di sangue uman grasse le glebe;
e diede Italia a tempi men remoti
in preda agli Unni, ai Longobardi, ai Goti.
Che d’Atila dirò? che, de l’iniquo
Ezzellin da Roman? che d’altri cento?
che dopo un lungo andar sempre in obliquo,
ne manda Dio per pena e per tormento.
Di questo abbiàn non pur al tempo antiquo,
ma ancora al nostro, chiaro esperimento,
quando a noi, greggi inutili e malnati,
ha dato per guardian lupi arrabbiati:
a cui non par ch’abbi a bastar lor fame,
ch’abbi il lor ventre a capir tanta carne;
e chiaman lupi di più ingorde brame
da boschi oltramontani a divorarne.
Di Trasimeno l’insepulto ossame
e di Canne e di Trebia poco parne
verso quel che le ripe e i campi ingrassa,
dov’Ada e Mella e Ronco e Tarro passa.
Or Dio consente che noi sian puniti
da populi di noi forse peggiori,
per li multiplicati ed infiniti
nostri nefandi, obbrobriosi errori.
Tempo verrà ch’a depredar lor liti
andremo noi, se mai saren migliori,
e che i peccati lor giungano al segno,
che l’eterna Bontà muovano a sdegno.
(XVII, 1-5)
Una protasi allocutoria non certo inusitata nel Furioso, nella quale, a questo punto, non deve sorprenderci più di tanto il giudizio moralistico che attribuisce a una volontà divina, inesorabile e punitiva, la violenza esercitata dai «tiranni atrocissimi»: qualcosa di più, dunque, di una «elementare visione dei cicli storici» nella quale il poeta «stranamente promette ai buoni il destino stesso di quelli che egli giudica, in sostanza, dei predatori, e che duramente chiama “lupi arrabbiati”»2. Dei despoti si dà quindi un’ampia rassegna, che dalle fonti virgiliane passa per quelle dantesche, per arrivare infine all’attualità: Dio «ha dato per guardian lupi arrabbiati» agli italiani, «greggi inutili e malnati»; molto probabilmente «lupi arrabbiati», piuttosto che genericamente ai signori italiani, come interpretano alcuni commentatori, si riferisce semmai alle truppe mercenarie svizzere chiamate appunto da Giulio II dopo la battaglia di Ravenna3 (come del resto, si è visto, si dice anche in XXXIII, 41, 1-4: «e che Ravenna saccheggiata resta / Si morde il papa per dolor le labbia / e fa da’ monti, a guisa di tempesta, scendere in fretta una tedesca rabbia»). Vale la pena rilevare che la metafora animalesca torna, come vedrà, nell’ottava 73, a designare, con analogo intento di vituperio, stavolta gli infedeli che occupano la Terra Santa. Ada (Adda), Mella, Ronco, Tarro alludono, per metonimia, alle recenti battaglie rispettivamente di Agnadello, Brescia, Ravenna, Fornovo.
L’ottava successiva proietta nuovamente i casi delle odierne guerre d’Italia sulle vicende del conflitto tra Franchi e Saraceni, riportandoci bruscamente a Parigi minacciata dalla furia distruttrice di Rodomonte, non prima di aver lasciato una traccia testuale assai significativa: in un consueto parallelismo tra le «antique [e] le moderne cose» «il Turco» (del XVI secolo) è associato al «Moro» (dell’VIII secolo); entrambi, con le loro scorribande e «con stupri, uccision, rapine ed onte», puniscono gli «eccessi» dei Francesi («loro») che hanno turbato «la serena fronte» di Dio:
Doveano allora aver gli eccessi loro
di Dio turbata la serena fronte,
che scórse ogni lor luogo il Turco e ’l Moro
con stupri, uccision, rapine ed onte:
ma più di tutti gli altri danni, foro
gravati dal furor di Rodomonte.
Dissi ch’ebbe di lui la nuova Carlo,
e che ’n piazza venia per ritrovarlo.
(XVII, 6)
Il XVII canto dell’Orlando furioso non rientra tradizionalmente nel novero dei luoghi ariosteschi irrinunciabili, venendo ritenuto uno di quei canti di raccordo necessari per entrelacer l’ordito della narrazione: «Chiunque tenti di riscrivere (penso per esempio, alla versione teatrale di Luca Ronconi o a quella radiofonica di Italo Calvino) la fabula del poema ariostesco, potrebbe tralasciare il canto XVII […] considerandolo “di transito” in vista del successivo, che narra la sfortunata storia notturna di Cloridano e Medoro», ha scritto, commentandolo, Salvatore Ritrovato4. Tuttavia, l’apostrofe che vi è contenuta (ma, di una sequenza di apostrofi si dovrebbe, più correttamente, parlare), apparentemente priva di nessi con quanto vi si racconta, merita ancora qualche supplemento di indagine, sulla scorta di alcuni studi recenti che hanno posto attenzione al tema dell’identità e della rappresentazione dell’altro nel capolavoro ariostesco.
L’andamento del canto, per molti aspetti, è analogo a quello di tanti altri dell’opera, e più precisamente di quelli immediatamente precedenti e successivi, alternando il movimento centripeto verso Parigi, cuore reale non meno che simbolico del conflitto, a quello digressivo, vòlto a seguire le avventure di qualche personaggio, distante dalla battaglia e distolto dalla propria quête. Tuttavia, come si vedrà, non mancano alcune peculiarità rimarchevoli. Fino all’ottava 16, lo scenario è appunto quello dell’assedio della capitale del regno dei Franchi condotto da Rodomonte, «can che gli uomini devora», che già imperversava, gettando scompiglio tra le schiere cristiane, nel canto precedente. Dopo aver fatto strage di nemici, il terribile guerriero pagano è ormai giunto a ridosso del palazzo reale, nel quale si è asserragliato gran parte del «populazzo» di Parigi. Re Carlo, dopo aver biasimato lo scarso valore dei suoi sudditi, si lancia insieme ai suoi paladini allo scontro con il saraceno. L’ottava 17, con un tipico stacco ariostesco, dirotta il lettore in un’altra capitale, per molti aspetti speculare a Parigi – e comunque altrettanto esemplare – nella rappresentazione eve...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. I.
  3. II.
  4. NOTA AI TESTI
  5. BIBLIOGRAFIA
  6. ABSTRACT
  7. NOTIZIA BIOGRAFICA