«Che bella foto!» Quando ci dicono così, se gli autori siamo noi, il nostro ego gioisce ed è normale, ci piace piacere, anche fotograficamente. Molte delle singole fotografie che scattiamo hanno una forte componente – spesso inconscia – di tipo narcisistico. Vogliamo dimostrare, a noi stessi e al mondo, quanto siamo bravi. Ed effettivamente spesso lo siamo: usiamo ottimamente la tecnica, conosciamo la luce, sappiamo comporre e, insomma, quella foto bella lo è per davvero.
La domanda che segue, però, è: «Ok, sono bravo, ma di tutte queste bellissime foto fatte finora, cosa me ne faccio?».
Be’, magari possiamo vincere una targa in qualche concorso fotografico, oppure arredare il salotto di casa, ma dopo quanto tempo praticare in questo modo la fotografia ci verrà a noia? Tendenzialmente, dopo un periodo abbastanza breve, a meno che...
A meno che non cambiamo passo, e dalla produzione di belle foto passiamo alla produzione di buone foto.
Sia chiaro, le buone foto sono anche “belle”, ma la forma non è mai fine a se stessa, bensì funzionale al contenuto e al messaggio.
Mentre la bella foto vive solitaria, muta e piaciona, la buona foto è tale perché porta con sé la capacità di comunicare, di parlare, di porre domande, di raccontare e di emozionare contemporaneamente. Molto raramente, però, una singola immagine ci riesce da sola (quando avviene è un grande miracolo!), mentre generalmente ha bisogno di essere “un pezzo del discorso”, e torniamo così a quanto detto inizialmente: fotografie come parole dentro un romanzo.
Se scrivo dolce sarà pure una bella parola (come bella può essere una fotografia), ma non aggiunge niente alla storia del mondo e non porta da nessuna parte. Può certamente prendere utilmente significato in un foglietto con scritto: «Preparare il dolce per il compleanno»; se però la troviamo in: «E il naufragar m’è dolce in questo mare», la faccenda è un po’ diversa.
Una fotografia, dunque, non è buona di per sé, la sua “bontà” non è una caratteristica intrinseca; la stessa foto può essere buona o non esserlo a seconda di dove la mettiamo e perché ce la mettiamo. Se buttassimo in un frullatore L’infinito di Leopardi, alla fine ritroveremmo ancora la parola dolce, ma non sarebbe più al posto giusto e risulterebbe incomprensibile il suo ruolo (anzi, tutto risulterebbe incomprensibile).
Dobbiamo ragionare così con le nostre fotografie.
A questo punto appare chiaro che non ha più molto senso andare a caccia di fotografie fine a se stesse in una domenica mattina di sole come si va a funghi, e che le parole hobby o passatempo applicate alla fotografia sono non solo riduttive, ma rischiose. Perché gli hobby si cambiano, mentre le grandi passioni non ci abbandonano mai.
Costruire una narrazione fotografica con un senso e un fine precisi, un intreccio efficace di buone foto, presuppone un passo fondamentale: la capacità di progettare.
Beninteso, non siamo, non vogliamo essere e non dobbiamo essere degli ingegneri, non costruiamo grattacieli. Il progetto per un fotografo non deve rappresentare una gabbia, ma piuttosto la direzione e la strada verso una meta.
Il photo editing, fase cruciale, determina la restituzione finale dell’idea iniziale, dalla quale il progetto ha preso corpo. Ma di questo riparleremo con esempi concreti.
C’è una grossa questione che distingue le parole dalle fotografie: se mettendo in fila le parole riusciamo (forse) a dare alla frase un significato preciso è perché le singole parole un significato preciso lo hanno. Al contrario una fotografia, in assenza di una esatta contestualizzazione, si presta a molte letture e molte interpretazioni: infatti, si dice in proposito che le fotografie sono polisemiche (possiedono cioè la facoltà di avere significati diversi).
Roland Barthes (autore del fondamentale La Camera chiara)1 parla della fotografia come di un messaggio senza codice.
L’illusione che – come abbiamo letto e sentito dire tante volte – una foto valga più di mille parole è un presupposto molto pericoloso per la possibilità di un efficace photo editing (che nelle pagine a seguire chiameremo, per lo più, semplicemente editing).
Si parla sempre e ovunque di fotografia come linguaggio, e se per linguaggio intendiamo una possibilità di comunicare, certamente lo è; ma un linguaggio propriamente detto, per definirsi tale, presuppone l’esistenza di un codice, cioè di un sistema condiviso che permette di usarlo e interpretarlo con precisione. Se esiste il vocabolario è perché alle parole vengono fatti corrispondere significati definiti. Non risulta l’esistenza di un vocabolario per la fotografia.
Ne consegue che la capacità di concatenare le fotografie in maniera che il loro insieme funzioni e comunichi non è solo frutto di un talento simile a quello letterario, ma vi aggiunge qualcosa che assomiglia al fiuto, all’istinto, a un’antenna sensibile che mette al lavo...