Premessa
L’Africa agli europei
The white man’s burden, così nel 1899 Rudyard Kipling in una celebre poesia: il fardello dell’uomo bianco. Nella sua visione di genuino interprete dell’imperialismo europeo, nella fattispecie britannico, indicava in questo modo l’onere storico che toccava all’Occidente, quello di portare agli altri popoli i benefici della “sua” civilizzazione. Sulla soglia del xx secolo l’autore del Libro della giungla interpretava esattamente lo spirito del tempo. L’etica colonialista aveva raggiunto il suo apogeo e la spartizione del mondo era ormai cosa fatta. Territori per decine di milioni di chilometri quadrati in tutti i continenti, con tendenza in aumento, erano occupati e amministrati dalle potenze coloniali. Per di più un insospettabile convitato aveva preso posto al banchetto fin qui riservato alla vecchia Europa. Proprio quell’anno le forze armate degli Stati Uniti d’America stavano combattendo per difendere la loro preda di guerra, le Filippine, di cui avevano ottenuto il controllo dopo avere sconfitto la Spagna. Gli Stati Uniti, cioè una nazione che nacque proprio scrollandosi di dosso la soggezione coloniale!
Eppure le inattaccabili leggi della geometria vogliono che ogni culmine corrisponda all’inizio della fase declinante, non a caso ancora in quegli anni l’ultima arrivata fra le potenze coloniali europee, l’Italia, aveva subito una sonora sconfitta da parte di un esercito africano. E presto toccherà alla Russia, che sarà umiliata sui mari da una potenza “non bianca”, per usare la terminologia di Kipling, l’emergente impero giapponese. Ma questi scricchiolii del sistema non mutano ancora il quadro d’insieme del fenomeno colonialista, l’Occidente si è impadronito del pianeta, su immensi territori in tutti i continenti sventolano le bandiere europee e perfino le stelle e strisce degli Stati Uniti hanno perduto la loro innocenza rivoluzionaria.
L’espansione militare e politica ha ormai preso il posto di quella penetrazione commerciale che fu affidata in passato a compagnie private o semipubbliche. Si cercano oltremare materie prime, minerarie o agricole per alimentare le industrie, e mercati per i prodotti delle industrie stesse, con il risultato di innescare quel diabolico meccanismo che gli economisti chiamano “deterioramento dei termini di scambio”, e che è destinato a sopravvivere alla fine del colonialismo. I prezzi dei manufatti industriali crescono più di quelli delle materie prime, penalizzando sistematicamente i produttori di queste ultime. Sono infatti condannati a esportare merci sempre più a buon mercato per importare prodotti sempre più cari. Ma per ora, fine Ottocento e inizio Novecento, in quella stagione europea di spensieratezza, sia pure riservata in via esclusiva all’arrembante borghesia, che passerà alla storia del costume come Belle Époque, gli abitanti delle colonie non hanno voce per protestare.
Nelle stesse potenze coloniali sono in pochi a contestare l’euforia aggressiva dei governi e degli stati maggiori. Persino le chiese cristiane non solo non condannano il fenomeno ma al contrario lo incoraggiano: non servirà forse allo scopo di evangelizzare il mondo? E così il proselitismo missionario diviene parte integrante di una complessiva ingerenza culturale, fondata sul presupposto che l’arretratezza rispetto allo sviluppo così come lo si intende in Occidente deriva da una condizione di non-cultura, di barbarie per essere precisi. Insomma ci sono in giro per il mondo popoli selvaggi da prendere per mano e condurre verso la civiltà. E tanto meglio se questo porta evidenti vantaggi a chi si prende la briga di svolgere un compito così meritorio.
Il “fardello” di Kipling può rendere bene, e poco male se i benefici non vanno proprio a vantaggio dei popoli colonizzati. Se al contrario il sistema produce danni, per esempio lo sfruttamento dei suoli, impoveriti nelle loro potenzialità agricole dalla pratica delle monocolture speculative. La fitta articolazione degli appezzamenti che fornivano raccolti alimentari viene infatti cancellata, dove possibile, dai latifondi in cui si coltivano beni da esportazione come cotone, cacao, arachidi. La terra non produce più cibo ma denaro. In questo modo viene inaridita, e avanzano la steppa e il deserto, e la gente che vive da sempre nelle campagne si rifugia in massa nelle città che la ressa rende invivibili. Ai giovani senza più lavoro i dominatori offrono una possibilità, quella di arruolarsi sotto le loro bandiere. E così si formano eserciti coloniali che vanno a combattere incomprensibili guerre contro nemici sconosciuti.
Le carte geografiche dell’Africa, quelle stesse dove pochi decenni prima compariva sulle vaste aree inesplorate dell’interno la scritta hic sunt leones, qui stanno i leoni, sono dipinte con i colori vivaci che segnalano l’appartenenza europea, fra quei colori dominano il rosa dei possedimenti britannici e il violetto di quelli francesi. Ma anche il Portogallo, la Spagna, il Belgio, presto la Germania e l’Italia, occupano parti del continente e altre ne pretendono. Le mire imperialiste ovviamente non coincidono, ci sono dispute sulle aree d’influenza e sui confini, a volte confronti armati. Nel 1884 il governo tedesco prova a mettere tutti d’accordo e convoca una conferenza a Berlino. Si tratta di concordare aree di libero commercio nel bacino del fiume Congo, in quello del Niger e nella regione orientale dei grandi laghi. Intanto la Germania rovescia la politica del cancelliere imperiale Otto von Bismarck, fin qui restia alle avventure africane, e lancia la sua sfida. Saranno suoi tutti i territori del continente, non rivendicati da altri, in cui esistano insediamenti tedeschi. È questa ormai la prassi, esploratori, missionari, compagnie commerciali in avanscoperta e successivamente, magari con il pretesto di garantire sicurezza ai propri cittadini, lo sbarco delle forze armate e l’assunzione di responsabilità dirette di governo. È la strada che ora percorre la Germania di Bismarck, ultima, con l’Italia, nella gara coloniale.
Nulla da eccepire da parte degli altri europei. E gli africani? Gli africani nell’Ottocento non hanno la possibilità di far valere le loro ragioni, dunque nessuno se ne cura, e così la bandiera del Secondo Reich sventola nel Tanganika, nell’Africa di Sudovest, nel Camerun, nel Togo. E anche in alcune isole polinesiane. A volte le ambizioni colonialiste assomigliano all’appetito di quegli animali carnivori che non cacciano prede vive come gli altri predatori, ma si avventano sui loro resti. Iene, sciacalli, avvoltoi. Ogni volta che un potere vacilla affilano le spade. Gli stati maggiori preparano piani di conquista, le industrie degli armamenti pregustano affari d’oro. Pochi anni dopo l’inizio del nuovo secolo il declino dell’Impero Ottomano scatenerà l’assalto al Nordafrica, al Medio Oriente, alla penisola balcanica, più tardi la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale vedrà le altre potenze coloniali, Gran Bretagna, Francia e Belgio, spartirsi il bottino africano, sia pure con la foglia di fico del mandato in nome e per conto della Società delle Nazioni.
Esploso come fenomeno planetario nel Cinquecento a seguito delle grandi esplorazioni geografiche, il colonialismo abbraccia molti secoli e si limita inizialmente al controllo delle coste e dei porti. La sua età dell’oro, che coincide con la penetrazione territoriale, è senz’altro l’Ottocento. Tutto quello che verrà dopo è semplicemente anacronistico. Alle potenze che fanno a gara per impossessarsi del mondo, verso la fine degli anni Sessanta se ne aggiunge un’altra, giovane, ambiziosa e scalpitante. L’ultima a occupare il suo posto a tavola è una nazione antica che da poco si è concretizzata in uno stato unitario, scaturito da un brillante connubio di insurrezione popolare e sapienza diplomatica. Il suo assetto è ancora da consolidare ed è assillata da pressanti problemi interni, ma intanto vuole rifarsi dopo il lungo digiuno e reclama la sua parte di mondo.
Capitolo I
L’ultima arrivata
Secolo xix, anni Sessanta. Un paese chiamato Italia si riaffaccia sulla ribalta della Storia, grazie al fascino del suo luminoso passato suscita un attento interesse internazionale eppure offre di sé un’immagine di fragilità e di incompiutezza. Il mondo ammira lo slancio che ha trasformato un mosaico di piccoli stati in una potenza europea, la stupefacente avventura garibaldina ha r...