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Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore

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Francesco Cossiga: i silenzi e il fragore

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Informazioni sul libro

Le “picconate” dal Quirinale come tributo ad Aldo Moro, il Maestro che non era stato in grado di salvare. È il punto di partenza di questo ritratto di Francesco Cossiga, arricchito da autorevoli e diverse testimonianze.
A dieci anni dalla scomparsa, il racconto della parabola politica e umana davvero fuori dall’ordinario di una delle figure più importanti e controverse della nostra storia repubblicana.
Simbolo di una stagione consapevole della complessità delle scelte e dell’urgenza di doverle motivare mettendo in conto di non ricavarne immediato consenso.
Senso delle istituzioni e fede religiosa; sapere teologico e spirito polemico; passioni e depressioni: tutto è convissuto nella personalità di Cossiga, con la stessa forza nel suo fragore e nei suoi silenzi. Prefazione di Mario Segni

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865127285

Le fondamenta (Cossiga e le riforme)

Gli entusiasmi passano, gli interessi restano.
Così scriveva nel 1874 un elettore a Francesco De Sanctis, impegnato nel ballottaggio con un notabile locale nel collegio nativo di Lacedonia.
Quel De Sanctis candidato al Parlamento è proprio il famoso scrittore e filosofo, uno dei maggiori storici della letteratura italiana, nonché ex ministro della Pubblica istruzione nei governi Cavour e Ricasoli. Quella frase viene riportata nel suo Viaggio elettorale in Alta Irpinia, pubblicato nel gennaio successivo.
De Sanctis , che allora aveva 57 anni, decide di partecipare attivamente con comizi nella zona. Fino ad allora aveva preferito isolarsi nella sua fama di figura di livello nazionale, criticando anzi la mancanza di dignità di “un uomo che personalmente va per le case a buscar voti” . Ora cambia passo e cerca in quelle terre di spiegare quanto sia necessario calare l’ideale nel reale; superare i mali e le esasperazioni dei regionalismi; distruggere i partiti personali, vere e proprie malattie sociali; e spingere le comunità verso un alto grado di educazione politica. Insiste sulla necessità di un sistema bipartitico e dell’alternanza al Governo di uomini e programmi.
Forse, come scriverà lo storico inglese Denis Mack Smith, “possedeva un’intelligenza troppo critica per essere un vero e proprio uomo politico di successo, e forse anche uno spirito e un senso dell’ironia troppo acuti”.
Non capita spesso di imbattersi in personaggi così, vale allora la pena sottolineare questa osservazione.
Un capitolo di quel libro è dedicato al suo “Discorso a Lacedonia”. De Sanctis spera di poter parlare ad un pubblico mescolato di amici e di avversari tenaci; e invece gli avversari non vanno ad ascoltare, rimangono “invisibili” per dirla con lo stesso candidato-scrittore. Che si chiede, perplesso e deluso: “Devo convertire i già convertiti? Così il mio discorso è senza scopo”. Con queste riserve mentali addosso, De Sanctis parla toccando tutte le corde giuste, tanto che scende dal palco “tra vivi applausi, circondato dalla folla, alcuni si asciugavano le lacrime. Il sindaco mi disse con la sua brusca sincerità: avrai gli stessi voti. Ma pensai che qualche eco delle mie parole sarebbe giunta ai miei invisibili. Seppi poi che la sera, conosciuto l’effetto del mio discorso, giunse a incoraggiamento degli invisibili un telegramma epigrafico”. Diceva, appunto: “L’entusiasmo passa, gli interessi restano”.

L’entusiasmo passa, gli interessi restano. È quanto deve più o meno aver pensato Giorgio Napolitano alla fine del suo secondo mandato al Quirinale, ricordando lo scroscio quasi unanime di applausi che il Parlamento – tanto più scroscio quanto più turbato dalla propria incapacità di scegliere il nuovo Presidente della Repubblica – gli tributò il 22 aprile 2013 al termine del discorso di rielezione: discorso che fu una autentica invettiva contro la dolosa indolenza delle Camere sulle riforme, tema centrale del Settennato del primo comunista al Colle più alto. “Troppe le omissioni, i guasti e le irresponsabilità tra le forze politiche”… “Il vostro applauso non induca a nessuna autoindulgenza”… “Convenienze, tatticismi e strumentalismi hanno condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento”. Poi un messaggio rivolto al Movimento 5 Stelle, allora in grande ascesa: apprezzamento per l’impegno al cambiamento, ma l’indicazione della giusta via, quella di una “feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento”.
Ma quelli a cui Napolitano si rivolgeva erano i pentastellati ancora d’opposizione: alla fine del discorso dunque, come concordato in precedenza, i grillini furono i soli ad alzarsi in piedi senza applaudire.
Questi dunque alcuni passaggi forti, scanditi con tono commosso fino a strozzare più volte la parola e a ricorrere a sorsate d’acqua. L’accento cade sulla “imperdonabile mancata riforma della legge elettorale”. Accento acuto reso grave dall’avvertimento, minaccia per molti promessa per qualcuno: “Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”.
Le dimissioni arriveranno il 14 gennaio 2015, ma sostanzialmente “ingravescente aetate”, per l’età avanzata quasi fino ai 90 anni.
L’entusiasmo – forzato – di quel giorno passò, gli interessi restarono, le riforme anche: al palo. Dove peraltro si trovavano sin dal 1983, quando nacque la prima commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta dal liberale Aldo Bozzi.
Questa vicenda la raccontiamo usando l’imperfetto, indicativo sia come tempo sia come modo della politica di maneggiare una materia tanto delicata. All’inizio di quel suo secondo mandato (altro inedito nella storia repubblicana italiana) Napolitano aveva deciso di nominare una commissione di “saggi” per avanzare proposte in materia istituzionale e economico-sociale, lavorando in due gruppi distinti. La squadra dedicata al miglioramento dell’assetto istituzionale era composta da Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante. Risultato di quel lavoro: la proposta di superare il bicameralismo perfetto passando ad una sola Camera “politica”, riducendo il Senato a un “Senato delle Regioni” in rappresentanza delle autonomie regionali. A partire dal luglio 2013 iniziava quindi l’iter di un disegno di legge promosso dal governo guidato da Enrico Letta che prevedeva la nascita di un comitato parlamentare per le riforme costituzionali e una deroga all’articolo 138 della Costituzione che regola il procedimento di revisione costituzionale per fare in modo che la riforma potesse avvenire in tempi più rapidi. Il provvedimento tuttavia non arrivò all’approvazione definitiva a causa delle vivaci proteste delle opposizioni e dell’uscita dalla maggioranza di Forza Italia.
Ma l’onda sonora di quell’applauso del Parlamento a Napolitano non aveva esaurito la sua carica. L’8 aprile 2014 Matteo Renzi, dal 15 dicembre precedente segretario del Pd e dal 22 febbraio nominato premier, presentava il disegno di legge che si prefiggeva tra le altre cose il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel (il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organo di rilievo costituzionale), la revisione del titolo V della parte II della Costituzione, con la soppressione dell’elenco delle materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Quella riforma veniva approvata dal Parlamento il 12 aprile 2016, ma bocciata dal referendum del 4 dicembre successivo.
Colpa della personalizzazione operata da Renzi, è la tesi praticamente unanime e ormai passata alla storia rispetto all’esito della consultazione che certo non maturò per un vero confronto sul merito.
Ma se questa tesi è indubbiamente fondata su affermazioni e comportamenti dell’uomo di Rignano, una completa ricostruzione non può non tener conto che la ragione sociale di quel governo era scritta proprio nel discorso di rielezione di Napolitano. Le riforme non erano semplicemente una delle tante priorità, ne erano il motivo profondo ed esplicito.
I tanti nemici possono bene rinfacciare al Rottamatore di aver detto che in caso di sconfitta avrebbe considerato chiusa la sua esperienza politica. I suoi non pochi sostenitori possono altrettanto bene replicare che il loro leader ha messo la faccia su un tema decisivo; atteggiamento considerato responsabile, almeno quando si discute per la teoria di un ipotetico manuale della buona politica; o quando si fa genericamente (e ormai insopportabilmente) riferimento a quanto accade “in altri Paesi davvero civili”.
Se di personalizzazione si può parlare, quella di Renzi non era l’unica forma di espressione.
Questione personale era anche quella di tanti leader della sinistra del Pd che videro in quel giovane segretario un usurpatore del trono di un partito – nato nel 2007 dalla fusione tra Democratici di Sinistra (Ds) e i centristi della Margherita – sin dall’inizio percepito come il prolungamento della loro passata appartenenza.
Questione personale era anche quella dell’altro contraente del patto del Nazareno, Berlusconi, che si considerava tradito dalla scelta imposta di Mattarella come nuovo inquilino del Quirinale (salvo il sempre espresso apprezzamento per la persona). E che perciò dopo i primi voti favorevoli in Parlamento aveva tolto il sostegno a riforme sostanzialmente condivise, con la conseguente (chissà se rimpianta) decisione di votare no al referendum.
Negli opposti schieramenti antirenziani, in sostanza, prevaleva il comune timore di una cristallizzazione del 40% e oltre ottenuto alle Europee del maggio 2014 dal Pd con quella guida.
La stessa percentuale toccata due anni e mezzo dopo dai sì al referendum sulle riforme.
Un trionfo nel primo caso, un tonfo nel secondo.
E alla fine, forse, la vera personalizzazione operata da Renzi è stata quella dell’immediato post-referendum, nel momento cioè in cui ha sovrapposto le due percentuali come fossero la stessa faccia della medaglia luccicante del suo consenso popolare. Con la conseguente decisione di non saltare un giro, pro-imponendo la persona che aveva dato il nome alla riforma bocciata nel fondamentale ruolo di sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio del governo Gentiloni: la battagliera Maria Elena Boschi, che però aveva perso quella sua buona battaglia. Dimostrando comunque di essere potenzialmente in grado di vincerne altre, avendo dalla sua tempo e capacità.
E anche qui forse vale il monito: gli entusiasmi passano, gli interessi restano.

Ma cosa avrebbe votato Francesco Cossiga quel 4 dicembre?
La domanda è da storia controfattuale, forse oziosa, di sicuro almeno in queste pagine inevitabile. Perché anche Cossiga scrisse dal Quirinale una pagina importante in materia. La scrisse (anzi, ne scrisse parecchie: il documento è di 82 cartelle) il 26 giugno 1991.
Dopo mesi e mesi di ripetuti appelli che avevano trovato posto anche nei discorsi di fine anno del 1989 e del 1990 (parole spesso non ascoltate e non comprese, analogamente a quanto avverrà, come abbiamo visto, con Giorgio Napolitano), Cossiga inviò infatti un messaggio alle Camere proprio sulle riforme istituzionali.
“Oggi abbiamo bisogno di una democrazia compiuta e governante”, il senso centrale del suo ragionamento.
Ricordiamo intanto il contesto. Una vera e propria miniera di link, forse non solo per i cultori della materia.
Mancava dunque poco meno di un anno alla fine della decima legislatura; di lì a qualche mese sarebbe scoppiata Tangentopoli e nell’aprile del 1992 Cossiga avrebbe lasciato il Colle, con qualche settimana d’anticipo rispetto alla scadenza naturale del Settennato.
Cossiga peraltro aveva naturalmente chiaro il problema dell’ingorgo istituzionale, in quanto coincidevano le elezioni per il Parlamento e quella per il Quirinale; e aveva sollevato la questione per dimettersi prima del tempo e lasciare ad un altro Capo dello Stato, eletto appunto dalle Camere rinnovate, il compito di nominare un nuovo Presidente del Consiglio.
C’è altro. Come abbiamo già visto, il 24 ottobre 1990 Andreotti rivela l’esistenza di Gladio. A giudizio di molti, la mossa dell’allora inquilino di Palazzo Chigi era diretta a provocare le dimissioni di Cossiga, indicato tra i fondatori di quella struttura. Cossiga apprende quella rivelazione direttamente dalle agenzie di stampa. Tempo dopo, in una lettera all’”amico Francesco”, Andreotti respingerà “la sciocca e infondata tesi che quando ne parlai in Parlamento mirassi a danneggiare o a creare fastidio a te”. Le asserite responsabilità di Cossiga nei confronti di Gladio vengono confermate dall’interessato che, ancora Presidente, ammise con fierezza, nell’esternazione a Edimburgo del 1990, la parte avuta nella sua messa a punto, in quanto sottosegretario al ministero della Difesa tra il 1966 e il 1969. E il 26 novembre 1991 Cossiga si autodenuncia con un documento inviato alla Procura di Roma, dopo che il giudice istruttore di Venezia Felice Casson aveva indagato l’ammiraglio Martini e il generale Inzerilli, responsabili di Gladio, per cospirazione politica mediante associazione. Nel documento Cossiga dichiara: “Rivendico in pieno la tutela di quarant’anni di politica della Difesa e della sicurezza per la salvaguardia dell’integrità nazionale, dell’indipendenza e della sovranità territoriale del nostro Paese nonché della libertà delle istituzioni, anche al fine di rendere giustizia a coloro che agli ordini del Governo legittimo hanno operato per la difesa della Patria”.
Il messaggio sulle riforme di inizio estate è anticipato dalla bufera di inizio primavera provocata dall’intervista rilasciata ad un gruppo di cronisti alla Fiera di Roma. “Adesso gli scherzi sono finiti”, annuncia Cossiga il 23 marzo 1991, minacciando lo scioglimento delle Camere.
“Fuori controllo”, titola L’Espresso di quella settimana citando in copertina tre frasi di Cossiga: “Noi stiamo stravolgendo l’ordine delle competenze costituzionali”; “Noi stiamo fuoriuscendo dalla Costituzione”. “Noi stiamo fuoriuscendo dal nostro ordinamento”.
In quelle ore Andreotti lavora ad un rimpasto del sesto governo da lui presieduto; Cossiga non avalla questa soluzione. Quelle tre frasi vogliono far suonare l’allarme istituzionale, sollecitando la Grande Riforma, in gran parte condivisa dall’opinione pubblica.
Il giorno dopo Scalfari in un editoriale parla di fine della Prima Repubblica. Scrive: “Allargando giorno per giorno la sua sfera d’intervento, egli perseguirebbe così l’obiettivo di svuotare la Repubblica parlamentare e costruire per tappe successive una Repubblica presidenziale sui generis, al di fuori d’una riforma studiata e approvata dalle Camere secondo le previste e legittime procedure”. Per il fondatore del quotidiano Repubblica “non è improprio parlare di ‘colpo di stato bianco’ e raffigurare un attentato alla Costituzione”.
Negli stessi giorni sull’ Economist la giornalista Tana De Zulueta (che in seguito diventerà parlamentare italiana nelle liste dell’Ulivo) si chiede se davvero, come sosteneva L’Espresso, Cossiga sia “fuori controllo”; o se invece sia come la “lepre marzolina” di Alice nel paese delle meraviglie: volutamente, fintamente matto.
Questo dunque il contesto. Particolarmente ricco e controverso, come abbiamo potuto constatare.
Lo scopo del messaggio di Cossiga alle Camere è indicato nella sua stessa lettera di trasmissione al Presidente della Camera Nilde Jotti.
La prima parte del messaggio rievocava la cornice storica politica che aveva portato all’approvazione della Costituzione repubblicana. Con la necessità che alcuni istituti dovessero essere ancora ripensati alla luce dell’esperienza, e se necessari riformati. Osservava il Capo dello Stato: “Su questo tema sono state scritte da alcuni dei nostri maggiori pensatori in tutto l’arco dell’esperienza costituzionale repubblicana, da Croce a Calamandrei, a Salvemini, Jemolo e Bobbio, con parole talvolta aspre e dure”. Se Croce si limitò a definire il testo elaborato dai 75 come il frutto di un “reciproco concedere e ottenere”, Calamandrei – aggiunge Cossiga con il suo spirito pungente – “giunse sino a paragonarlo a un libertino di mezza età al quale un’amante giovane aveva strappato tutti i capelli bianchi per ringiovanirlo e una vecchia moglie tutti i capelli neri per invecchiarlo, sicché alla fine era rimasto calvo del tutto”.
Cossiga ripercorreva quindi le profonde trasformazioni sociali ed economiche del nostro Paese dal dopoguerra ad oggi, trasformazioni che necessitavano a parere del Presidente di una complessiva revisione dell’assetto istituzionale repubblicano.
E proponeva un elenco delle principali questioni cui l’intervento riformatore dovrebbe rivolgersi: la forma di governo e il sistema elettorale, il ruolo delle autonomie, la disciplina dell’ordine giudiziario, i nuovi diritti di cittadinanza e gli strumenti relativi alla finanza pubblica.
Il Presidente individuava quindi quali possibili procedure per la realizzazione del progetto di riforma: il ricorso alle procedure previste dall’articolo 138 della Costituzione; l’utilizzazione da parte delle Camere di poteri costituenti; l’elezione di una vera e propria Assemblea Costituente.
Qualunque fosse stata la via scelta dal Parlamento per l’approvazione dell’intervento riformatore, Cossiga riteneva comunque necessario che nel procedimento fosse assicurato un ruolo di primario rilievo all’espressione diretta della volontà popolare, ruolo da porsi in diretta connessione con l’accoglimento, alla base del vigente ordinamento democratico, del principio della sovranità popolare.
Il Capo dello Stato si soffermava quindi sulle varie ipotesi di riforma elettorale, affermando comunque la necessità di rispettare i principi emersi nella consultazione referendaria riguardante la preferenza unica del 9 giugno precedente, che aveva registrato oltre il 95% di voti favorevoli.
Il messaggio si concludeva con un appello alle Camere per l’avvio di un processo riformatore finalizzato al superamento della situazione di “democrazia bloccata” che caratterizzava il sistema istituzionale.
Il messaggio viene controfirmato dal ministro della Giustizia Martelli, ma non dal Presidente del Consiglio Andreotti. La questione è controversa ma sembra che Cossiga fosse d’accordo con tale soluzione.
Il dibattito seguito al messaggio si svolse dal 23 al 25 luglio presso entrambi i rami del Parlamento. E si concluse con la lettura in Aula da parte dei rispettivi Presidenti di una lettera, di identico contenuto, inviata dal Presidente della Repubblica, nella quale veniva espresso il ringraziamento per l’attenzione riservata in sede parlamentare, da parte di tutti i gruppi, ai temi evidenziati nel messaggio; e veniva formulato l’auspicio di una rapida ed efficace soluzione dei problemi istituzionali oggetto del dibattito.
Ma in pratica fu un nulla di fatto.
La Dc per prima non raccolse il messaggio. In pochi ne condividevano l’obiettivo.
Tra questi, Beppe Pisanu. Che mi racconta l’estremo tentativo di Cossiga. Al Quirinale salgono alcuni esponenti di spicco dello Scudo crociato: Ciriaco De Mita, Antonio Gava, Arnaldo Forlani.
Il Presidente spiega in maniera accorata che il Muro di Berlino era crollato non solo sul Pci ma anche addosso alla Dc; ed era arrivato il momento di ripensare la politica e le sue regole per aprire una stagione nuova. E dunque le riforme istituzionali potevano ricreare quello spirito costituente al quale peraltro Aldo Moro guardava con nostalgia come momento di altissimo confronto. Al termine del colloquio il campano Gava, fino a pochi mesi prima ministro dell’Interno, si alza con fatica dal tavolo (già da tempo non era in buone condizioni di salute), e appoggiandosi alla scrivania scandisce: Francesco, con queste regole noi abbiamo governato 40 anni … perch’avimm a cambià? Cossiga, ormai rassegnato, replica: perché tra qualche giorno vi prenderanno a pomodori per le strade, e speriamo siano solo pomodori.
Luigi Zanda la legge da un altro punto di vista. “Ho sempre rimpianto che Cossiga abbia elaborato quel messaggio soltanto alla fine del Settennato. L’architettura istituzionale proposta aveva uno spessore rilevante, ma a sei mesi dalla scadenza del mandato non aveva alcuna possibilità di andare in porto, era un testamento politico più che un atto nel quale confidare. L’indifferenza del Parlamento secondo me fu dovuta non tanto ai contenuti quanto al rifiuto di esaminare il messaggio di un Presidente con il quale c’erano stati momenti di grande tensione”.
Zanda però estende i confini della sua considerazione: “Il Parlamento italiano ha dei debiti nei confronti di alcuni suoi ex Presidenti della Repubblica, per non avere accolto con grande partecipazione alcune sollecitazioni forti. Penso in primo luogo al messaggio di Napolitano sulle carceri, di grande significato, ma che le Camere non hanno mai discusso. Quando parliamo delle ragioni del declino del Parlamento ci riferiamo spesso all’invadenza dei governi. Ma anche il Parlamento ha le sue responsabilità”.
In quel 1991, tra i partiti dell’area di Governo, a sostenere la proposta di Cossiga c’è solo il Psi di Craxi. Non a caso.
Già nel settembre 1979, sulle colonne de L’Avanti, nello scritto titolato “VIII legislatura”, il leader socialista invocava infatti una ‘grande riforma’ che abbracciasse insieme gli ambiti istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale.
Anche Cossiga, con il suo messaggio alle Camere, sollecitava la gran­de riforma: ce n’era bisogno, spiegherà fino all’ultimo, “per schiva­re la crisi che stava per esplodere”.
Cossiga insomma era convinto della necessità di modificare la seconda parte della Carta. Perché, scriveva nel 1991, “una cosa è parlare con senso di giusta sacralità della Costituzione del 1948, come insieme di princìpi, valori, istituzioni, in cui si è coagulato il frutto di una battaglia ideale e di una lotta per la libertà e per il riscatto nazionale; altra cosa è parlare di rinnovamento delle istituzioni”.
D’altra parte, ricordava in occasione del dibattito referendario l’ex giudice della Corte Costituzionale Sabino Cassese, “in Germania la Costituzione l’hanno cambiata quasi una volta l’anno, non è possibile che in Italia si debba considerare qualcosa di immutabile “.
Sottolineava ancora Cassese: “Quelli che scrissero la Costituzione erano sicuri che si dovesse cambiare. È utile leggere a questo riguardo alcuni brani, tratti da un discorso fatto da Meuccio Ruini, il Presidente della commissione che scrisse la Costituzione, all’Assemblea Costituente, e dall’intervento succes...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tre minuti trentuno secondi
  3. Indice dei contenuti
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. L'nterprete (Cossiga e Aldo Moro)
  7. La coperta (Cossiga e la ragion di Stato)
  8. Le fondamenta (Cossiga e le riforme)
  9. Vento (Cossiga e i silenzi)
  10. Altro (Cossiga e la comunicazione)
  11. Luce (Cossiga e i “suoi” Santi)
  12. Conclusioni (senza conclusione)
  13. Bibliografia