Capitolo 1
Intenzionalità
Per definizione, l’advertising elabora messaggi caratterizzati dall’intento di vendere un prodotto. Prima di passare alla canzone e allo spot, vogliamo indagare su cosa significhi realmente il termine “intenzione”, su come possa essere applicato alla critica culturale e sul perché riteniamo sia un concetto fondamentale per comprendere le pubblicità e il loro impatto sulla cultura.
Secondo la nostra teoria, il modo in cui percepiamo le intenzioni è il punto di partenza per le diverse interpretazioni della canzone dei Beatles e della conseguente pubblicità. Chi era convinto che l’intento commerciale dissacrasse le intenzioni politiche di John Lennon ha sviluppato un’interpretazione ostile. In realtà, le diverse letture della canzone dei Beatles e dello spot Nike seguivano convinzioni più ampie circa la relazione appropriata fra linguaggio commerciale, espressione artistica e azione politica.
Partendo da questo punto, l’uso delle celebrità nell’advertising non vede semplicemente un trasferimento diretto di significato dalla celebrità al marchio. Con ciò si vuole dire che è troppo semplice considerare le celebrità delle merci gestibili (“marchi umani”), perché si tratta di persone reali con problemi e idee politiche proprie. Di conseguenza, i riferimenti ai personaggi famosi nelle pubblicità saranno interpretati nell’ottica delle loro vite o del loro lavoro, forzatamente inquadrate dall’apparente intento della pubblicità. L’individuo in costante evoluzione che era John Lennon si è rivelato, nella morte, tanto ingestibile quanto lo era stato in vita; la reazione del pubblico alla pubblicità ha inglobato la sua storia personale, e una parte dei consumatori e della stampa considerò l’utilizzo del personaggio un evento negativo per la Nike.
Così, la storia di Revolution ci fa riflettere più a fondo sulla collocazione della musica popolare nella cultura, mostrandone lo status mutevole sia a livello politico che culturale – a volte sacro, altre profano, a volte artistico, altre ancora commerciale – e quindi ci porta alla natura dinamica e complessa degli standard di “autenticità” chiamati in causa. Il nostro obiettivo principale, tuttavia, è quello di includere l’intenzionalità nell’interpretazione dell’advertising. Una serie di studi sul marketing ha già riportato diverse strategie retoriche che plasmano i rapporti fra le agenzie pubblicitarie e i loro clienti, o le aziende che le assumono. Sono strategie evidenti quando si tratta di divergenze creative, modi differenti di concepire il consumo e preferenze diverse riguardo alle dimensioni della campagna. Tuttavia, quando gli studi sono destinati a valutare gli effetti sui consumatori, questa eterogenea gamma di dati viene ignorata. Pertanto, quando Demetrios Vakratsas e Tim Ambler pubblicarono l’ambiziosa analisi “How Advertising Works: What Do We Really Know?” sul Journal of Marketing, seguirono una procedura consolidata nelle ricerche sull’advertising: definirono i produttori di pubblicità con un unico termine – “pubblicitari”. Inoltre, attribuirono a questi ultimi lo stesso obiettivo semplicistico individuato costantemente dagli studi passati al vaglio: i “pubblicitari” puntano alle vendite. È questa la convinzione superficiale che prevale.
Come dimostreremo, non è raro che gli studi critici sull’advertising prendano le mosse da una tradizione che mette da parte le intenzioni, spesso con lo scopo di imputare ai pubblicitari la colpa dei più importanti mali della società. Pertanto, nelle analisi sul commercio, sulla cultura e sui mezzi di comunicazione, gli studiosi di advertising traggono di frequente delle conclusioni – emettendo persino verdetti di colpevolezza – sulla base di tacite ma chiare supposizioni circa l’intento dei pubblicitari. Da questa visione ha origine una specie di complottismo, che ci porta a credere come pubblicitari e produttori di beni di consumo possano inserire messaggi razzisti e misogini nei loro prodotti in quanto malintenzionati. Sostenere che ci deve essere un modo più efficace per interpretare l’advertising nell’ambito della politica culturale non è voler fare un’apologia del settore. Per comprendere meglio questo problema, ci rivolgiamo alle teorie dell’intenzionalità.
L’intento di una campagna promozionale – gli obiettivi, le strategie e il progetto che ne consegue – ne determina fortemente la costruzione. L’intento di aumentare le vendite è spesso in contrasto con quello di consolidare il marchio, sebbene entrambi siano scopi prioritari di quasi tutte le iniziative commerciali e le campagne pubblicitarie. Le pubblicità di solito nascono dalla collaborazione fra un cliente, che guadagna denaro producendo qualcosa, e un’agenzia pubblicitaria, che guadagna denaro producendo messaggi. Nonostante fingano spesso di essere interessate prima di tutto alle vendite del cliente, le agenzie non vengono mai remunerate in base alle percentuali sulle vendite; piuttosto, la speranza di arricchirsi poggia su un’elaborazione di messaggi così efficace da aggiudicarsi budget più alti, ulteriori progetti e nuovi clienti. Pertanto i due partner lavorano per obiettivi diversi, anche se collegati fra loro, e sono guidati da convinzioni differenti sulla situazione del mercato, sul profilo del target di consumatori, sulle teorie riguardo al funzionamento dell’advertising e sull’estetica che dovrebbe determinare l’aspetto e il tono delle pubblicità. Inoltre, l’industria dell’advertising ospita da tempo filosofie contrastanti, ciascuna delle quali può vantare campagne grandiose ed esponenti celebri. A questo si aggiungano i ruoli professionali svolti dai soggetti coinvolti (i produttori di grafica, messaggi promozionali, suono e video), così come gli obiettivi personali che animano tutti gli esseri umani (fare colpo sui concorrenti, cercare di pararsi le spalle), e si può comprendere molto facilmente perché Marion Harper, leader nel campo, paragonò il dipinto di un furioso combattimento di galli appeso nel suo ufficio alla “storia dell’advertising”.
Basta accennare la potenziale complessità insita negli intenti pubblicitari per capire quanto debbano essere complicate le teorie dell’intenzionalità. In effetti, il concetto di intenzione è stato un punto di grande interesse nella retorica, l’ermeneutica, la filosofia, la giurisprudenza e le arti in genere nell’ultima metà del ventesimo secolo. Molto di questo interesse scaturisce da un unico saggio: The Intentional Fallacy di W.K. Wimsatt e Monroe Beardsley, tratto dal libro del 1954 The Verbal Icon. Scritto durante un cambiamento di paradigma rispetto a una scuola di teoria letteraria che si concentrava su intenzione ed effetto, questo saggio ha gettato le basi del movimento del new criticism, che cercò di competere in obiettività con la scienza escludendo dalla sua analisi effetto e intenzioni (assieme a contesto storico e culturale) e concentrandosi esclusivamente sul testo. I “nuovi critici” cercarono di valutare cosa fosse o non fosse arte basandosi soltanto sulla presenza o meno di determinate caratteristiche formali. Nonostante le ambizioni esclusiviste dei nuovi critici possano sembrare antiquate, convinzioni simili riguardo a cosa debba considerarsi arte sono state determinanti nella risposta a Revolution, sia nella versione dei Beatles che in quella Nike. È interessante notare come l’allusione e il paradosso (o ironia) fossero le caratteristiche ritenute più importanti dai nuovi critici, entrambi strumenti centrali per interpretare l’opera dei Beatles e lo spot Nike.
Il new criticism è stato soppiantato da una moltitudine di altre teorie – fra le quali lo strutturalismo, il femminismo e il marxismo. Anche molte di queste escludevano assiomaticamente l’intenzionalità, ma due scuole in ascesa negli anni Settanta, quelle di retorica ed ermeneutica, si preoccuparono di riabilitare l’intenzionalità per frenare la tendenza verso interpretazioni esoteriche. Lo studioso di ermeneutica E.D Hirsch condannò la corsa, tanto di moda, verso una polisemia estrema, verso “esagerazioni e arbitrarietà ostinate nella critica accademica”, in cui “è stata costruita una teoria dove il significato del testo ha finito per coincidere con qualunque cosa possa ragionevolmente indicare”.
L’eliminazione dell’intento dall’analisi letteraria fu imitata dagli studi di altre forme artistiche e popolari. Per esempio, il saggio Decoding Advertisements di Judith Williamson, nel 1978, costituì in seguito un modello per una vasta fetta di critica della pubblicità:
La pubblicità sembra avere vita propria; esiste dentro e fuori altri mezzi di comunicazione, e ci parla con un linguaggio riconoscibile, ma una voce impossibile da identificare. Questo accade perché le pubblicità sono prive di “soggetto”. Naturalmente ci sono persone che le inventano e producono, ma a parte il fatto che si tratta di sconosciuti senza volto, in ogni caso la pubblicità non pretende di essere una portavoce, non sono loro che ci parlano. Così c’è uno spazio, un vuoto in cui dovrebbe esserci il parlante; e una delle caratteristiche principali della pubblicità è che ci viene chiesto di riempire quel vuoto, e quindi diventiamo al tempo stesso ascoltatori e parlanti, soggetto e oggetto.
In questo breve estratto, Williamson ha avuto la stessa sottigliezza condannata da altri critici, da E.D Hirsch a David Bordwell, mettendosi al posto sia dell’autore che del lettore. Da qui, libera dalla necessità di dimostrare intenti o effetti, si è dedicata alla costruzione del retroterra teorico di centinaia di pubblicità scelte in base a criteri oscuri, e per le quali ha fornito ben poche informazioni in termini di contesto storico, culturale o competitivo.
Non si vuole negare che le pubblicità abbiano un contenuto ideologico, né respingere i ben articolati timori di Williamson riguardo, in particolare, ai problemi sulla di rappresentazione di genere. Piuttosto, la nostra preoccupazione ha a che fare con il metodo. Affermare che è possibile sviluppare un’unica e fissa interpretazione delle pubblicità basandosi su un’analisi strutturale che non prende in considerazione la vera risposta del pubblico, le intenzioni dell’autore o le molte specificità che riguardano il processo di produzione (a quanto pare dal punto di vista di Williamson l’intera produzione pubblicitaria segue le stesse, generiche convenzioni ideologiche), porta inevitabilmente a conclusioni falsate e persino, secondo noi, a sopravvalutare la portata e la capacità di un testo pubblicitario. Sebbene le pubblicità non siano effettivamente prive di ideologia (un fatto che non contestiamo), non possiamo dare per certo che questo contenuto ideologico funzioni sempre, che sia stato inserito in maniera specifica e deliberata dai produttori del testo o che ci saranno dei momenti precisi in cui il pubblico lo decodificherà nel modo previsto dal critico culturale.
Fra l’altro, così come vengono illustrate da Williamson, le forme di ideologia presenti nelle pubblicità sono profondamente complesse e richiedono l’acuta comprensione dell’opera di teorici notoriamente complicati, come Jacques Lacan, per essere interpretate. A quanto pare, dovremmo supporre che in qualche modo i pubblicitari sappiano come inserire ideologie così complesse in ciascuna pubblicità, come se tutti fossero esperti di applicazioni della psicoanalisi lacaniana. Estendendo questa generalizzazione alla totalità dei professionisti, ciò risulta di sicuro improbabile. Detto in altri termini, da professori di marketing che conoscono bene i comuni manuali di advertising su cui si studia la materia, possiamo conf...