La terapia elettroconvulsivante
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La terapia elettroconvulsivante

Un manuale per medici invianti e operatori Con 22 illustrazioni

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La terapia elettroconvulsivante

Un manuale per medici invianti e operatori Con 22 illustrazioni

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«La terapia elettroconvulsivante (TEC) rimane, anche agli inizi del XXI secolo, una tecnica terapeutica moderna e insostituibile per il trattamento di gravi malattie psichiche.
Se si guarda all’attacco generalizzato come all’elemento chiave e all’agente terapeutico del trattamento, si possono ripercorrere le sue origini molto a ritroso nella storia. Già nel XVI secolo la canfora veniva utilizzata per provocare spasmi curativi. A Meduna va il merito di avere posto, oltre 75 anni fa, con l’esame sistematico di attacchi provocati farmacologicamente, le basi scientifiche per la terapia convulsivante. Ciò ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici per le malattie psichiche gravi.
È solamente con l’utilizzo da parte di Ugo Cerletti e Lucio Bini di impulsi elettrici per provocare gli attacchi, che il procedimento si è potuto impiegare in maniera sufficientemente controllabile e clinicamente sicura. Questa prima forma della TEC ha migliorato i disturbi di innumerevoli pazienti e cambiato profondamente le condizioni della tecnica psichiatrica.
…] Con questo libro vogliamo contribuire a migliorare la percezione della TEC come opzione terapeutica moderna. Questo scopo non può, per forza di cose, essere raggiunto dai terapeuti nei centri per TEC da soli. Per questo abbiamo pensato questo libro fin dall’inizio anche per i medici invianti, in particolare coloro i quali hanno il compito di identificare quei pazienti con disturbi psichici a cui la TEC può essere d’aiuto…»
I Curatori

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833792477

1. Aspetti generali

Vanessa Reinke, Linda Bertram, Michael Grözinger
La storia della TEC si estende lungo un arco di quasi 75 anni, partendo dalle prime terapie scientificamente fondate per arrivare all’attuale rosa di possibilità di cura. La scienza medica in questo lasso di tempo ha fatto progressi notevoli; tuttavia non si è riusciti ancora a trovare una spiegazione coerente per le modalità di funzionamento della TEC. Quello che è certo, è che l’attacco generalizzato è l’agente terapeutico del procedimento. L’efficacia terapeutica è infatti in correlazione con la intensità dell’attacco, ed è stata osservata sia con attacchi provocati farmacologicamente, che provocati attraverso l’utilizzo di elettricità. Perciò la TEC non è da considerarsi come parte della tradizione curativa dell’energia elettrica, ma basa la sua efficacia su quella degli attacchi epilettici. Ciò corrisponde anche al suo sviluppo storico. La TEC infatti non è una metodologia originale, bensì la continuazione della terapia convulsiva impiegata nel 1934 da Ladislas Meduna. Gli sviluppatori della TEC, gli psichiatri italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini, si consideravano come parte della tradizione della terapia convulsiva.
Un attacco epilettico è un evento che suscita angoscia e repulsione, nonché un sintomo stigmatizzante di diverse affezioni. Allo stesso tempo troviamo testimonianze di effetti positivi di attacchi epilettici per problemi di natura psichica risalenti fino al XVI secolo. Anche dopo il lavoro pionieristico di Meduna, si sono rese necessarie numerose innovazioni, prima che la sua trasformazione in un moderno metodo terapeutico potesse dirsi conclusa. L’utilizzo della farmacologia per provocare gli attacchi venne presto sostituito dalla stimolazione elettrica, facendo sì che in questo modo la procedura divenisse meglio controllabile e più sicura. L’introduzione della succinilcolina ha ridotto al minimo il rischio di infortuni durante l’attacco, rendendo però al contempo necessaria un’anestesia temporanea a causa della paralisi della muscolatura respiratoria. Al contempo si è cristallizzato il focus applicativo sui “disturbi affettivi gravi”. L’informazione e il consenso del paziente hanno consolidato la posizione giuridica della TEC come intervento medico, circoscrivendone l’utilizzo ai medici. Le tecniche moderne di stimolazione e di monitoraggio, l’iperossigenazione pre-ictale e le misure anestesiologiche di sostegno hanno notevolmente migliorato la TEC sotto il profilo della sicurezza. Nonostante questi progressi, la TEC viene considerata dai pazienti, dall’opinione pubblica e spesso anche dai medici come antiquata, e il suo impiego viene visto con diffidenza. Alla base di questo atteggiamento ci sono senza dubbio vicende storiche.

1.1. Quadro storico

Il XIX secolo fu un’epoca in cui le conoscenze scientifiche e il progresso tecnologico si svilupparono a ritmi vertiginosi. Anche nella medicina si venne ad affermare il metodo scientifico, e si stabilirono standard unitari per la descrizione e la diagnosi dei quadri clinici. Per quanto riguarda il trattamento delle malattie mentali gravi tuttavia fino agli anni ’20 del XX secolo si poterono fare solamente pochi progressi.
Già nel XIX secolo si era diffusa l’idea che nel caso dei disturbi psichici ci si trovasse di fronte a delle malattie. L’esempio classico per questo cambiamento di mentalità è dato da Philippe Pinel in Francia, che nel 1793 “liberò i malati dalle catene”, ponendo così le basi per la nascita degli istituti psichiatrici. Si cominciarono a trattare i pazienti, che fino ad allora venivano semplicemente reclusi, anche se con trattamenti forzati in parte brutali: ad esempio alcuni pazienti, legati a una sedia, venivano fatti girare su se stessi fino allo svenimento. Bagni di acqua gelata o digiuni prolungati (Schott e Tölle 2005) sono altri esempi rilevanti.
Di conseguenza i malati mentali dovevano venire ricoverati in ospedali. Alla fine del XVIII secolo si iniziò dunque con la costruzione di grandi istituti, i quali però rapidamente si sovraffollavano, dal momento che, mentre da un lato vi era un notevole afflusso di pazienti, nessuno veniva dimesso, vista la mancanza di terapie efficaci. Le possibilità di trattamento per i malati gravi, in genere pazienti che, prendendo spunto da Emil Kraepelin, soffrivano di “dementia praecox” o di “follia maniaco-depressiva”, consistevano in ergoterapia e terapia del lavoro. Le forme allora note di psicoterapia (p.e. l’ipnosi) si dimostravano in genere inefficaci con questi pazienti. Di fatto ciò significava che i pazienti dovevano rimanere ricoverati per lunghi periodi di tempo. I primi tentativi di influenzare biologicamente le malattie psichiche si ebbero nei primi del ‘900.

1.2. Le prime terapie somatiche per le malattie psichiche

Nella prima metà del XX secolo vennero sviluppate diverse forme di terapia somatica per le malattie psichiche. Dal punto di vista di oggi vengono definite “terapie eroiche”, perché i pazienti dovevano mettere in conto notevoli rischi ed effetti collaterali in cambio di una speranza di miglioramento fino ad allora sconosciuta. A differenza della TEC, i metodi descritti in questa sezione hanno oggi un valore esclusivamente storico. Non è stato possibile farli divenire delle metodologie mediche moderne.
La cura del sonno. La “cura del sonno”, attribuita allo psichiatra svizzero Jakob Klaesi (1883-1980), si fa risalire originariamente alla descrizione di un caso da parte dello psichiatra torinese Giuseppe Epifanio (Epifanio 1915). L’articolo, pubblicato solo in italiano, non trovò risonanza internazionale. A partire dal 1920 durante la “cura del sonno”, o “sedazione prolungata” come la definiva Klaesi, Epifanio induceva un sonno continuato di due settimane attraverso il barbiturico Somnifen, allo scopo di rendere il paziente più recettivo verso la terapia psicoterapeutica (Klaesi 1922). Gli scarsi risultati, che altri psichiatri non riuscirono a replicare, e l’insorgere abbastanza frequente di complicazioni – secondo il racconto di Klaesis (1922) 3 dei 26 pazienti morirono – fecero sì che questo tipo di trattamento venne abbandonato già negli anni ’30 (Windholz e Witherspoon 1993).
Psicochirurgia. Lo psichiatra svizzero Gottlieb Burckhardt (1836-1907) condusse per primo, nel 1988, interventi psicochirurgici, asportando diverse parti di tessuto cerebrale. A causa dei pesanti effetti collaterali venne criticato duramente dai suoi colleghi. Il portoghese Egas Moniz (1874-1955) sviluppò nel 1936 la tecnica della lobotomia prefrontale come cura per la schizofrenia. Nel corso di questi interventi, venivano recise le connessioni nervose della corteccia prefrontale, senza localizzare esattamente le lesioni. Nel 1949 ottenne per i suoi lavori assieme a Walter Rudolf Hess il premio Nobel per la fisiologia o la medicina. Fino a oggi, l’attribuzione di questo premio viene contestata.
La “schockterapia”. La psichiatra francese Constance Pascal coniò a Parigi il termine “schockterapia”. Propose di “scioccare” il sistema nervoso attraverso iniezioni di oro colloidale, latte o vaccini, per riportarlo in questo modo a uno stato di equilibrio. Non si faceva ancora menzione in questo approccio degli attacchi epilettici (Pascal e Davesne 1926). Le “schockterapie” rientravano nella tradizione delle “terapie da sconvolgimento” del XIX secolo, come p.e. la già citata terapia della sedia rotante. A Pascal era nota la terapia malarica di Wagner-Jauregg.
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Figura 1.1. Ladislas J. Meduna (da Fink 1999; photo courtesy of University of Illinois at Urbana-Champaign Archives, 0001167).
La terapia piretica. Lo psichiatra austriaco Julius Wagner-Jauregg (1857-1940; fino al 1919 Julius Wagner Cavaliere di Jauregg) si era già occupato agli inizi della sua carriera medica degli effetti della febbre sulla psicopatologia dei suoi pazienti. Nel 1887 pubblicò la trattazione “Sull’effetto delle malattie febbrili sulle psicosi” (Wagner 1887). Dopo anni di ricerche sulla tubercolina, i vaccini del tifo e gli streptococchi, nel 1917 infettò 9 pazienti che soffrivano di paralisi progressiva con il sangue di un soldato ammalatosi di malaria. Per curare quest’ultima impiegò il chinino, già affermatosi all’epoca come cura. Negli anni seguenti Wagner-Jauregg in quanto direttore della clinica regionale della Bassa Austria per le malattie nervose e mentali a Vienna, continuò a sviluppare questo metodo di cura (Wagner-Jauregg 1918, 1919). Lo combinava sempre con arsfenamina, un composto organico dell’arsenico messo in commercio come Salvarsan nel 1910 da Hoechst, che permise di trattare per la prima volta la sifilide. Fino alla scoperta degli antibiotici agli inizi degli anni ’40, la terapia malarica è rimasta la terapia più efficace per la cura della paralisi progressiva, conoscendo una rapida diffusione in tutto il mondo. Wagner-Jauregg ottenne nel 1927 per i suoi lavori il Premio Nobel per la medicina o la fisiologia.
Ipoglicemia. Manfred Sakel (1900-1957), nato a Nadwirna nell’odierna Ucraina, allora Impero Austro-Ungarico, curava pazienti morfinomani in una clinica privata di Berlino. Qui notò che gli stati ipoglicemici dei diabetici a cui accidentalmente erano stati somministrate dosi troppo elevate di insulina producevano un’attenuazione del desiderio di oppiacei e dei sintomi dell’astinenza (Sakel 1930). L’insulina era stata isolata per la prima volta nel 1916 partendo da tessuti pancreatici. Dopo l’ascesa al potere dei nazisti lasciò Berlino e iniziò nell’ottobre 1933 a curare pazienti schizofrenici a Vienna. Descrisse nel 1935 le sue esperienze con la nuova “terapia da coma insulinico” nella monografia “Nuovo metodo di trattamento della schizofrenia” (Sakel 1935). Nel 1937 Sakel aveva già avuto delle esperienze con 300 pazienti da lui trattati (Sakel 1937). Fino alla scoperta della farmacoterapia antipsicotica, la “terapia da coma insulinico” ha avuto un ruolo importante nella cura delle psicosi schizofreniche. Sakel stesso definiva la sua terapia come “schockterapia”. Nel 10-30% dei pazienti si verificarono durante il coma ipoglicemico anche attacchi convulsivi. Ciò sollevò in seguito la questione su quale fosse il vero agente della terapia da coma insulinico (Shorter e Healy 2007).

1.3. La terapia convulsiva farmacologica di Meduna

Nella seconda metà del XIX secolo si osservò nei pazienti epilettici che gli attacchi e gli episodi psicotici a volte avvenivano a fasi alterne. Il fenomeno, descritto nel 1953 da Hans Heinrich Landolt (1917-1971) come “normalizzazione forzata”, faceva presupporre un antagonismo tra epilessia e schizofrenia. Nel corso di attività di ricerca istologica presso il centro di ricerca cerebrale a Budapest, il neuropsichiatra László Joseph Meduna (1896-1964) riscontrò nei campioni prelevati da pazienti con epilessia una maggiore concentrazione di cellule gliali rispetto ai pazienti malati di schizofrenia (Fink 1999) (Fig. 1.1). Ne ricavò l’ipotesi che gli attacchi potessero alleviare i sintomi della schizofrenia. Nel corso di esperimenti su animali, tra la fine degli anni ’20 e nei primi anni ’30, impiegò canfora per provocare degli attacchi convulsivi in dei porcellini d’India. La canfora è presente negli oli essenziali di diverse piante (p.e. alcuni tipi di alloro, piante composite e labiate). Il suo effetto psicotropo era noto da tempo. Già nel 1785 il medico britannico William Oliver aveva somministrato a un paziente maniacale un’alta dose di canfora a scopo sedativo. Il paziente ebbe a quel punto un attacco, in seguito al quale la malattia regredì (Oliver 1785). Questa scoperta non trovò però risonanza fino agli esperimenti di Meduna.
In seguito al successo degli esperimenti sugli animali, il 23 gennaio 1934 Meduna indusse in un paziente con catatonia schizofrenica uno “spasmo curativo” attraverso l’iniezione intramuscolare di una soluzione oleosa a base di canfora. Nella sua autobiografia, Meduna racconta di avere ottenuto nel caso di Zoltán L., 33 anni, dopo un decorso di quattro anni, una completa remissione della malattia con conseguenti dimissioni dall’ospedale, attraverso una serie di attacchi indotti con la canfora (Meduna 1985). Esaminando la cartella clinica originale del paziente, dei medici ungheresi affermano però che tra il 1934 e il 1937 Zoltán L. venne sottoposto a diverse serie di trattamenti convulsivi, indotti prima con la canfora, poi con il pentilenetetrazolo (Baran et al. 2008). Inizialmente ci sarebbe stato un miglioramento, seguito tuttavia dopo alcuni mesi da una ricaduta. Zoltán L. avrebbe comunque manifestato dei sintomi, anche successivamente, e sarebbe morto in clinica nel 1945.
Secondo altre ricostruzioni, Meduna trattò inizialmente 6 pazienti, di cui 5 con una sintomatologia catatonica (Gazdag et al. 2009). Nessuno di questi avrebbe a quanto pare sviluppato un attacco convulsivo dopo la prima iniezione di canfora, per cui il trattamento venne ripetuto il giorno seguente con un dosaggio doppio. Due dei pazienti ebbero allora un attacco. Il trattamento di un paziente con oligofrenia venne sospeso dopo che aveva avuto 2 attacchi consecutivi. Solamente per 2 dei rimanenti 5 pazienti fu possibile osservare dei miglioramenti del loro stato. Uno di loro ebbe soltanto un attacco con 13 trattamenti, avendo una ricaduta 18 giorni dopo questo attacco. Il secondo paziente ebbe 4 attacchi con 19 trattamenti. Sei settimane dopo l’ultimo trattamento iniziò a parlare. Nessuno dei pazienti della prima serie di trattamenti doveva più seguire una dieta speciale, il che venne considerato un grande successo terapeutico (Gazdag et al. 2009).
Nei tre anni successivi, Meduna curò più di 100 pazienti schizofrenici con il suo nuovo metodo, sostituendo in seguito la canfora con il pentilenetetrazolo, più affidabile come agente scatenante degli attacchi. L’iniezione intramuscolare di canfora era dolorosa e causava spesso degli ascessi nel punto di iniezione, oltre che malessere. Inoltre la latenza fino all’attacco era molto variabile, andando da 30 minuti fino a 3 ore. In questa fase, i pazienti erano afflitti da angosce crescenti. Il pentilenetetrazolo (pentetrazolo, metrazolo, PTZ, p.e. Cardiazol) invece era molto più affidabile: l’attacco aveva inizio normalmente già 30 secondi dopo l’iniezione intravenosa. Il pentilenetetrazolo è uno stimolante della circolazione, preso in dosi elevate provoca degli attacchi epilettici. L’esatto meccanismo di funzionamento ancora oggi non è stato del tutto chiarito, l’antagonismo rispetto al ricettore GABA gioca però probabilmente un ruolo rilevante. Questo meccanismo spiega anche l’effetto ansiogeno della sostanza: molti pazienti soffrivano di forti attacchi di panico subito dopo l’iniezione. In seguito all’improvviso inarcamento del torso durante l’avvio dell’attacco, inoltre, non era raro che i pazienti subissero fratture alla colonna vertebrale e lussazioni alle articolazioni. Anche dopo il cambio di farmaco, i successi in termini di trattamento tuttavia rimanevano ben lontani da quanto Meduna avrebbe desiderato. Dei primi 11 pazienti curati con la terapia convulsiva, fu possibile dimetterne solamente 2 dall’ospedale, un terzo paziente poté partecipare alla terapia lavorativa (Gazdag et al. 2009a). Meduna stesso riportava che dei suoi primi 26 pazienti, 10 avevano avuto dei miglioramenti, perlomeno temporaneamente (Meduna 1935). In seguito dichiarò che il trattamento su 110 pazienti aveva portato a una “regressione” per 54 di loro (Meduna 1937). L’esperienza dimostrò che erano soprattutto i pazienti con psicosi acuta e periodi di cura brevi a beneficiarne. Si vide anche che i sintomi affettivi reagivano meglio alla terapia convulsiva di quelli psicotici. Un’analisi successiva delle cartelle cliniche dei primi 26 casi documentati da Meduna dimostra che diversi pazienti che avevano reagito bene alla terapia, visti da una prospettiva attuale soffrivano in realtà di un disordine schizoaffettivo o bipolare (Baran et al. 2002). I notevoli successi ottenuti in alcuni casi fecero sì che, in mancanza di trattamenti alternativi, questo approccio si diffondesse rapidamente in Europa e nel Nordamerica. Dopo la prima descrizione (Meduna 1935), oltre 1000 pubblicazioni apparse fino al 1941 testimoniano il grande interesse del mondo della psichiatria per il suo metodo (Meduna 1954).
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Figura 1.2. Ugo Cerletti (da Pallanti 1999; reprinted with permission from the American Psychiatric Association).

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Prefazione
  6. 1. Aspetti generali: (Vanessa Reinke, Linda Bertram, Michael Grözinger)
  7. 2. La TEC a livello internazionale: (Karsten Henkel, Michael Grözinger)
  8. 3. La TEC in Germania, Austria, Svizzera e Italia: (Thomas Nickl-Jockschat, Jan Di Pauli, Michael Grözinger, Fritz Ramseier, Heinz Böker, Andreas Conca)
  9. 4. Informazioni per pazienti e familiari: (Mark Berthold-Losleben, Michael Grözinger)
  10. 5. La posizione speciale della TEC nella psichiatria e nella società: (Yvonne Chikere, Sebastian Vocke, Michael Grözinger)
  11. 6. Indicazioni ed effetti della TEC: (Bettina Grager, Jan Di Pauli)
  12. 7. La TEC dal punto di vista della sicurezza e degli effetti collaterali: (Sarah Kayser, Bettina H. Bewernick, Andreas Conca, Michael Grözinger, Karsten Henkel, Michael Prapotnik, Thomas E. Schläpfer)
  13. 8. Fondamenti tecnici della TEC: (Alexander Sartorius)
  14. 9. Svolgimento pratico della TEC: (Alexander Sartorius, Roger Pycha, Michael Grözinger, Andreas Conca)
  15. 10. Uso della TEC per gruppi di pazienti speciali: (Nikolaus Michael, Jan di Pauli)
  16. 11. Aspetti anestesiologici della TEC: (Benjamin Gillmann, Alexander Sartorius, Michael Grözinger)
  17. 12. Terapie concomitanti e complementari: (Anna Christina Schulz-Du Bois, Andreas Conca)
  18. 13. Proseguimento della terapia dopo una TEC di successo: (Jan Di Pauli, Michael Grözinger, Nikolaus Michael)
  19. 14. Meccanismi di funzionamento della TEC: (Hildegard Janouschek, Thomas Nickl-Jockschat)
  20. 15. Profili giuridici della TEC in Germania, Austria e Svizzera: (Dirk Olzen, Thomas Nickl-Jockschat)
  21. 16. Aspetti medico-legali della TEC in Italia: (Maria Cristina Salerno, Andreas Conca)
  22. Quarta di copertina