Capitolo I
In cui parlasi un poco dell’Autore e del cervello, a cui si canta un inno
Mi chiamo Saturnino Saturnini e per certe mie idee particolari, non comuni al più degli uomini e certe cose da me fatte che uscivano dell’ordinario, fui detto e chiamato stravagante, il che suona pazzo o poco meno nell’intendimento di molti.
Se lo sia o no, io non vado a cercare, ché la stima degli uomini in certe cose la non mi fa né caldo, né freddo, ed in questi tempi poi è difficile a giudicare quali sieno i matti, e quali i savii.
Nullameno, mi conviene fare una confessione, ed è che il mio cervello mi fa alcune volte degli strani giochetti, e la parte fantastica, aiutata mirabilmente dalla memoria, opera così da farmi parer vero e reale, ciò che non è né l’uno, né l’altro.
Il cervello, secondo me, mi perdonino i fisiologi anatomici se dico degli strafalcioni, è un composto di molte cellule, ognuna delle quali ha la sua destinazione, e una buona parte di quelle cellule è destinata alla memoria, e in esse dee succedere quello che succede nelle macchine fotografiche, ma con molta maggior forza, con molta maggiore varietà. Gli oggetti esterni, tutto ciò che in fatti e in detti ci fa impressione, colpisce i sensi, si fissa in quelle cellule, se ne formano gruppi di immaginette, ed a tempo e luogo, secondo la volontà ed alcune volte contro la volontà, quegli oggetti, quei gruppi, quelle immaginette appariscono e come vetri colorati dalla lente della lanterna magica, così in piena luce si presentano alla fantasia.
La parola fotografia sta proprio al caso; luce e scrittura suona in greco, ed è ben luce, e che luce, la quale trasporta quegli oggetti dall’esterno all’interno, ed è bene scrittura quella che li segna, li imprime e con che penne, con quali punte, nel cervello. Come in una tela, sopra una carta, col lungo andare si cancellano le immagini che il sole, aiutato dai composti chimici, vi ha deposte, così possono svanire le immagini poste nelle molli cellule della parte destinata a ricordare, alcuna volta e per la tenuità e poca importanza delle immagini stesse, alcune altre perché la materia che le ha ricevute aveva perduto, o perdette dappoi la sua potenza, o perché s’è indebolito l’organo, è scemato il fosforo che doveva richiamarle e farle risplendere in piena luce.
Alcune di queste immagini invece vi ci stanno fisse in modo singolare e non le si possono cancellare; hanno forse pochissima importanza con quanto ne circonda e pure esse non isvaniscono dalla misteriosa, arcana negativa fotografica che trovasi stupendamente collocata nel cervello.
Che se’ tu mai, o cervello?
Tu sei l’anima; ti dicono fosforo, coloro che ragionano e sarai fosforo, ma fosforo meraviglioso che t’accendi e dai luce come il sole; il raggio che da te si diparte riscalda, vivifica; ha creato l’Iliade e la Divina Commedia.
Molle e bianco involucro, io sono per te, per te esiste il mio io, per te sento d’essere il centro dell’universo che mi circonda.
Il mio passato non sarebbe se tu non premessi contro le pareti del mio fronte, le tue cellule sono il ricetto della memoria, lo scrigno dell’immortalità.
Che sarebbe la istoria, se la mano dell’Onnipotente non avesse in armonia disposte le tue fibre? Chi ricorderebbe la prima êra del mondo, la battaglia del caos, della luce e delle tenebre, le vicende dell’umanità dai primi vagiti ai delirii di mille popoli, se tu, imperante, non ci sovrastassi?
Per te io salgo sul carro d’Ezechiello; per te mi tuffo in mezzo alla sonante procella; guizzano attorno a me le folgori che si attortigliano, si stringono e si annodano in trecce mostruose, s’allentano, scompaiono, s’inseguono come enormi serpenti di fuoco; tuonano schiantando e una eco, quella dei poli, rimanda quell’onda orribilmente sonora.
Ecco il vento turbinando mi afferra, mi aggira come foglia d’autunno, mi solleva al limite delle nubi, mi squassa, poi colle nebbie e le nubi si ripiega quale titanica onda ed io scorro i cieli e mi libro per un aere in cui improvvisamente si accoglie dolce color d’oriental zaffiro.
La tua ala infaticabilmente agile e presta mi trasporta, o cervello, a voli, ove non è giunto il condor, mirabile augello; forse vi giunse soltanto il fanciullo rapito da Giove.
Ma tu porgi innanzi alla parte in cui in me si urtano gli affetti, una stupenda forma di donna, e dalle sue pupille, cui altro cervello dà vita, scende un fuoco che mi divora. Sarà ella un angelo? Volerò con lei. Sarà un demone? E con lei mi sprofonderò nei baratri del vizio. O Aspasia, o Bice, o la femmina pagana, o la vergine circonfusa dal profumo cristiano.
E tregua non mi dai e mi costringi ad altre lotte, mi fai leggere nel sole con Galileo, studiare le eterne pagine del firmamento con Newton, impallidire con Macchiavelli sul mostruoso codice degli inganni dei principi, mi fai piangere sulla storia dei mille martiri d’un’idea, tremare sul presente dei popoli, vagheggiare nel futuro una nuova città di Dio.
E tu, maraviglioso Automedonte, stringi colla mano potente le cento briglie che fanno capo ai sensi, e spingi, allenti, freni, inciti a vie sconosciute e nuove.
L’aria muta diventa armonicamente sonora: Rossini; la tela parla per una soavità beata di labbra: Raffaello; il sasso ha vita, dorme ed è sveglio: Michelangelo; la forma vince la materia, e la materia è oro: Cellini; il mattone si disegna in arco lambendo le nubi: Brunelleschi.
Una lieve pressione della tua sostanza delicata eccita l’idea, l’idea dà vita al pensiero, il pensiero diventa concetto, il concetto disegno, il disegno si esplica, si attua ed ecco una nazione formata od una distrutta, o Mazzini e l’Italia, o lo Czar delle Russie e la Polonia.
Non veduto, chiuso nella tua scatola d’osso, sei il dominatore del mondo; tu spingi l’umanità nel gran cammino dei secoli, per te essa geme libera o schiava, per te il Medio Evo o l’Ottantanove, Chambord o Gambetta, per te la tirannia o il governo del popolo, la vera libertà, o il petrolio della Comune.
Salve, o cervello, tu non pesi che quattro libbre, è piccolo il tuo volume, ma tu puoi con una pulsazione delle tue fibrille avanzare la umanità nella gran via del progresso, farla indietreggiare di secoli.
Salve, o cervello, voglia tu essermi guida nel cammino della vita; dalla tua altezza dirigi il cuore a sensazioni pure, fammi dimenticare le impressioni d’odio, slancia quel fascio stragrande di luce che chiamasi mente, per cieli interminati in cui solo danzino il bello ed il buono, acuisci la freccia potente del raziocinio in offesa dell’ingiusto, in sostegno dell’oppresso, siimi faro nelle intricate sirti di questo mare ove ad ogni poco ci minaccia il naufragio, domina gli affetti, frena gli impeti ond’è scossa quest’anima mia e riduci me e la mia patria a quel porto di salute che tu mi hai fatto sognare.
Ma perché io mi son fatto a dire tutto ciò? In verità che c’è da ridere, e gli uomini hanno ragione a chiamarmi stravagante.
Capitolo II
In cui si narra la leggenda de’ Sette Dormienti
Del resto non c’è poi tanto da ridere; con quelle parole ho cercato rendermi amico il cervello. I grandi poeti invocarono o le Muse o Apollo; Omero nell’Iliade pretende che la Diva gli canti il Pelide Achille, e nell’Odissea vuol che la Musa gli dica di quell’uom di moltiforme ingegno che fu Ulisse; Esiodo Ascreo nella Teogonia, dopo grandi lodi alle Muse Eliconie, le supplica a dire le cose che desidera, dal lor principio, e nei Lavori e nelle Giornate prega le Pierie Dee a movere il canto; Apollonio Rodio nelle Argonautiche vuol che l’inizio sia da Febo; e dai Greci venendo ai Latini, Ovidio supplica addirittura tutti gli Dei a dargli aita, perché i suoi versi delle Metamorfosi sieno immortali, e Virgilio vuol che la Musa gli detti le cagioni di tante cose e così poi Dante e Tasso invocano e le Muse ed Apollo, ed il portoghese Camoens, le vaghe ninfe del Tago, e sarebbero infinite le citazioni degli scrittori che invocarono qualche cosa prima d’incominciare le loro opere.
Ed io che non credo un fico secco alle Muse ed al loro maestro Apollo, posso ben rendermi caro ed invocare un arnese più utile, qual è il cervello; mi si potrà forse dire, che le invocazioni sono cose viete, ed io risponderò che sono tornate di moda le pettinature alla greca e tante cose, sicché possono bene riporsi in uso le invocazioni e massime al cervello… organo di cui si ha tanto bisogno nel secolo decimonono.
Ma ritorno a quanto diceva più su.
Molte cose adunque che fecero impressione sopra di noi, non vogliono più dipartirsi dalla mente, la quale ci fa d’attorno un lavoro singolare. E così, per dire di me, un nonnulla diventò per il mio cervello una faccenda importantissima, segno evidente che qualche cosa d’un po’ diverso dagli altri c’è nel mio cervello.
In breve dirò quello che mi accadde nel cranio.
Mentre era fanciullo, mi si narrò parecchie volte dal mio maestro la storia dei Sette Dormienti, o leggenda che la si voglia chiamare, e colla fantasia incominciai accarezzare tutte le idee che vi sono annesse, e che in quel tempo era capace annettervi, mi fermai sopra con un’insistenza quasi ostinata, abbellii tutto quell’insieme di cose, di guisa ché anche crescendo negli anni, coll’aiuto delle altre facoltà mentali, quella muta narrazione diventò, per servirmi della già fatta similitudine, una stupenda veduta fotografica, corredata, resa bella da tanti e svariati episodi.
Forse non tutti conoscono quella leggenda, ed io apro una parentesi per narrarla nuda nuda come venne a me narrata.
Ai tempi in cui si perseguitavano i cristiani, sette giovani d’Efeso furono messi vivi e rinchiusi in una caverna. Non era forse ben chiusa ancora ogni fessura che i giovani profondamente si addormentarono e dormirono, dormirono nientemeno che per cento ottanta sette anni. Accadde allora che alcuno di fuori tolse così per caso uno dei sassi che stavano alla bocca della caverna, il sole vi penetrò e quei sette si svegliarono dal loro sonno secolare. Il primo bisogno che sentirono, quello si fu di mangiare, e credo che il loro stomaco dopo cento ottantasette anni di digiuno dovesse per bene sentire gli stimoli della fame. I quali si fecero così forti ed acuti che alfine i sette deliberarono spedire uno di essi alla città affine di comperare del pane. Quel tale uscì con molta circospezione dalla grotta e cominciò fare le grandi maraviglie nel vedere intorno a sé tutto cambiato; il poverino non credeva ai suoi occhi e non poteva immaginarsi come in poche ore, quante appunto credeva averne dormito, si fossero fatti tanti cambiamenti. Vide sentieri, strade, piantagioni, alberi giammai veduti prima, e a stento rinvenne la via per recarsi alla città. Quivi nuove case, nuovi edifici, dimodoché colui di tanto in tanto fregavasi gli occhi, credendo di dormire ancora, e di sognare. Ma qual fu la sua sorpresa allora che in mezzo ad una piazza vide innalzata una croce! Come? — diceva tra sé e sé il giovane… di due secoli — come, ieri io fui co’ miei compagni rinchiuso in una caverna per questa croce appunto, ed oggi la viene in pubblico, in mezzo ad Efeso innalzata? Io sogno, sogno davvero! E faceva segni ed atti di stupore e ...