Le vie dell'acqua
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Le vie dell'acqua

L'Appennino raccontato attraverso i fiumi

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Le vie dell'acqua

L'Appennino raccontato attraverso i fiumi

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Sette scrittori, sette fiumi e una battaglia: restituire all'Appennino il ruolo di dorsale simbolica del nostro paese, raccontandone la storia attraverso i corsi d'acqua che sgorgano dalle sue montagne. L'Appennino ospita una fauna e una flora particolari. Le distese di faggi e di querce, il passo felpato della volpe, del cinghiale e del lupo si sposano con un sottobosco fatto di felci e funghi di ogni tipo. L'umidità lo avvolge e la cortina di silenzio fa sì che la mente di chi lo attraversa trovi la quiete e si disponga alla meditazione, al ricordo, alla fuga con la fantasia. Ma l'Appennino è anche il luogo dove si aprono le sorgenti d'acqua dolce: racconta la storia del Po, del Tevere, del Sele, del Crati. L'acqua è un bene che va narrato nelle sue molte fasi di nascita e di cammino. Ogni regione d'Italia ha le sue fonti, ha i suoi torrenti e i suoi fiumi. Non c'è paese che non debba la sua esistenza a un fiume o a una sorgente. L'acqua è la linfa vitale dei nostri paesi, che disseti uomini e bestie o che irrighi le campagne. E i fiumi sono in movimento continuo, scendono dalle alture e raggiungono i posti più lontani della pianura. Man mano che viaggiano, si caricano di storie, di vicende sempre diverse, si imbattono in presenze in grado di affidare all'acqua il riassunto della quotidianità e del passato, le speranze del futuro. Il fiume è metafora della storia: e partendo dai fiumi anche la letteratura tende ad affidarsi alla storia, a raccogliere le vicende degli uomini, il loro cammino lungo e difficile. Contro un'idea asfittica e minimalista di letteratura, gli autori di questo libro propongono di tornare a un racconto epico che pone nuovamente il flusso narrativo tra le sponde di un fiume, che ha un inizio, un percorso e una fine. «Noi pensiamo – scrive Raffaele Nigro – che la letteratura dei fiumi e delle sorgenti, la scrittura legata agli Appennini e alla fuga non può più fermarsi a osservare i soli frammenti della vita. Non è un frammento a sé stante il cammino dell'umanità». Riprendere dunque quel percorso narrativo che in Italia nasce con l'Eneide e, attraverso i poeti epici rinascimentali, Manzoni e i grandi neorealisti, arriva fino a Tomasi di Lampedusa e a Eco, richiamandosi a Vico e a chi nella storia vede il cammino inalienabile dell'uomo. Una fonte e un fiume infiniti. La ragione per cui l'uomo è un uomo.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855221528
Argomento
Storia

Il fiume e la storia

di Raffaele Nigro

Che pace nel silenzio dell’Appennino. Mentre affronto i castagneti del Vulture, sento appena frusciare il levantino nel sottobosco, muove i pampini e il trifoglio, frullano intanto i passeri e l’allodola e cucula la tortora tra le siepi i rovi e il biancospino. Man mano che scendo verso Monticchio mi vengono incontro le distese di faggi e di querce, sui laghi volano in larghi cerchi i falchi e spero sempre di cogliere con la sera calante il passo felpato della volpe. In questi intrichi va grufolando il cinghiale, fugge il lupo solitario nel condominio di felci equiseti e fungaie. L’umidità ci avvolge con la cortina di silenzio e insieme, nel bruno della vegetazione, la mente si dispone alla meditazione, al ricordo, alla fantasia.
All’improvviso sento frusciare un salto d’acqua. Da una grotta naturale avvolta tra equiseti e felci, in un posto dove talvolta vengo a cercare funghi cardoncelli, gallinacci, porcini e ovuli buoni, si aprono le sorgenti di acqua dolce. Da ragazzi, nelle gite di gruppo, ci accostavamo con le mani a conchiglia per sentirci ghiacciare la pelle e provare a bere. Accompagnavo un panino con formaggio e mortadella e mi rinfrescavo la bocca e la fronte nell’acqua sorgiva, mi bagnavo le guance e ritrovavo la frescura che la fatica della salita mi aveva rubato. I miei corsi d’acqua non avevano un nome, ma le sorgenti sì. Ricordo Fontana Petrana, la Gaudianello, Pietra Spaccata, la Toka, la Maddalena. Se l’acqua affiorava, bisognava affondare il cicino sotto la pelle della sorgente, evitare che le notonette penetrassero nel boccaglio e far gorgogliare l’acqua. Se invece la sorgente era stata imbavagliata in un muretto c’era un cannello di metallo da cui l’acqua scorreva e allora bastava avvicinare il boccaglio del recipiente. Oppure se cadeva uno scroscio potente bisognava avvicinare un secchiello ad un angolo e non farsi risucchiare dal getto. L’acqua sorgiva aveva sempre qualcosa di misterioso e di chiacchierino.
Quella sorgente continuava verso Monteverde, si era incanalata in fiumi sotterranei e aveva eroso le pareti di minerali, si era caricata di sali ed era diventata frizzante. Scorreva insieme agli emissari dei laghi fino all’Ofanto.
Ora io penso che sia comune all’Ofanto la storia del Po, dell’Adige, del Tevere, del Sele, del Crati. Fiumi che nascono dal mistero delle montagne, dalle viscere della terra, una linfa che dà vita alla terra stessa e alle sue creature, fa pulsare il cuore del mondo. Ogni regione d’Italia ha le sue fonti, i suoi torrenti, i suoi fiumi. Che vanno dai picchi e dalle cime e scendono a valle, solcano le grandi pianure, vanno a visitare dopo una lunga fatica i mari. Non c’è paese che non debba la sua esistenza a un fiume e a una sorgente. Se non ha una presa diretta è comunque legato attraverso una rete di tubazioni a una sorgente, a un impianto di purificazione. L’acqua è la linfa vitale dei paesi, della nostra esistenza, che disseti uomini o bestie o che irrighi le campagne e gli orti. E i fiumi, man mano che viaggiano si caricano di storie, di vicende sempre diverse, si imbattono in presenze in grado di affidare all’acqua il riassunto della propria quotidianità, del proprio passato, le speranze del futuro. Il fiume è la storia. È metafora della storia. Sempre in viaggio dai luoghi dove nasce a dove approda, nel delta e negli estuari del mare. Mentre cammina incanta la flora, la costringe a colorarsi di fiori, a rinfrescarsi di erba e di nuovi virgulti.
Chissà quanti cavalli si sono abbeverati a quell’acqua. Chissà quanti nostri progenitori si sono bagnati, o sono rimasti incantati a guardare le sponde, incerti se attraversarle, se fermarsi a pescare, se seguirle passo passo. Cesare si fermò davanti al Rubicone, finché spingendo il cavallo ad attraversarlo non disse a se stesso che il dado era tratto. Attraversava un fiume d’acqua per mutare il volto del più grande fiume della storia. E un poeta romantico di Senise, Nicola Sole, diceva che sotto i piedi sentiva nella sabbia del mar Ionio il rumore dei cavalli al galoppo e dei soldati greci che approdavano. Figurarsi quanti echi e richiami nei salti dei fiumi e dei torrenti e quante storie erutta il cuore della montagna mentre vomita le sue acque sorgive.

Vi racconto una storia

La rete idrica alimenta come un immenso sistema arterioso questo condominio. Sono seduto a una sdraio sul mio terrazzo, ventilato da uno scirocco appiccicoso. Mi è difficile immaginare la gabbia di tubi che avvolge le stanze, fascia i mobili, si insinua segretamente sotto l’intonaco, come un groviglio di serpenti all’interno delle colonne montanti. Un labirinto di raccordi rubinetti manicotti e guarnizioni mi stringe in una prigione di gorgoglii strozzati tra autoclavi e serbatoi e permette il quotidiano miracolo dell’acqua corrente. Percussit petram et fluxerunt aquae. Ho letto questa frase in un libro di scuola media che raccontava la storia di Mosè, il quale percosse la pietra e per miracolo fece scaturire l’acqua. Mosè torna ogni mattina, invisibile, apre il rubinetto o la chiave d’arresto, e mi ricorda che vivo su una sorgente solo apparentemente inesauribile.
Ma quanta paura mi prese quando mio padre provò a far trivellare il suolo del bosco Incoronata a metà del Vulture. Non so a che profondità la trivella trovò l’acqua e ne seguì uno zampillo spaventoso. I tecnici che eseguivano i lavori dissero che sotto i nostri piedi c’era un lago, un lago immenso e sotterraneo che arrivava fino al paese. Il paese e la montagna galleggiavano sul lago.
Per molto tempo ho pensato che vivessi su una immensa palafitta, che fossero un pericolo continuo le auto in movimento, i palazzi edificati e quelli in costruzione, le immigrazioni di forestieri, i grandi assembramenti di gente nelle piazze, nel campo sportivo. Perché mettevamo a repentaglio l’equilibrio precario di quell’isola poggiata su un lago infinito di acque minerali. Speravo che i grandi stabilimenti di imbottigliamento riuscissero a smaltire i giacimenti e a prosciugare i laghi sotterranei, facendo magari scivolare il paese sulla roccia. Ma l’acqua non finiva mai.
Sprofondato nella sdraio, nell’arsura feroce dell’estate ripenso al mio rapporto con l’acqua. Un elemento sul quale ho fondato il corso della mia narrativa. E ripercorro le stagioni di scrittura e di esistenza, partendo ovviamente dalla mia giovinezza.
I laghi di Monticchio erano due tavole chiuse tra le canne, gli olmi, i faggi, coperte di ninfee, di gazze e merli ma ferme, come la nostra esistenza. La vita dei laghi era proprio l’immagine del mio paese, immobile, incapace di rivolte e di mutamenti. Erosi dall’acqua i fanghi artigliati dalle radici costringevano le piante a piegarsi sulla pelle del lago, così che parevano mammut che si erano portati al cimitero dei giganti e aspettavano di salutare la vita e il mondo. Mi inducevano a pensare al mio mondo e al mondo decadente della Mitteleuropa asburgica. Tutto faceva il verso a un romanzo di Roth, La cripta dei Cappuccini, che trasformavo per gioco, riferendomi all’ordine che aveva abitato le balze del Vulture in età medievale in La Cripta dei Benedettini. Ma eravamo giovani, assettati di vita e di azione e volevamo fuggire. Ci gettavamo sui canotti e percorrevamo un lungo arco d’acqua, tra isolotti di ninfee. Mi provavo ogni tanto a tirare qualcuno dei fiori bianchi e carnosi che galleggiavano sulla pelle del lago, ma gli steli erano robusti come corde e non cedevano. C’erano qua e là sul lago delle postazioni di legno per la pesca, sporgevano come palafitte. Una sorta di paradiso immobile e fuori della storia.
Un giorno pescai una trota ma la lenza si arcuava e quando affiorò portava attaccata all’amo una biscia più lunga della canna. Mi parve che tutto ciò che si celava in quell’acqua così poco trasparente per la profondità e la fangosità dei fondali avesse una forma sempre troppo allungata, come se la natura facesse sforzi sovrumani per arrampicarsi alla luce. Gli stessi sforzi che facevamo noi tra le pile dei libri e dei compiti per fuggire dal paese verso l’università e dunque verso la vita sorprendente delle metropoli o di un qualunque altrove che fosse animato da frenesia.
A Monticchio Bagni era sorto un borgo ai primi del Novecento, quando una famiglia di ingegneri scesa dalle Marche col compito di realizzare la ferrovia aveva acquistato quei boschi. Aveva tirato giù dei coloni e costruito case e stalle. In una di quelle case fui ospite nell’estate del 1978 e ciò che mi stupì fu notare che dai rubinetti sgorgava acqua frizzante. Se i laghi sonnecchiavano, l’acqua che correva ad arricchirli era viva ribollente. Mentre sui mercati di mezzo mondo la gente acquistava acqua minerale, lì ce l’avevano gratis, donata dalla terra. I coloni la usavano per cucinare e lavare, davano acqua Cutolo, Gaudianello, Traficante e Toka alle vacche e ai porci, irrigavano le vigne e tutto cresceva in allegria, il profumo dei fiori frizzava dagli steli e le mucche ruttavano e davano latte frizzante, ruttavano le galline e i conigli. Frizzava anche la pasta nella pentola, i rigatoni e le penne saltavano come pesci. Solo le massaie non erano contente, perché l’acqua ricca di sali minerali creava problemi gastrici alle rubinetterie e alle tubature e ai congegni meccanici degli elettrodomestici e costringeva continuamente ad acquistarne di nuovi.
Esisteva dunque un’acqua che non stagnava come nei laghi, un’acqua che fuggendo erodeva. Bisognava lasciare i laghi e andare ai fiumi, seguirne i corsi, capire dove fossero diretti.
Il più vicino era l’Ofanto. Ci andavo raramente, anzi non ci andavo mai. C’era una valletta nella quale il fiume formava un piccolo lago e i ragazzi lì imparavano a nuotare e facevano il bagno. L’acqua era melmosa, invasa dalle radici dei salici, delle tuie e dei pioppi. Più di una volta qualcuno non era uscito vivo da quella frescura magmatica e insidiosa.
Mi tornavano spesso i versi di Orazio, si meravigliava durante il suo viaggio da Roma a Brindisi che la ferocia del sole costringesse i viaggiatori ad acquistare l’acqua, proprio come avviene nei tempi nostri, che i venditori di bibite attraversano talvolta i corridoi dei treni oppure occhieggiano i frigoriferi nei bar delle stazioni di servizio o nei chiostri disseminati sui marciapiedi. Ma la sua meraviglia stava nel fatto che nella Apulia siticulosa la gente acquistasse acqua per l’uso quotidiano. E intuiva la grande comodità degli acquedotti romani siti nei posti più lontani dell’impero.
Invece andavo spesse volte alla Melfia, un torrente che lambiva le falde del Vulture. Era lì che si svolgeva a primavera la Festa degli alberi. Sgorgava da una grotta, un’acqua cristallina che fluiva tra i ciottoli e si incanalava in un ruscello perso tra l’erba. Sgorgava acqua dappertutto e mi pareva che la montagna fosse tutta pertugi. Si arrivava di mattina con i traini, le donne si inginocchiavano ognuna su una chianca levigata dall’uso, mentre a noi maschi toccava trasportare i sacchi di lana sui prati, fino al pomeriggio, quando bisognava raccoglierla asciutta e pronta da consegnare ai materassi e ai cuscini delle mie cugine che andavano spose.
Ma dove fuggiva la Melfia?
La seguii finché mi fu possibile, scorreva intorno al mio paese, intorno al grande castello normanno e proseguiva a salti tra l’agrifoglio e le felci fino alla cattedrale di Rapolla, fino a incontrare l’Olivento, nella diga del Rendina. Pensai che quel cammino selvatico era simile al corso della mia vita, simile alla storia degli uomini e delle generazioni. Che incontrano ostacoli i quali cambiano il corso degli eventi. Pensai di scrivere la storia della mia famiglia, quella dei Lucani e dei contadini ribelli come fosse il corso di un fiume. Non scelsi la Melfia, scelsi il Basento. Il Basento mi parve attraversasse l’intera Lucania, come il sistema venoso dell’antico regno di Napoli. Il sistema venoso di un popolo che dall’origine contadina si era affrancato attraverso le lotte ed era riuscito ad entrare nella modernità. La storia era quel fiume, alle cui acque, quando non erano inquinate, si erano abbeverati Enotri, Lucani, Morgeti e sulle cui sponde si erano verificati avvenimenti epocali. La storia che era azione, movimento, era fuga degli anni, uno dietro l’altro con improvvisi inceppi in giorni particolari, in date fatali.
Guardavo l’acqua che gorgogliava tra i ciottoli, le notonette che praticavano una sorta di elegante sci acquatico lungo i solchi segnati dai girini e rivedevo i cavalli dei Romani scesi ad abbeverare alle sponde degli sconfitti Lucani, quelli dei Normanni, degli Svevi, venuti a conquistare la terra dei Longobardi e dei Saraceni e poi gli animali dei briganti che raramente lasciavano i rifugi delle montagne. Il bandito Taccone era entrato in Potenza e aveva rapito la bella quindicenne Maria Sole, almeno così diceva il racconto di Alessandro Dumas, l’aveva trascinata a dorso di cavallo fino al suo rifugio. Taccone aveva strappato un lungo lenzuolo e vi aveva fatto ricamare quattro fasce azzurre, come i corsi anguillosi dei fiumi lucani. Aveva urlato che nel nome di quei fiumi si fondava la repubblica della Lucania, guidata da lui, un capobrigante dell’Appennino.
Come mi esaltavo costeggiando il Basento, tra le anse in secca del Bradano e dell’Ofanto, come mi esaltavo inseguendo la portata più ricca dell’Agri e del Sinni. Mentre li osservavo come solchi tracciati dalla mano di un dio sul corpo della terra argillosa per raccontare la fuga infinita degli eventi.
Dai miei paesi collinari quei fiumi fuggivano verso il mare e al mare portavano le nostre vicende, i guai e le felicità consumati nei boschi, come le cronache segrete delle famiglie e dei popoli. Storie che emergevano verso la foce dei fiumi, venivano alla luce e tutti potevano impossessarsene.
Tant’è che risalendo i corsi ritrovavo gli assalti della delinquenza organizzata ai tesori di quella Lucania Felix contigua alla Campania Felix. E mi interrogavo se fosse amore più grande denunciare i guai o nasconderli. Dal momento che la terra non era stata attraversata che da pochi viaggiatori stranieri e pochissimi erano stati coloro che l’avevano descritta e narrata.
Seguendo il corso dei fiumi scesi in Puglia e nella Lucania ionica e lì mi colpì il fatto che i fiumi si dilatassero in un grande invaso blu che circondava tutte le terre. Si trattava di una distesa infinita, priva di confini o perlomeno i cui orizzonti si perdevano nel cielo. Era il mare. Non una tavola muta, ma un inferno d’acqua che ruggiva, un’acqua che per il suo colore blu mi appariva di lontano nervosa e minerale.
Mi appariva molto più minaccioso del lago sotterraneo sul quale era stata edificata la mia città. Qui tutti potranno dissetarsi, pensai. E invece si trattava di un’acqua tanto salata che per controsenso alla sua vastità condannava gli uomini a morire di sete. Anzi, la salsedine marina accentuava la sete dei campi e degli umani.
Allora ripensavo alle mie montagne, dove l’acqua sommergeva la terra come il diluvio ai tempi di Noè. E pensavo alle fontane del mio paese, dove l’acqua dolce si perdeva giorno e notte, come il fiume di parole dalla bocca di un demone afflitto da logorrea.
In Puglia i contadini chiedevano acqua a un dio malefico e siccitoso e si rivolgevano alle Madonne per il miracolo dell’acqua. Al mio paese si portava in processione un Crocifisso. A Deliceto, nel Subappennino dauno, si portava in processione la Madonna dell’Olmetello. A Bevagna, sullo Ionio, avevo assistito a una processione con alberi e rami allestita per una richiesta a san Pietro sulla sorgente del Chidro. Nelle campagne, le norie giravano come immense girandole per alimentare le cisterne. Gli asini e i muli spingevano un’asse che pescava acqua nella pancia della terra. Per la penuria di acqua era nata la Fossa Premurgiana, legata all’Acquedotto pugliese e all’Ente di riforma fondiaria. Dai fiumi lucani e campani partivano chilometri di tubi in cemento che chiudevano in un reticolo gran parte del Tavoliere e della Basilicata.
Intanto stava accadendo qualcosa di strano e di epocale. Al mio paese salivano dalla pianura dei venditori di colore, giravano per i vicoli lanciando un grido di richiamo. Li soprannominavamo da quel grido i «vu cumprà».
Man mano che scendevo verso la pianura e incontravo il mare, quei venditori non si perdevano più tra le stradine dei centri storici ma si fermavano sulle spiagge e sui marciapiedi dei grandi viali, stendevano a terra un telo e mostravano la mercanzia. Venivano perlopiù dai paesi della Campania, portavano oggetti acquistati su quel mercato o cineserie facili da trasportare e da vendere. Alla fine degli anni sessanta erano maghrebini e senegalesi, poi arrivarono etiopi ed eritrei e poi ancora mauriziani, cingalesi e filippini. I numeri si moltiplicarono in maniera spaventosa dopo la caduta del Muro di Berlino. Perché vennero i polacchi che lavavano vetri e fiumi di badanti rumene ucraine e georgiane. Era come se fosse caduto il muro d’acqua dell’Adriatico nel tempo in cui si sentì esplodere il finimondo nei paesi dell’ex Jugolavia e nel Sud dei Balcani. Per almeno quindici anni l’Adriatico fu invaso da albanesi, montenegrini, serbi, turchi e curdi. Il mare si rivelò veramente il luogo dove la storia camminava a passi da gigante e le onde mi parvero mandrie di cavalli impazziti. Di notte le coste adriatiche diventavano un mercato spaventoso di ragazze della vicina sponda che venivano a vendersi e a partire dal ’90 il flusso di fuggiaschi fu inarrestabile. Quando l’Europa fece esplodere la guerra in Libia e una finta ansia di modernità promosse la fantasiosa primavera araba e poi le guerre che sappiamo in Medio Oriente, il Mediterraneo si trasformò in quello che la storia ha mostrato per secoli di essere, un immenso campo di sterminio. Ancora si continua a morire affogati nel Mediterraneo, inseguendo sogni di civiltà, di benessere e di modernità che l’Africa non sa costruire.
Tutto questo io avevo descritto in alcuni romanzi degli anni ottanta, I fuochi del Basento e La baronessa dell’Olivento, e poi in quelli degli anni novanta, Ombre sull’Ofanto, Adriatico, Malvarosa, Viaggio a Salamanca, Desdemona e Cola Cola, Diario mediterraneo. Raccontavano una realtà molto tragica, il fondo dei mari si andava trasformando in un cimitero dal quale affiorava, vivificata ma incurante del destino degli individui e scritta col sangue delle comunità, sempre la storia, il passaggio crudele dei tempi, attraverso una forma di migrazione che aveva qualcosa di epocale, come l’approdo di quelle tribù medievali che una sull’altra si erano addossate e divorate l’un l’altra per promuovere i mutamenti spaventosi e le addizioni o le sostituzioni di civiltà a civiltà, di culture a culture.
L’acqua salata era più che mai l’autostrada della storia, si sostituiva o prolungava il nastro ancora più salato della sabbia e dei deserti. Raccoglieva i residui e i detriti della civiltà che i fiumi trascinavano per miglia e miglia. I rifiuti umani dall’Africa, quelli industriali dall’Europa e dall’Italia.
Mentre osservo lo zampillo degli innaffiatori nel giardino sottostante di casa e mi affiora la voglia di una granita di limone, mi tornano alla mente gli a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. L’acqua porta le storie. E le unisce Presentazione di Piero Lacorazza e Gianni Lacorazza
  6. Uomo libero, amerai sempre il mare! di Laura Bosio
  7. Dizionario delle acque del Po di Guido Conti
  8. La cìtila di Donatella Di Pietrantonio
  9. Sii acqua, amica mia di Carlo Grande
  10. Ogni fiume ha la sua storia di Giuseppe Lupo
  11. Il fiume e la storia di Raffaele Nigro
  12. In un’urna d’acqua di Laura Pariani
  13. Gli autori