La teoria economica non è una scienza esatta, non ha valenza universale, e il solo ricorso alla matematica – pur importante – non la rende una disciplina propriamente scientifica: sarà la tesi sviluppata in questi capitoli.
L’economia, quindi, si avvale della matematica non tanto per imitazione delle scienze esatte, quanto perché la maggior parte delle questioni che essa affronta e tratta si basa su statistiche di vario tipo, pur rappresentando esse solo il mezzo o uno strumento utile per conseguire un fine diverso: il rispetto della fede pubblica nell’interesse dei cittadini-consumatori.
Questo assunto è un’importante chiave di lettura degli avvenimenti descritti e, in particolare, delle proposte esposte nei capitoli successivi del libro, che – in quanto tali – possono essere perfettibili, integrate, se non addirittura confutate, da altri analisti. L’economia, appunto, non è una scienza esatta: la bontà di una ricetta economica, condivisa o meno dai policy makers e dagli economisti, dipenderà anche dalle circostanze che agiscono come variabili nei circuiti economici internazionali e dei singoli Paesi. L’importante è che essa sia il frutto di un’articolata e approfondita analisi dei fenomeni da aggredire e/o controllare.
Il problema principale che la teoria e la politica economica attuali devono affrontare si annida in un’economia che, nel XXI secolo, è molto più complessa e globalizzata, con molti più players rispetto a quelle del XIX e XX secolo. Le teorie economiche pensate e sviluppatesi in questi ultimi due secoli (teoria classica e neoclassica/marginalista nel primo; teoria keynesiana e monetarista, con i suoi sviluppi, nel secondo) erano frutto del loro tempo, singolarmente inapplicabili o comunque fonte di risposte inadeguate a un mondo contemporaneo completamente diverso, molto più articolato e complesso. La contemporaneità, a fronte di problemi complessi, richiede risposte complesse, che possono essere individuate traendo spunto da teorie economiche di matrice diversa, fondate spesso su principi evidentemente contrapposti.
La naturale conseguenza di un simile ragionamento è la proposta di un approccio che ha una visione “storicistica” delle teorie economiche, più pragmatica e meno dogmatica, con il vantaggio di consegnare da parte degli economisti ai policy makers non delle teorie inattaccabili, ma semplicemente delle idee che possono avere matrice teorica diversa, scientificamente solide e supportate da basi statistiche, capaci di rappresentare una ricca e fornita “cassetta dei ferri del mestiere” che il decisore politico, affiancato dall’economista, dovrà riuscire a utilizzare saggiamente, a parità di condizioni, in un momento storico di volta in volta differente.
L’argomento è complesso e molto discusso: si tratta di definire il ruolo e la funzione della teoria economica. Le domande che spesso l’economista si pone potrebbero essere formulate così: che cos’è una dimostrazione nella scienza economica? quali strumenti analitici ed epistemologici sono utilizzabili per corroborare un argomento economico?
Il mainstream che domina l’Accademia e il policy-making limita la dimostrabilità di una certa asserzione entro i confini del modellismo econometrico (in particolare ai modelli DSGE; vd. nota 2). È dimostrabile la teoria che si presta ad essere ridotta a un modello fondato su metodi matematici e statistici, da testare con tutte le conseguenze tecniche del caso (Granger-casualità, serie storiche, ecc). Qualsiasi altro argomento, sia esso storico, istituzionale o sociologico, compare sui radar della scienza economica se e nella misura in cui rientra in una qualche equazione econometrica. Si può citare, ad esempio, la ricerca sull’indipendenza economica e politica delle banche centrali, condotta sulla base di analisi istituzionali delle norme che ne regolano i legami con i governi, da cui sono state tratte indicazioni di policy che sono servite, ad esempio, a plasmare la Bce.
A nostro avviso, la scelta di questo strumento di corroborazione della ricerca scientifica non è neutrale e produce conseguenze o, se vogliamo, distorsioni nel dibattito scientifico. Genera anche indirizzi molto precisi nel processo di formazione degli economisti, ai quali viene richiesto, in sintesi, di essere dei buoni cultori della statistica e dell’econometria; possono conseguire un dottorato o addirittura diventare titolari di cattedra in università prestigiose avendo conoscenze meno che elementari di storia economica, sociologia, storia del pensiero economico, etc. La matematica è uno strumento importante e costringe la mente al rigore logico; tuttavia la riduzione del ragionamento al modellismo matematico appare come una limitazione rispetto a un più ricco e fecondo orientamento che associa, nello sviluppo logico del pensiero, analisi deduttiva e procedimenti induttivi. Lo stesso A. Marshall ha sostenuto che l’oggetto dell’economia, in quanto complesso, non può limitarsi a un’analisi dei fatti, come riteneva la scuola storica, perché tali fatti necessitano di ragionamento astratto o deduttivo e di una lettura interpretativa capace di cogliere, attraverso modelli, le loro caratteristiche comuni. Nello stesso tempo, poiché il sistema economico è complesso e i fatti particolari sono incerti ed eterogenei, le teorie elaborate sulla base dell’analisi deduttiva di tali fatti trovano scarso riscontro nella realtà: è dunque necessario il trained common sense, che consente di contestualizzare i fatti e di inglobarli nell’analisi della complessità.
Questa è solo un’indicazione per dare il senso della complessità epistemologica della questione relativa al contributo della teoria e al suo collegamento con la prassi economica. A tal proposito, J.M. Keynes ha osservato che un economista dovrebbe essere “matematico, storico, statista e in qualche misura filosofo”.
Keynes ha dato dell’economia un’altra straordinaria definizione asserendo che essa che “è essenzialmente una scienza morale”. L’affermazione può sembrare filosofica, sostanzialmente astratta, ma acquista un’immediata concretezza non appena si pensa al contributo che la filosofia morale (Moore in particolare) ha fornito alla visione di Keynes sul funzionamento dei mercati finanziari: essi operano in base a convenzioni che non sono analizzabili se non sotto il profilo storico, sociologico, psicologico, attraverso lo studio dell’organizzazione e della cultura aziendale. Non a caso, la teoria ortodossa della finanza è stata quella più criticata dopo la crisi del 2008. Abbiamo imparato la lezione: un buon economista deve occuparsi della società nella sua totalità, e l’economia deve tenere nella giusta considerazione la cultura, la storia, la geografia, le istituzioni, la psicologia individuale e di gruppo.
In questa visione articolata, la teoria è uno strumento di analisi che raccoglie informazioni e osservazioni per definire principi interpretativi, affrontare specifiche problematiche economiche e impostare interventi vantaggiosi. Ha ancora ragione Marshall (soggetto ben diverso da ciò che normalmente s’intende per economista “neoclassico”) quando ragiona sull’importanza dell’integrazione fra metodo induttivo e metodo deduttivo e quando afferma che l’economia si differenzia dalle scienze della natura perché il suo oggetto è – e resterà – incerto e disomogeneo, esposto a numerose variabili difficili da conoscere e definire, più simili alle leggi della biologia che non a quelle della fisica (Marshall 1961).
Le leggi biologiche agiscono e interferiscono sul mondo, lo sottopongono a un continuo cambiamento rendendolo complesso. Questo principio ha portato Marshall a chiarire il suo rapporto con i classici, descritto come una relazione di continuità fondata su una certa idea di economia considerata scienza, ma non su un’identica visione nel definire l’oggetto dell’economia. Se l’oggetto e i principi della scienza economica differiscono da quelli delle scienze naturali, occorre guardare con scetticismo, o almeno con cautela, alle metafore matematizzanti utilizzabili negli strumenti di analisi, perché forniscono una falsa rassicurazione sulla robustezza di conclusioni quantificabili. La presenza di “numeri” nel mondo economico non rende l’economia automaticamente assimilabile alla fisica, perché dietro ai numeri ci sono pensieri, convenzioni, strategie, e non atomi o pianeti.
Queste considerazioni sulla concezione dell’analisi economica e dell’insegnamento della teoria economica si inseriscono nel vivace dibattito che sta animando il mondo scientifico e istituzionale: un “pluralismo” di vedute e soluzioni destinato ad ampliare il ventaglio di conoscenze su cui i futuri economisti e policy makers potranno e dovranno contare.
2.L’ECONOMIA REALE E FINANZIARIA NON SONO SOLO RAZIONALI
Se Erasmo da Rotterdam avesse scritto oggi il suo Elogio della Follia 1, probabilmente avrebbe commentato in maniera sarcastica e pungente anche la figura dell’economista alla stessa stregua dei filosofi, dei saggi del suo tempo, evidenziando tutti i limiti di un impianto teoretico volto a riconoscere nell’economia i tratti di una scienza esatta.
Certo, non avrebbe potuto farlo nell’epoca in cui è vissuto perché la professione dell’economista nasce ufficialmente con la rivoluzione industriale e con gli economisti classici, da Adam Smith a David Ricardo a Thomas Robert Malthus e Carl Marx. Ma è dopo la Grande depressione del ’29 che la nuova figura professionale si afferma, agli occhi del grande pubblico e soprattutto dei policy makers, con le teorie e l’azione di J.M. Keynes. Da allora l’economista è stato sempre più ascoltato dai governanti e ha raggiunto una posizione ragguardevole nel tessuto sociale della realtà moderna.
A questo punto, delineatasi la figura di professionisti in grado di rispondere alle nostre domande, torniamo a formularle: quanto è esatta la scienza economica? quanto sono corrette le previsioni economiche costruite sulla base dei principi economici? e perché molti economisti non si sono accorti del fatto che l’ultima grande crisi (quella del 2007-2008) fosse ormai alle porte?
La teoria economica dominante (mainstream) è spesso basata su ipotesi sostenute in modo così forte da diventare assunzioni: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile, l’efficienza del mercato, etc., sono concetti ritenuti talmente importanti da sostituirsi a qualunque osservazione empirica. Secondo alcuni, questi sono semplicemente dei dogmi ai quali è stato conferito un aspetto scientifico: in quest’apparente scientificità è da riconoscere l’aspetto più deleterio della veste tecnico-matematica dell’economia che, purtroppo, ha talvolta condizionato e promosso scelte di policy con effetti drammaticamente reali 2.
Occorre quindi ripensare al ruolo delle teorie economiche e a come esse possano suggerire ai policy makers le decisioni più vantaggiose. Ciò significa mettere in discussione l’ipotesi che, da quarant’anni, guida la maggior parte degli studi accademici per iniziare a ragionare secondo un principio ormai noto: l’economia non è una scienza esatta. Un approccio di tipo razionale ai mercati finanziari si è, di fatto, rivelato un’illusione fondata su un’ipotesi accomodante e opportunistica, ma errata, come sostenuto già negli anni trenta da Keynes e più recentemente dai fautori dell’“economia comportamentale” 3.
Quanti sostengono o presuppongono che la teoria economica possa essere considerata una scienza esatta radicano le loro convinzioni nella “teoria neoclassica”, corrente di pensiero dominante secondo la quale – in estrema sintesi – il mercato è un sistema razionale e infallibile, capace di regolarsi da sé, senza l’intervento dello Stato, raggiungendo sempre una posizione di equilibrio perfetto, idea che già la nuova economia pubblica di Pigou (1920) aveva contestato. Nelle Facoltà di Economia di tutto il mondo la teoria neoclassica è spesso l’unica insegnata, mentre alle altre correnti di pensiero è riservato uno spazio marginale. Basti qui osservare che, nonostante si avvalga di calcoli matematici atti a produrre risultati certi e oggettivi, la teoria “principe” non è stata in grado di anticipare, e neppure attenuare, una delle più pesanti crisi economiche degli ultimi due secoli.
Se si concorda con quanto affermato in precedenza e in maniera molto “laica”, è evidente che la riflessione generale dalla quale occorrerebbe ripartire è questa: gli uomini fanno scelte individuali, non sempre razionali, guidati da una dimensione emozionale che diventa parte integrante anche delle scelte di carattere economico-finanziario, influenzandole notevolmente. Ma se l’economia reale non è solo razionale, allo stesso modo non lo è l’economia finanziaria, che dovrebbe dipendere dall’economia reale e che recentemente sembra essere diventata un sistema parassitario. L’ipotesi della razionalità dei mercati e della loro efficienza si basa sul fatto che “a parità di informazioni gli operatori decidono nello stesso modo”; di qui, la possibilità di analizzarne l’andamento con strumenti esclusivamente desunti dalle scienze esatte. Ma l’ipotesi è infondata perché l’efficienza dei mercati dipende dal livello di simmetria informativa tra gli operatori, e questo livello è tanto più alto quanto più ci si avvicina a un modello ideale e astratto di concorrenza perfetta, tanto più basso quando si opera in situazione di oligopolio, o addirittura di quasi-monopolio, come quella che attualmente prevale in molti mercati.
È l’ipotesi irrealistica da cui si parte che non viene messa in discussione, come invece richiederebbe la presenza di “asimmetrie informative” 4. Inoltre, la simmetria informativa prevista dall’ipotesi è incompatibile con un modello culturale finalizzato alla massimizzazione del risultato personale anche quando ciò potrebbe andare a scapito di altri soggetti economici, ovvero nonostante l’eventuale e conseguente vantaggio collettivo (come già dimostrato da A. Smith); in questo modo chi detiene il potere di controllo dei mercati non può accettare di ridurre la sua posizione di dominio perché ciò sarebbe contrario al fine del sistema: la massimizzazione del profitto. L’eccessiva concentrazione di ricchezza ne è una naturale conseguenza e l’accentuato degrado sociale l’evidenza più drammatica.
A fronte di queste considerazioni generali, il problema centrale che in questa sede si vuole portare alla luce è che, come accade per le scienze naturali, anche le scienze sociali hanno lo scopo di approfondire la conoscenza dei fenomeni osservati; tuttavia – a differenza delle scienze naturali – l’osservazione non avviene più solo tra cose, ma anche tra individui e tra gli individui e le cose, per cui il compito dello scienziato sociale, e quindi dell’economista, non può essere quello di stabilire verità oggettive. Ne consegue che la teoria economica, partendo da una parziale osservazione soggettiva dei fenomeni e dalla precisa collocazione di un determinato fenomeno nel tempo, non dovrebbe incorrere nell’errore di i...