Studiare la pandemia
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Disuguaglianze e resilienza ai tempi del Covid-19

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Disuguaglianze e resilienza ai tempi del Covid-19

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Si può pensare l'emergenza che stiamo vivendo? Si può, quando sembra che pensare sia non solo impossibile, ma addirittura superfluo? In questo libro il tentativo è stato fatto, sulla base della convinzione che di fronte all'emergenza – che è complessa e complicata, e per questo difficile da pensare – serve uno sforzo collettivo di intelligenza e immaginazione.Ecco perché allora questo libro raccoglie i pensieri, le ipotesi, i modelli e le speranze di un ampio gruppo di ricercatori, un intero Dipartimento universitario: politica, società, diritto, comunicazione, filosofia, media, informatica, economia sono le angolature disciplinari da cui gli autori hanno provato a pensare l'impensabile che improvvisamente (anche se preannunciato da tanti segnali inascoltati) ha stravolto le nostre vite e le nostre emozioni. Una pluralità di voci, dunque. In un consapevole processo di incessante costruzione e decostruzione dei dati, in un costante andirivieni tra teorie e ricerca, tra approcci e realtà empirica. Perché il pensiero è comune, sempre, o non è pensiero. Il Dipartimento è quello di Scienze politiche e sociali dell'Università della Calabria, di un luogo che mai come ora diventa un sensore dello stato complessivo dell'Italia e delle sue prospettive future. Perché la Calabria potrà reggere all'urto dell'epidemia solo se resisterà il resto dell'Italia. E viceversa. Con questo libro gli autori intendono ricordare, a se stessi prima che a chiunque altro, che lavorare in un'università è un onore ma anche un impegno preso con la società. I flussi di depositi di conoscenza scientifica prodotti nelle università e nei centri di ricercasono oggi più che mai determinanti per disegnare mondi diversi, più coesi, meno disuguali, con più estese libertà sostanziali per tutti, a partire dai soggetti che vivono nei luoghi svantaggiati e marginalizzati.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855221573
Categoria
Sociologie

Parte settima

Futuri possibili

I. Finisterre. Tramonto o apoteosi dell’Occidente?

di Carmelo Buscema
Finisterre è il promontorio affacciato sulla porzione di Atlantico che bagna la provincia spagnola de La Coruña, in cui, in un lontano passato, ci si figurava la fine occidentale del mondo. Piccolo cul-de-sac terminale del più grande cul-de-sac continentale per i movimenti migratori ancestrali provenienti dai vastissimi territori dell’Asia e dell’Africa, l’Europa trova a Finisterre il lembo di suolo più occidentale d’Occidente. In quel punto geografico di portata simbolica eccezionale, in effetti, assumono consapevolezza e tutto il proprio senso il gesto e il sentimento divenuti «destino» inscritto nel nome della civiltà che ha trovato primaria espressione in seno al nostro continente. Con alle spalle tutta la terraferma percorsa alla ricerca del posto in cui il sole declinante si posa e muore (ob- innanzi, cidere cadere), da quel ciglio estremo di osservazione si sperimenta la cognizione dell’esistenza di un altrove irraggiungibile, e si tocca con le dita dell’anima il senso della frustrazione per gli ostacoli che al desiderio la natura frappone. L’Europa, e poi tutto l’Occidente sorto quasi come sua diretta emanazione, non avrebbero più smesso questa combinazione di aspirazione che motiva la ricerca ogni volta di un nuovo alibi, e di insoddisfazione per i limiti in cui il suo cammino si infrange. Anzi, l’Europa e l’Occidente avrebbero fatto di queste due facce della stessa tensione – giacché entrambe significano l’impossibilità di coprire la distanza con l’oggetto desiderato, che ontologicamente è il sole tra le altre stelle (de- lontano, sidera astri) – la vera matrice della propria identità e l’effettivo motore della storia. Cos’è, d’altronde, la legge della valorizzazione capitalistica fissata da Karl Marx nella sua famosa formulazione – D-M-D’ – se non la sigla rappresentativa del vettore fondamentale dell’ultimo mezzo millennio, e la perfetta enunciazione del meccanismo di spinta del desiderio, che reagisce continuamente alla delusione nascente dal suo disincontro con l’oggetto mondano, rilanciando sempre ancora oltre il desiderio stesso verso il rigenerante ignoto e l’apparente vuoto.
Il coronavirus – microbo in vero comparativamente assai banale – è uno dei tanti segni che annunciano l’arrivo presso una Finisterre di portata questa volta globale. Perché la nuova fine del mondo occidentale si consuma già oggi con risvolti dalle modalità e dagli esiti certamente ancora insoluti, ma che si prefigurano chiaramente come straordinari ed esasperati. A quella congettura circa uno stato terminale del capitalismo di matrice europea e nordamericana, d’altronde, tutti i momenti della pandemia in atto sembrano aggiungere la definitiva prova: la sua scaturigine è l’esaurimento dei margini di movimento per gli spazi del mondo in cui era ancora possibile avanzare senza provocare, e dovere subire, le tremende risposte selvagge del mondo stesso; il mezzo della diffusione pandemica è la rete dei cavi di interconnessione relazionale che normalmente ingabbiano, incanalano e succhiano via la vita dal midollo del mondo; la pandemia è sembrata almeno parzialmente arrestarsi a fronte della sospensione di alcuni dei tratti consolidati del modello di produzione e riproduzione dominante, e rinvigorirsi con la loro riabilitazione. Ma è necessario agganciare tutto un corollario di ulteriori decisive ipotesi a tale serie di impressionistiche constatazioni – che potremmo ricondurre alla più generale condizione di coincidenza ormai sistematica di capitalismo e morte, che avevamo già evidenziato nel nostro Contro il suicidio, contro il terrore (2019), e che storicamente può svolgersi nei due decorsi opposti della morte del capitalismo o del protrarsi agonico del capitalismo della morte. In particolare, quelle ipotesi legate alle azioni che verranno intraprese sulla base delle nostre nuove consapevolezze e paure, che si distribuiscono attorno a questi due poli: ripiegherà il modello occidentale su sé stesso, accettando pacificamente il destino del proprio tramonto, lasciando spazio all’affermazione del sistema industrioso e armonioso di tradizione orientale (Arrighi 2008) – integrandosi a una nuova Via della seta, in una posizione subordinata? Oppure la parte più ossessiva e cieca della cultura occidentale ci indurrà a proseguire imperterriti lungo la strada spericolata della ricerca della propria tragica apoteosi – inventandosi la scoperta e la conquista di un Nuovo mondo, di un ulteriore e ancora più selvaggio further West, attraverso cui rilanciare il proprio progetto di infinita ricerca dell’infinito? Inoltre, tra queste due estreme opzioni – che investono non solo il campo della previsione astratta, ma soprattutto quello delle scelte concrete –, che cammino intraprenderà a sua volta l’Europa, combattuta com’è, o sembra essere, tra un principio inerziale e violento che continua a legarla all’opzione nichilista transatlantica, e le opportunità derivanti dalla ricomposizione di quello spazio di dense interazioni millenarie che è l’Eurasia? Per inciso, sia notato che questa seconda circostanza tornerebbe ad affrancare la posizione di cerniera geopolitica dell’Italia e a riabilitarne le scaltrezze tattiche – che di fatto, sotto il polverone delle discussioni montate sui parossismi della gestione in salsa sino-fusion dell’epidemia, sembrano essere già concretamente all’opera nella ricomposizione di legami e intese che proprio il Rinascimento aveva simbolicamente rescisso. Tra noi e l’orizzonte stretto tra quei due poli, c’è di mezzo la storia che cammina sulle nostre gambe indirizzate da pensieri e passioni, ma dovendo sempre più fare i conti, da una parte, con le indomabili reazioni della soggettività selvaggia del mondo, e dall’altra, con la potenza feticistica delle nostre stesse invenzioni – sempre più capaci di ribaltare i rapporti di strumentalità che a esse ci legano, rimaneggiando gli ambiti d’umana autodeterminazione.
In definitiva, in campo sembra profilarsi un nuovo confronto geopolitico fondamentale tra un modello di neo-dispotismo orientale e uno di neo-dispotismo occidentale – entrambi basati sulle capacità di governo della popolazione offerte dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione di ultima generazione, ma integrate all’interno dei nuovi complessi militari-digitali e finanziario-industriali dei due blocchi. Va sottolineato come tale inedito assetto stia maturando nel più ampio quadro di radicalissime tendenze di trasformazione dello scenario antropologico planetario e del rapporto soggettivo con gli spazi, che l’emergenza della nuova dialettica tra virale e virtuale, in cui ci troviamo invischiati, illumina con particolare chiarezza e quindi ci impone di valutare.
Stiamo immersi nella fase terminale di quell’arco storico che – nei termini di Arrighi – rappresenta l’ultimo ciclo sistemico di accumulazione. Gli anni ottanta e novanta del Novecento avevano cullato l’illusione statunitense di potere rilanciare il progetto del dispiegamento incontrastato della propria egemonia economico-finanziaria e politico-culturale per tutto il globo terracqueo – anche attraverso la conquista tecnologica della «nuova» dimensione elementare aerea e poi eterea, rappresentata dall’atmosfera terrestre e da alcune quote dello spazio extra-orbitale (Schmitt 1991). Tuttavia, i primi vent’anni del nuovo millennio sono stati attraversati da una tale intensa sequenza di traumatici eventi, di portata globale e dagli effetti micidiali, che invece di sollecitare soluzioni capaci di rilanciare l’assetto e gli equilibri consolidati del sistema-mondo, ne hanno indubitabilmente incrementato il tasso strutturale di disordine. È in queste condizioni in cui domina il caos sistemico, ciclicamente ricorrenti, che il rapporto sinergico tra gli attori «territorialisti» e gli agenti «capitalisti» – che animano le movenze dell’intera struttura, incidendo sulle diverse dimensioni della conflittualità sociale, soprattutto approntando i più adeguati strumenti di esercizio delle funzioni di sapere-potere e della violenza – tende a riconfigurarsi a vantaggio dei primi. È così che le entità statuali prendono il sopravvento in termini di protagonismo sistemico, anche intraprendendo azioni strategiche, più o meno ambiziose e adeguate, tese a risolvere le criticità e a conseguire le poste in gioco rispetto a cui gli ordinari comportamenti degli agenti capitalisti annaspano e girano a vuoto. Ciò ha l’implicazione di esacerbare quelle vertenze che prima si consumavano all’interno del campo della mera competizione, e che ora invece assumono le fattezze di piccoli o grandi conflitti, passibili di degenerare in disastrose guerre generalizzate – com’è già accaduto, in ultimo, a conclusione del precedente ciclo egemonico. Ma come può darsi questo meccanismo sistemico oggi, in una situazione internazionale che sembra avere almeno parzialmente acquisito l’assunto dell’impraticabilità ormai delle forme più eclatanti del conflitto ai tempi degli armamenti atomici – strutturalmente caratterizzata, cioè, da quello che Michel Serres (2009) ha chiamato il paradosso della potenza (militare), divenuta inefficace proprio in ragione della sua acquisita immane efficacia distruttiva? Una pista di ricerca molto interessante, in tal senso, è quella orientata a rispondere a questo dilemma approfondendo lo studio dei modi in cui la guerra contro la pandemia da coronavirus rappresenti anche spunto e teatro favorevole per lo sviluppo de La guerra contro il popolo (Halper 2017). Cioè, di quel meccanismo di introversione della conflittualità internazionale verso le parti basse della struttura sociale globale, di cui le politiche dello Stato di Israele contro i palestinesi rappresentano un paradigmatico laboratorio e modello.
Durante gli ultimi mesi una quota molto consistente della popolazione mondiale ha sperimentato una condizione straordinaria di più o meno rigida e prolungata «quarantena». Al di là delle troppo grossolane semplificazioni che di questo termine sono state fatte, con esso ci riferiamo a quell’amplio ventaglio di misure – di natura, forza, tempistiche e modalità molto eterogenee – che importanti Stati, per alcuni mesi, hanno dispiegato per i più diversi campi della vita sociale. In particolare, la messa in quarantena è consistita pressoché ovunque di un’eccezionale combinazione di interventi pubblici e di conseguenti comportamenti privati, che sono andati dalla «semplice» campagna di informazione – con elargizione martellante di raccomandazioni e consigli mirati, più o meno effettivamente vincolanti –, al ricorso alla violenta repressione poliziesca e paramilitare di quei comportamenti individuali solitamente «normali», che improvvisamente sono stati «decretati» come altamente pericolosi rispetto a una concezione monotematica del bene pubblico. Ciò, spesso, senza troppi riguardi per altre dimensioni cruciali di quest’ultimo, quali il rispetto dei diritti fondamentali, la ragionevolezza stessa delle singole disposizioni, il dover di contenimento degli effetti perversi di una propagazione spropositata della fobia. Dentro questa più generale cornice, poi, c’è da registrare come una consistente fetta del ceto medio globale – particolarmente importante nella dinamica sociopolitica europea – abbia vissuto tale esperienza da una posizione «privilegiata». Quella consistente, da una parte, nel «poter/dover» rimanere rinchiusi in più o meno comode case, mantenuti dai propri regimi contrattuali al riparo dalle più stringenti ansie e pressioni di tipo economico – che hanno attanagliato, invece, ben più ampie e vulnerabili fasce della popolazione mondiale –; ma, dall’altra, nel «doversi» rendere attivamente disponibili nella precipitosa messa a frutto di tutte le possibilità di telelavoro che negli ultimi lustri si erano andate accumulando e diffondendo nella società, al fine di continuare a garantire il funzionamento di enormi porzioni di attività terziarie, pubbliche e private. Durante tale traumatico frangente, dunque, il ceto medio è stato, da una parte, reso cavia di questa grande prova strategica di laboratorio – funzionale alla riconfigurazione dei più ampi sistemi di produzione della quota immateriale del valore, e alla conseguente riconfigurazione dei complessivi rapporti di socializzazione, in coerenza con le esigenze di controllo e gestione –; e dall’altra, trasformato in cassa di maturazione e risonanza psico-emotiva delle dinamiche di governo scaturenti da questo immane investimento nel paradigma epistemologico immunitario – in vero avviato già nel corso dei decenni precedenti (Esposito 1998). Esposto, frastornato, reso vulnerabile e traumatizzato – così come ogni Shock Doctrine (Klein 2007) richiede –, la posizione di questo gruppo sociale, paradigmatica rispetto a ben più ampie quote della popolazione totale, a noi ispira il parallelismo con la condizione della protagonista del film Good bye, Lenin! Ovvero di quella donna che, prima in preda al coma, e poi alle cure iperprotettive del figlio, era divenuta incapace di realizzare gli sconvolgimenti che la grande storia stava muovendo appena fuori dalla finestra della sua stanza – come l’episodio dell’apparizione della propaganda di una famosa bibita statunitense sulla facciata di un edificio antistante, simboleggia. In effetti, questo stretto parallelismo ci porta a riflettere sull’ultima volta che abbiamo assistito alla fine di un mondo: l’implosione della galassia sovietica appunto, che può essere letta anche come il primo tempo della disfatta dell’approccio prettamente occidentale alla realtà. Oggi come allora, dunque, tramortiti dallo stato post-comatoso in cui ci troviamo, siamo tutti impegnati in un immane sforzo di discernimento rispetto a quanto ci accade intorno: che a volte è favorito, e altre, invece, è seriamente compromesso, dalla parallela pandemia di informazione in atto – o infodemia –; che a volte ci porta a credere che in fondo nulla fuori dalle nostre stanze stia cambiando, e che altre, al contrario, ci fa vedere già volteggiare sopra le nostre strade, ora più desolate, le statue degli ultimi «eroi» moderni che, come il Lenin della pellicola, sembrano offrirsi per un’ultima volta al nostro commiato. È in virtù di una felice e bizzarra ironia della storia che, effettivamente, a un certo punto della crisi pandemica, in giro per l’Occidente centinaia di statue abbiano cominciato a subire sfregi, a vacillare o a scomparire, come il nostro parallelismo cinematografico evocava. Ma non sono solo i marmi e i bronzi a incrinarsi in questo frangente della storia; a ben vedere anche gli architravi del sistema di pensiero ereditato dalla modernità è entrato in crisi. Da qui, per esempio, vediamo volteggiare nientemeno che la statua di Cartesio.
Siamo abituati a pensare alla sociologia come alla scienza delle relazioni tra gli esseri umani; all’economia come all’insieme delle pratiche e dei saperi che riguardano le loro risorse; alla filosofia come alla passione che muove il cammino del nostro pensiero sul mondo; alla politica come alle attività e dottrine attinenti alla vita pubblica delle persone; alla storia come al racconto ragionato della successione di processi ed eventi che gli uomini mettono in atto deliberatamente – certo a volte in preda a furori, inganni e catastrofi. Ciò perché siamo tuttora figli della visione antropologica, di matrice prima biblico-teologica e poi tecnico-scientifica, ch’è sorta dalle ceneri del disincanto nei confronti del mondo primitivo e classico: quello in cui l’uomo ancora disputava la propria volontà con tutta la collana di feticci, politeismi e miti che per millenni lo hanno «popolato». Siamo i discendenti piuttosto frastornati di quella concezione, cioè, che collocava gli esseri umani prima nel punto di vertice e centrale dell’universo – in quanto uniche creature fatte a immagine e somiglianza di Dio –; e poi invece in coda a una lunga catena evolutiva – ormai concepita come adattativa e casuale –, ma per innalzarli addirittura al rango di «padroni e possessori della natura» (Cartesio) – in quanto soli «soggetti» divenuti capaci, con metodo, di elaborare i saperi e gli strumenti per disporre pressoché di ogni «cosa» a proprio piacimento.
Tuttavia, il secolo in cui sempre più precariamente ci muoviamo pare essersi incaricato di smentire definitivamente questa fondamentale autorappresentazione, la quale, dopo due millenni di lenta gestazione e sviluppo, aveva toccato i suoi punti di zenit e nadir, in vero, già nel corso del Novecento. Ovvero quando, sotto l’ombra della percezione delirante di essere gli unici soggetti al mondo in un paesaggio di meri strumenti e oggetti, gli uomini (soprattutto occidentali) hanno dimostrato tutto il bene e tutto il male che sono effettivamente in grado di fare, una volta rimasti da soli in rapporto con sé stessi. E così oggi scricchiolano fragorosamente le impalcature epistemologiche e le stesse definizioni di quelle discipline, così fortemente sollecitate dall’avvento o dal ritorno sul palcoscenico del mondo di vecchie e nuove soggettività, estranee a quella umana, che reclamano con s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Le ragioni di una riflessione sulla pandemia. Un’introduzione di Domenico Cersosimo, Felice Cimatti e Francesco Raniolo
  6. Parte prima Un difficile presente
  7. Parte seconda Oltre il presente: storia e religione
  8. Parte terza Istituzioni e stato d’eccezione
  9. Parte quarta Comunicazione e informazione
  10. Parte quinta Politica, economia e società
  11. Parte sesta Affetti ed emozioni
  12. Parte settima Futuri possibili
  13. Bibliografia
  14. Gli autori