Divi, star, superstar
Che l’uomo non de’ pur dire, i’ pappo, e vivo,
come nel prato fan le pecorelle;
ma cercar farsi, dopo morte, divo.
Fazio degli Uberti, Dittamondo
I divi sono superficie, schermo dei desideri del pubblico, secondo la classica interpretazione di Edgar Morin. In America sono, dagli anni cinquanta, anche parte del paesaggio del quotidiano perché quasi tutti i miti holly-woodiani sono rapidamente approdati alla televisione cimentandosi in una serie pressoché inesauribile di spot e talk show.
Warhol scopre il cinema durante l’infanzia a Oakland, frequentando le due sale della città, di proprietà della Warner Bros, che propongono come menù principale noir di serie B e C e cartoni animati. Da allora dedica ai divi una vera e propria epica: ne incide le fattezze dagli albori della sua produzione di artista. La lista è lunga: Marilyn, Elvis, Warren Beatty, Natalie Wood, Liz, Marlon Brando, Hedy Lamarr sono quelli classici. Una delle sue prime mostre di successo, alla Bodley Gallery nel 1956, quando ancora non era un artista riconosciuto, era incentrata su una sequenza di scarpe che recavano i nomi di celebrità del cinema, inclusa Julie Andrews, che si presentò al vernissage insieme a suo marito, lo scenografo Tony Walton. Negli anni saranno sempre di più i personaggi famosi che vorranno un ritratto o lo ispireranno all’artista: da Yves Saint-Laurent a Sylvester Stallone, da Golda Meir a Liza Minnelli, da Mao a Michael Jackson, a Mick Jagger, Greta Garbo, senza scordare il principe Carlo ed Enrico Coveri.
La parola superstar, secondo l’Oxford English Dictionary, viene usata per la prima volta in inglese da una rivista di cinema nel 1924. A quel tempo non bastavano mai le iperboli per definire il fascino dello schermo, in ogni suo aspetto. L’epoca d’oro dello star system, tramontato definitivamente agli inizi degli anni sessanta con la diffusione massiccia in tutto il mondo della televisione, torna in auge in una versione citazionistica cambiando il medium. Il rock assume molte delle provocazioni dei grandi costumisti degli anni trenta (geni del calibro di Adrian e Travis Banton) e il glam è disponibile a riciclare qualsiasi cosa pur di sedurre e affascinare.
Nasce il gusto per la moda retrò: a Londra nel 1966 apre con grande clamore una boutique destinata a fare storia, Granny Takes a Trip. “La nonna si fa un viaggio”, non solo per un’allusione alle droghe in voga ma anche perché gli abiti di un tempo cominciano a ritornare in auge. Gli stilisti giocano con atmosfere revival e gli anni settanta vivranno di una continua presbiopia di relazioni con il periodo tra le due guerre. Non si contano le allusioni, le citazioni, le reinvenzioni: quasi sempre con un modello di riferimento, un’icona d’origine con cui confrontarsi e far scattare incroci di senso.
Twiggy posa a Londra nel celebre e magnifico negozio art déco di Biba (al secolo Barbara Hulanicki), poco dopo aver interpretato una baby anni venti un po’ in acido nel magnifico The Boy Friend di Ken Russell (1971) e il gioco continua, di rimando in rimando, con esempi celebri come Liza Minnelli in Cabaret di Bob Fosse (1972): ma i capelli corti sono ispirati alla grande Louise Brooks e sono gli stessi che rendono sexy la famosa Valentina di Guido Crepax.
Warhol comprende prima di tutti che la nuova era sarà televisiva e che il divismo a questa dovrà fare riferimento, cambiando generi e forme. I suoi esempi di star saranno quindi di due tipi, diversi ma spesso sovrapponibili. Da una parte i “casi”, coloro che, come Taylor Mead (celebrato in un film con una serie di inquadrature del suo sedere per settanta minuti) e Ondine, rappresentano se stessi fino all’autoesaltazione. Dall’altra i lookalikes, coloro che fanno riferimento a celebrità del passato, le impersonano e in qualche modo le demistificano per il tempo presente. Tutti quanti comparivano come jesters alla corte del re, la Factory o la sala privata del ritrovo serale favorito, il Max’s Kansas City. Il gruppo, in sostanza, realizza una ricerca fondamentale, il dialogo con i fantasmi del passato, in un decennio in cui si sperimentava ogni possibile percorso formale. Il tutto era sempre legato a una comunità di pensiero e di azione, in cui vita e arte si sovrapponevano, una modalità di gruppo che negli stessi anni sarà propria di molti artisti sulle due sponde dell’oceano.
Pier Paolo Pasolini portava alla ribalta dello schermo i suoi “ragazzi di vita” (Franco e Sergio Citti, Ninetto Davoli, Ettore Garofalo), potendo contare su una propria diva paradossale: Laura Betti, sospesa tra cabaret, rimandi impossibili al cinema (ballava con Paolo Poli a piazza di Spagna e si sentiva Cyd Charisse) e Teorema. Sylvano Bussotti, cerimoniere di inquieti fantasmi operistici, mandava in scena la sua Passione selon Sade con i boys del momento e la grande cantatrice Cathy Berberian. Ella andava nel suo infinito repertorio dai contemporanei a Monteverdi, alla second hand music dell’ultimo Ottocento, ai Beatles nella magnifica trascrizione di Louis Andriessen. Rainer Werner Fassbinder amava allo stesso modo il filo diretto con la realtà (basti pensare alla rilevante presenza del suo amato, dal destino tragico, El Hedi ben Salem in La paura mangia l’anima) che il gioco con il fantasma del divismo (come nel magnifico film d’addio, Veronika Voss). Figure come Margit Carstensen, Hanna Schygulla e specialmente Ingrid Caven, attrice e chanteuse, erano infatti in grado di incarnare una nuova e moderna primadonna. Il gioco, creato mirabilmente per quest’ultima dal grande regista Daniel Schmid in un locale abbandonato di Pigalle, a Parigi, nel 1978, sarà quello di alludere a una possibile Marlene Dietrich contemporanea, fulgente nelle canzoni, melanconiche o rabbiose, scritte per lei da Fassbinder (per breve tempo suo marito) con le musiche di Peer Raben.
Coloro che vengono a fare parte del mondo cinematografico di Warhol devono assumere nomi pop (tra gli esempi famosi Ingrid Superstar, Ultra Violet e Baby Jane), mentre altri personaggi hanno già a disposizione un loro identificativo underground. Per esempio Ondine, che traeva curiosamente il suo appellativo dalla romanticissima pièce di Jean Giraudoux, vista a New York nella celebre interpretazione di Vivien Leigh, in omaggio alla quale si era esibito come ammiccante sirena, coperto di conchiglie, al Central Park. Solo alcuni rifiuteranno quel nuovo battesimo: Valerie Solanas rimarrà se stessa, come anche Mar...