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Nuove vie per l'astratto nell'arte del terzo millennio

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Nuove vie per l'astratto nell'arte del terzo millennio

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In un'epoca in cui ci s'interroga di frequente sul perché – e sul reale valore – di certe rappresentazioni visive, il saggio di Stefano Pirovano risponde mettendo a fuoco la natura del legame tra la componente materiale dell'opera e quegli elementi che l'occhio non può cogliere. L'opera d'arte, infatti, si è a tal punto dilatata oltre i propri confini da non essere più riconducibile all'esclusiva dimensione fisica: deve avere un racconto che la accompagni e informazioni che introducano il lettore al mistero della sua immagine. È in questa direzione, secondo l'autore, che stanno insistendo gli artisti più significativi degli ultimi anni.Date tali premesse, Forma e informazione scatta un'istantanea sul panorama attuale e lo fa partendo dal principio di astrazione, inteso come primordiale motore dell'opera d'arte. Per rendere conto della dialettica tra l'oggetto e l'"informazione" che anima le astrazioni contemporanee, l'autore si misura con una serie di artisti dai lavori particolarmente emblematici. È il caso di Carol Bove e Goshka Macuga, che intrecciano relazioni tra oggetti e sapere; di Cory Arcangel, Peter Coffin e Tomas Saraceno, con i loro passaggi nella cultura tecnologica; o ancora di Wade Guyton, Josh Smith, Beatriz Milhazes le cui immagini su tela sono generate da processi informativi.Nel libro si alternano approfondimenti teorici a puntuali descrizioni di opere, intervallate dalle testimonianze degli artisti. Numerose le incursioni in altri campi del sapere: dai più prossimi del design e dell'architettura, ad altri più lontani quali la fisica, le neuroscienze, la filosofia e la letteratura. Sono così chiamati in causa scienziati come Vilayanur Ramachandran o Brian Greene, accanto a scrittori del calibro di Orhan Pamuk, Sergej Nosov, Cormac McCarthy, Bret Easton Ellis e Patrick McGrath, le cui opere, disseminate di riferimenti all'arte contemporanea, offrono efficaci spunti interpretativi.Resta alla fine una precisazione: nella sua continua contrattazione tra creatività, teoria e contesto, il percorso del libro non è stato pensato per raggiungere una destinazione stabilita, ma piuttosto per restituire, persino al non addetto ai lavori, la ricchezza di un territorio dai molti luoghi inesplorati.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788860101389
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

Il cosmo

Accanto alla metafisica del bello esiste una metafisica superiore, che abbraccia l’arte in tutta la sua estensione e, sottraendosi a ogni interpretazione materialistica, si manifesta in tutti i generi di attività artistica, dalle sculture in legno dei maori a uno qualsiasi dei tanti rilievi assiri. Questa concezione metafisica non è altro che una registrazione ininterrotta del grande confronto di cui l’uomo e il mondo sono protagonisti sin dall’inizio della creazione e per tutta l’eternità. Così, l’arte è semplicemente un’altra forma di espressione di quelle energie psichiche che, sottoposte a un identico processo, determinano il fenomeno della religione e delle diverse concezioni del mondo.
Wilhelm Worringer, Astrazione ed empatia1
1. Mostre e Déjà vu.
Fino ad ora abbiamo parlato di come gli artisti che espongono nelle gallerie stiano rappresentando la sfera dell’umano, attraverso legami di matrice astratta tra il materiale e l’immateriale. Ora proviamo a parlare di come, attraverso gli stessi legami, rappresentano l’universo di cui sono parte.
Un oggetto misterioso cade dal cielo e colpisce sulla testa un uomo ferendolo. Non si conoscono i dettagli dell’incidente, ma l’artista inglese Tom McCarthy ne racconta le conseguenze in un romanzo di dubbia natura: letteratura o sostanza di un’installazione impossibile?
Il protagonista di Déjà vu si risveglia dal coma apparentemente senza gravi danni, se non qualche disturbo alla memoria e una scheggia di materia ossea che gli è rimasta conficcata nel ginocchio. I suoi problemi arrivano quando la misteriosa compagnia responsabile dell’incidente accetta di riconoscergli un risarcimento di ben otto milioni e mezzo di sterline per mettere a tacere l’episodio senza che si finisca in tribunale. Una vera fortuna. L’uomo è confuso, sembra disinteressato al denaro in sé, non vede l’evento secondo una prospettiva ordinaria. Deve pensarci, deve metabolizzare i fatti, ha bisogno di capire la sua nuova condizione. L’illuminazione arriva una sera durante una festa a casa di un amico. Mentre è in bagno, in un momento di evasione dal clima effimero della serata, l’uomo vede una crepa nel soffitto ed è colpito da una forte sensazione di déjà vu. Come folgorato, si mette a ricopiarla su un pezzo di carta, vuole ricostruirla e con essa pensa di ricostruire l’intero gruppo di ricordi di quel che chiama “un disturbo della materia”. Aiutato da Naz, scrupoloso dipendente dello studio di consulenza al quale ha affidato il suo patrimonio, l’uomo acquista due interi palazzi per reinterpretare sin nei minimi dettagli la realtà che gli sembra di ricordare, comprese persone, suoni, odori; il tutto in un ciclo che si ripete costantemente, accendibile o spegnibile a suo comando. Esiste una vecchia signora che frigge fette di fegato, un appassionato di motociclette che nel cortile smonta e rimonta la propria moto, un pianista che esegue scrupolosamente un certo pezzo, rallentando prima di affrontare un passaggio critico e ripetendolo fino a essere in grado di eseguirlo corretto alla giusta velocità. Nella “reinterpretazione” – questo è il termine usato da McCarthy – tutto deve essere scrupolosamente eseguito per creare una situazione reale e ripetibile. I ricordi hanno una durata breve, ma si compongono di mille dettagli e si svolgono in un arco temporale definito. Non sono immagini fisse, ma eventi, episodi, azioni. L’uomo vuole rivivere la realtà e per questo è disposto a ogni cosa; per lui il denaro non è un problema. Dopo la messinscena del palazzo decide di reinterpretare uno strano episodio che gli accade mentre cambia le gomme dell’auto. Poi si interessa alla scena di un omicidio che si è appena consumato nelle vicinanze di casa sua. Infine arriva a voler reinterpretare una rapina in banca, l’impresa con la quale il racconto giunge al suo epilogo. In questa occasione la replica avviene in un contesto reale e non ricostruito, nel quale gli attori agiscono come su un set.
Da questa breve sinossi – che non può rendere giustizia a un testo complesso e ricco di soluzioni felici – si possono già facilmente intuire due cose. La prima è che il protagonista di Déjà vu compie di fatto un’opera d’arte immaginaria, difficilmente realizzabile, ma non per questo meno completa di quanto sarebbe se l’autore dovesse riuscire a trovare le risorse economiche necessarie per renderla un fatto reale (qualcosa di simile a quel che fa l’artista Klara Sax in Underworld di Don DeLillo, dipingendo nel deserto aerei militari dismessi). La seconda, è che l’opera è sostanzialmente incentrata sul tema della ricostruzione della realtà e sul campo di sensazioni che si possono avvertire, tanto nel lavoro di ricrearla, quanto nel vivere la sua reinterpretazione. L’uomo viene preso da un formicolio che gli corre lungo la schiena ogni volta che avverte una “fusione”, ovvero un’integrazione perfetta, tra la messa in scena e i fatti che ha scelto di rivivere. Non si tratta di qualcosa di direttamente legato ai suoi problemi di memoria, almeno non nel senso di un’eventuale terapia riabilitativa. È invece in questione quel senso di ebbrezza che il protagonista avverte mentre ricostruisce, un senso che a suo dire gli consente di recuperare l’autenticità dell’esistere falsata dall’incidente e dal cospicuo indennizzo:
E io? Perché avevo deciso di trasferire la reinterpretazione nella banca vera? Per lo stesso motivo per cui avevo fatto tutto quello che feci a partire dalla festa di David Simpson: per essere finalmente reale. Per diventare fluido, naturale, per eliminare la deviazione che ci fa passare intorno a tutto quello che è fondamentale negli eventi, impedendoci di toccarne l’essenza: la deviazione che ci rende tutti poco originali, mediocri.2
Questa ricerca di autenticità attraverso la ricomposizione di frammenti di vita reale è per McCarthy il centro di gravità dell’esperienza umana, ma è anche la risposta alla domanda su quale sia il reale valore della rappresentazione.
Si tenga presente che uno degli elementi che più caratterizzano l’esperienza della reinterpretazione è il tempo. Da una parte c’è quello che occorre alla complessa ed efficientissima macchina organizzativa per istruire gli attori e ricostruire scrupolosamente gli scenari; è un tempo che scorre in maniera lineare e frenetica. Dall’altra c’è il tempo controllabile della fruizione, che invece è ciclico e dilatato. L’autore (e spettatore) è infatti in grado di controllare lo svolgersi degli eventi, eventualmente rallentandoli sino a farli arrivare a un punto morto, a una sorta di stasi mistica e pittorica. Nella riproduzione, dunque, la vita può essere osservata più nei dettagli, può essere analizzata, scomposta e ricostruita. Può essere posseduta e resa eterna attraverso quello che è anche un processo di comprensione. L’autore, demiurgo della realtà duplicata, si concentra infatti sui dettagli e ogni volta chiede un modellino in scala della scena, un punto di osservazione privilegiato. Egli è presente nell’accadere. Dunque, il senso della ricostruzione sta nella possibilità di estendere la propria percezione, tanto nei confronti della realtà delle cose e dei fenomeni, quanto nei confronti dell’io e della sua capacità di conoscere. Quando scopre la crepa che darà il via alla sua nuova forma d’esperienza, l’uomo si sta lavando le mani al lavabo di un bagno e guarda il soffitto per non guardarsi nello specchio. La conquista che gli consentirà di essere vero ai propri occhi sarà infatti quella esercitata verso il suo modo di conoscere, e non quella verso la sua immagine. A un certo punto infatti McCarthy dice:
La procedura medica legale è una forma d’arte, nientedimeno. Anzi, esagero: è più elevata, più raffinata di qualsiasi forma d’arte. Perché? Perché è autentica. Prendiamone solo un aspetto, per esempio: i diagrammi, con tutte le loro sagome, le frecce e i blocchi ombreggiati, sembrano quadri astratti, di avanguardie del secolo scorso. Danze di forme e di flussi delicati e perfetti come segni sulle ali delle farfalle. Ma non sono per niente astratti. Son documenti di atrocità. Ogni riga, ogni cifra, ogni angolo, l’inchiostro stesso vibra di una violenza quasi intollerabile, che grida oscurata dal silenzio della carta bianca: qui è successo qualcosa, è morto qualcuno.3
E poco più avanti, a proposito delle armi da fuoco che verranno usate per la reinterpretazione dell’omicidio:
La gente non si ferma mai a pensare queste verità fondamentali quando vede le guerre e i polizieschi alla TV. La gente dà per scontate troppe cose. Ogni volta che una pistola spara, entra in ballo tutta la storia dell’ingegneria. E anche della politica: guerra, assassinio, rivoluzione, terrore. Le pistole non sono solo gli artefici e i cardini della storia: sono la storia stessa, e nella loro camera di scoppio fanno girare scenari di futuro alternativi scagliando il presente dalla canna, mettendo da parte i bossoli vuoti del passato.
Le considerazioni a cui possono portare le allucinate reinterpretazioni di McCarthy ci spingono oltre il problema della duplicazione della realtà che abbiamo affrontato nel capitolo precedente, per raggiungere quel luogo ibrido e ambiguo che sono le mostre d’arte, spazi rituali dell’incontro tra l’individualità e l’altro da sé. È nelle mostre che la metafisica dell’opera subisce una rapida espansione, sia nel contatto con la sfera dell’umano, sia in quello con le altre opere.
È anche possibile stabilire una simmetria tra la visione rallentata e ipnotica che si raggiunge attraverso la reinterpretazione e quella che un curatore può realmente raggiungere nel momento in cui raccoglie opere per uno spazio fruibile. Come in Déjà vu, anche nel caso di una mostra il curatore ricostruisce una scena rincorrendo una visione principalmente fondata sulla memoria. Gli oggetti sono i suoi attori, lo spazio espositivo è il suo scenario. Nei casi migliori le opere sono una sequenza ordinata, pensata per essere vissuta e rivissuta con il beneficio del tempo. Tutto sommato, uno degli aspetti più importanti di una mostra è che essa è in grado operare quella riduzione temporale e spaziale che consente ai visitatori di trovare concentrate in un unico luogo opere che potrebbero altrimenti vedere solo investendo tempo e risorse. E inoltre, come gli istanti delle reinterpretazioni sono pensati per poterne disporre a piacimento, così le opere di una mostra sono raccolte e disposte per condensare il tempo della loro visione in una visione accessoria che si compone di ognuno di essi e risponde a un’unica regia d’insieme. Come il protagonista di Déjà vu individua eventi estraendoli dalla realtà, così il curatore estrae dall’insieme delle opere quelle che meglio rappresentano la sua idea. Tra fisica e metafisica si può di nuovo ipotizzare un legame di carattere astratto.
Ecco come due mostre a latere dell’edizione 2009 della Biennale di Venezia diventano le voci di un interessante dialogo a distanza riguardo al tema della visione e di come essa si articola nella scelta dei suoi rappresentanti. La prima, “In-Finitum”, a cura dell’antiquario e collezionista belga Axel Vervoordt, si è tenuta nello storico Palazzo Fortuny. La seconda, “Mapping the Studio”, è stata allestita negli spazi di Punta della Dogana da Francesco Bonami e Alison M. Gingeras. All’origine di entrambe ci sono le scelte di un collezionista e gli effetti della sua determinante visione: lo stesso Vervoordt nel primo caso, François Pinault nel secondo.
Cominciamo dalle sedi. Palazzo Fortuny, già Pesaro degli Orfei, si trova in campo San Beneto, nel sestiere di San Marco. È una bella costruzione gotica del Quattrocento che all’inizio del secolo scorso viene rilevata da Mariano Fortuny y Madrazo (figlio del pittore Mariano Fortuny y Marsal) che ne fa il suo atelier. Il padrone di casa è un artista eclettico, conosciuto nei salotti parigini, che non ancora ventenne si trasferisce a Venezia dove ha amici illustri come Gabriele d’Annunzio, Hugo von Hofmannsthal, la marchesa Casati e il principe Fritz Hohenlohe-Waldenburg. Nasce pittore, come il padre, ma sull’onda del successo di Wagner a Bayreuth comincia a interessarsi di scenografia e illuminotecnica. Inventa la cosiddetta “cupola”, un innovativo sistema d’illuminazione teatrale basato sulla luce indiretta e diffusa. Il primo esemplare completo del dispositivo viene costruito tra il 1903 e il 1906 nel teatro personale della contessa di Bearn e da qui, prodotto dall’AEG, si diffonde presto nei teatri di tutta la Germania. Con la giovane compagna Henriette, Fortuny comincia a interessarsi anche di fotografia, di tessuti stampati e di moda. Intorno al 1909 disegna e produce il celebre Delphos, l’abito in seta plissettata che lo rende celebre il tutto il mondo. L’interno della sua dimora veneziana è un’ode all’eclettismo, all’arte che si misura con la tecnica, alla creatività in cerca di nuovi campi d’applicazione.
Mentre Palazzo Fortuny è evidentemente un luogo della memoria in continua trattativa con l’idea di restauro sulle questioni del perdere e del conservare, Punta della Dogana è un magazzino per le merci in arrivo dal mare che, dopo il restauro eseguito da Tadao Ando, è diventato il museo pubblico di un collezionista francese, a capo di una potente multinazionale del lusso e proprietario di Artemis, la holding che detiene la casa d’aste Christie’s.
L’architetto giapponese è stato, o ha dovuto essere, estremamente delicato nel suo intervento (dopotutto, in Italia, esistono ancora le Soprintendenze dei Beni Culturali). Il globo dorato sorretto dai due Atlanti e sormontato dalla statua della Fortuna che ruota con il vento è rimasto al suo posto, sopra la tozza torre che dal vertice estremo dell’edificio affronta le acque della laguna. Mentre Palazzo Fortuny è approssimativo, decadente, pieno di luoghi stretti e tenebrosi, di scricchiolii e di rumori attutiti, l’interno di Punta della Dogana è sobrio, minimale, secco, e sarebbe persino asettico se non fossimo a Venezia e se gli edifici non fossero costruiti con legno e mattoni. L’essenzialità degli arredi rende l’atmosfera vagamente simile a quella che si può respirare nel caveau di una banca. Come in passato le merci in entrata dovevano passare di qui per portare alla Serenissima la ricchezza e il sapere di terre lontane, dalla seconda metà del Novecento le opere d’arte hanno pagato a Venezia un dazio per veder riconosciuto il proprio valore. Sotto il chiarore nitido, oggettivo e irreale delle luci al neon il restauro sembra essersi spinto sino al punto di conservare anche la funzione originaria dell’edificio.
Torniamo alla mostra del belga. Il trattino che separa il prefisso dalla parola racchiude in sé il senso di un pensiero organizzatore persino audace. Per il colto Vervoordt l’idea di infinito e quella di non finito sono fortemente legate l’una all’altra. Anzi, nella conversazione riportata in fondo al catalogo Vervoordt afferma che l’idea della mostra gli è venuta visitando a Shikoku, in Giappone, lo studio di Isamu Noguchi dove, secondo la volontà dell’artista, ogni cosa è stata lasciata esattamente com’era il giorno della sua morte. Nella quiete dello spazio dice di aver pensato che le sculture di pietra rimaste incompiute – quelle dove il rapporto tra natura e lavoro umano rimane irrisolto – fossero la parusia dell’infinito nel non finito. Il pensiero orientale, il viaggio, la ricerca di una visione transculturale spingono il collezionista verso un mondo in cui gli oggetti coesistono a prescindere dalla loro provenienza spazio temporale. Il degrado delle opere è visto come il simbolo della loro osmosi con l’universo, ovvero quel tendere a diventare tutt’uno con l’ambiente che tanto ossessionava anche il protagonista di Déjà vu. La cosa interessante è che Vervoordt considera i segni del degrado alla stregua di forme astratte create dal tempo, e aggiunge:
[…] è proprio questo il motivo per cui amo gli oggetti con un passato, segnati dalla patina del tempo e non restaurati, e al tempo stesso anche l’arte astratta che a sua volta riflette la vita e l’immagine della natura.4
Il decadimento non è altro che un passaggio verso un nuovo stato e l’astrazione un aspetto di questo passaggio. Immerse in un ambiente cupo attraversato da fasci di luce concentrata, le opere stanno sospese più che appese. I dettagli si perdono nella penombra e paradossalmente la patina del tempo sparisce, o si amalgama sino a confondersi. Di Alberto Burri, Lucio Fontana, Gotthard Graubner, Gunter Uecker, Otto Piene, Gherard Richter, Thomas Ruff, Anish Kapoor, James Turrel o Kazuo Shiraga affiora il lato mistico e spirituale. Con loro danzano nel vuoto una natura morta seicentesca con vasi di ceramica di Francisco de Zurbarán, una copia della Pietà Rondanini di Michelangelo, un ritratto incompiuto del Vescovo di Worms eseguito dal bavarese Peter Gertner nella prima metà del Cinquecento. Ci sono anche una piccola e lacunosa crocifissione veneziana quattrocentesca e una versione sbagliata della Maddalena penitente, dipinta nel 1833 da Francesco Hayez per il conte Giuseppe Crivelli. Il viso della donna, seduta nuda su un fianco, è stato più volte ridipinto prima di essere abbandonato. Così che la testa, come per effetto di fotogrammi in movimento, sembra muoversi in segno di diniego, come se fosse il quadro stesso a voler convincere l’artista ad abbandonarlo. La realtà simulata e quella negata dell’immagine pittorica vengono poste sullo stesso piano. Tra di loro c’è il vuoto, un elemento su cui Vervoordt sembra aver a lungo riflettuto: «credo che siano molti i grandi artisti che hanno tentato di rendere il vuoto e la telepatia fra gli oggetti, anche se non hanno mai sentito parlare di Ma; io credo che la qualità di un’opera risieda proprio nella presenza di questo vuoto».
L’interlocutore di Vervoordt, l’architetto Tatsuro Miki, spiega che nella cultura giapponese il Ma è lo spazio-tempo in mezzo alle cose, un vuoto così intenso che non si può fare a meno di interagire con esso e perciò è sempre l’origine di qualcosa. Nel Ma c’è l’idea dell’invito, piuttosto che quella dell’obbligo, e c’è l’idea di un luogo architettonico, il tokonoma, che è una specie di alcova sacra presente nell’architettura giapponese a partire dal XIV secolo e solitamente posta negli angoli più privati della casa, come una sorta di apertura simbolica sul mondo interiore. Del resto, come dice il famoso Stūra del Cuore: «la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma».5 Il vuoto modella la materia.
La mostra di Vervoordt sta nella relazione tra gli oggetti, esattamente nello spazio che esiste tra di loro, uno spazio nel quale rifluisce liberamente il sapere che circola intorno alle opere e al luogo. Tutto ciò che attiene all’idea di limite viene sistematicamente sostituito da ciò che invece riguarda quella di continuità. La sfumatura è il principio usato per ottenere questo effetto, un principio che si traduce nell’illuminazione fioca e diffusa, nell’assenza di sovrastrutture espositive e pannelli didattici, ma anche nella collocazione delle opere che sono infatti mimetizzate nell’ambiente e localizzate come ne fossero parte integrante. La mano ordinatrice del curatore ha fatto di questa dimora antica un luogo in cui gli oggetti hanno avuto il tempo di depositarsi, integrarsi ed esser tutt’uno con l’architettura.
Come “In-Finitum”, secondo quanto d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ringraziamenti
  3. Prefazione
  4. Legami e-leganti
  5. Astratto nella sfera dell’uomo
  6. Il doppio
  7. Il cosmo
  8. Note
  9. Copyright