Dostoevskij
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Dostoevskij

Lo scrittore della mia vita

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Lo scrittore della mia vita

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Nella vita di ogni lettore ci sono scrittori che occupano un posto speciale: spesso scoperti attraverso letture giovanili, diventano compagni di vita, sorgenti alle quali tornare nel tempo, scoprendovi ogni volta qualcosa di nuovo. Fëdor Dostoevskij rappresenta tutto questo per Julia Kristeva. Fin dai suoi primi studi la filosofa ha insistito sulla presenza, talvolta manifesta, spesso inconsapevole, delle voci degli altri all'interno della propria voce: la lingua non è mai neutra o pura, è resa più ricca dalla stratificazione di significati che altri prima di noi le hanno attribuito. Attraverso decenni di letture sedimentate Kristeva ha imparato a riconoscere la voce di Dostoevskij, e a sentirla risuonare dentro di sé. Il suo essere rivoluzionario, la sua esperienza nelle carceri della Siberia, il suo amore per la Russia e la sua fede tormentata e mai dogmatica la attraggono irresistibilmente, ma a stregarla è soprattutto il suo essere il romanziere del carnevale umano, capace di comprendere che l'oscurità infernale non riguarda solo l'animo di chi vive ai margini, ma è un elemento costitutivo della condizione umana. Julia Kristeva ci apre al mondo di Dostoevskij attraverso un denso saggio introduttivo, seguito da una selezione di brani tratti dai testi dell'autore russo, ordinati secondo parole chiave che ne mettono in luce gli elementi più interessanti dal punto di vista di questa lettrice d'eccezione. Da «gioco» a «doppio», da «delitto» a «castigo», da «bambini» a «epilessia», Kristeva costruisce un percorso di lettura per orientarsi nell'universo dostoevskijano, muovendosi tra i suoi capolavori, come Delitto e castigo, L'idiota e I fratelli Karamazov, e i taccuini privati. Un racconto insieme autobiografico, poetico e teorico che restituisce la polifonia delle opere di Dostoevskij, sottolineandone la capacità di parlare al nostro presente.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855221757

Le parole di Dostoevskij

Una scelta di testi

Documenti

Lettera al fratello. All’uscita dal bagno penale (1854)

A Michail Michajlovič Dostoevskij
Omsk, 30 gennaio-22 febbraio 1854
[E] io sono così debole che, naturalmente, non sono in grado di sopportare il fardello della vita soldatesca. «Da quelle parti la gente è semplice», mi dicono per incoraggiarmi. Ma io ho più paura di una persona semplice che non di una complicata. D’altronde, la gente è uguale dappertutto. E al bagno penale in mezzo ai banditi, in quattro anni, ho imparato finalmente a distinguere le persone. Credimi, ci sono caratteri profondi, forti, meravigliosi, e quanto mi sono divertito a riuscire a scoprire l’oro sotto la ruvida scorza. E non solo una o due volte, ma diverse. Alcuni non puoi evitare di rispettarli, altri sono decisamente meravigliosi. Ho insegnato a leggere e a scrivere in russo a un giovane circasso (mandato ai lavori forzati per brigantaggio). Non sai la gratitudine che mi ha dimostrato! Un altro forzato si è messo a piangere quando ci siamo dovuti separare. Gli ho dato dei soldi, ma neanche tanti! La sua gratitudine in compenso è stata infinita. Il mio carattere nel frattempo è peggiorato; con loro ero capriccioso, impaziente. Loro hanno rispettato il mio stato d’animo e sopportato tutto con rassegnazione. À propos1. Quante tipologie popolari, quanti caratteri riporto dal bagno penale! Mi sono abituato a loro e per questo, credo, li conosco abbastanza. Quante storie di vagabondi e bandi<ti> e in generale di quotidianità nera e miserabile! Basterà per volumi interi. Che popolo straordinario. Parlando in generale, per me non è stato tempo perso. Se la Russia non l’ho conosciuta, il popolo russo sì, e bene, così bene come, forse, pochi lo conoscono. Ma questo è il mio piccolo orgoglio! Spero perdonabile.

Lettera a Natalja Dmitrievna Fomvizina.
All’uscita dal bagno penale

A Natalja Dmitrievna Fonmvizina
Omsk, fine gennaio-febbraio 1854
Ho sentito dire da tanti che siete molto religiosa, N<atal’ja> D<mitrievna>. Non perché siete religiosa, ma perché io stesso l’ho passato e l’ho provato, vi dirò che in momenti come questi aneli, come l’«erba inaridita», la fede, e la trovi, proprio perché nella disgrazia la verità appare più luminosa. Di me vi racconterò che sono figlio del mio secolo, figlio della miscredenza e del dubbio, fino ad oggi e anche (lo so per certo) fino alla tomba. Quali terribili tormenti mi è costata e mi costa questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nel mio animo quanti più argomenti ad essa contrari ho dentro di me. E ciò nonostante, Dio talvolta mi manda attimi in cui sono completamente sereno; in questi attimi io amo e scopro di essere amato, ed è in attimi come questi che ho concepito in me un Credo, in cui tutto mi appare luminoso e sacro. Questo Credo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più meraviglioso, più profondo, più simpa<ti>co, più ragionevole, più coraggioso e più perfetto di Cristo, e che non soltanto non c’è, ma, mi dico con un amore premuroso, che non può esserci. Non solo, se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità, e che effettivamente la verità fosse al di fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo piuttosto che con la verità.

«Io stesso sono un vecchio nečaeviano» (1873)2

E perché supponete che i Nečaev debbano immancabilmente essere dei fanatici? Molto spesso sono solo dei furfanti. «Sono un furfante, non un socialista», dice un Nečaev, mettiamo, nel mio romanzo I demoni, ma vi assicuro che avrebbe potuto dirlo nella realtà. Questi furfanti sono molto astuti e hanno studiato proprio il lato generoso dell’animo umano, il più delle volte un animo giovane, per poterlo suonare come uno strumento musicale. Ma sul serio credete davvero che i proseliti che un qualunque Nečaev potrebbe reclutare da noi debbano essere immancabilmente dei fannulloni? Non ci credo, non tutti; io stesso sono un vecchio «nečaeviano», anch’io sono stato sul patibolo, condannato a morte, e vi assicuro che ero in compagnia di gente istruita. Quasi tutta questa compagnia aveva un’istruzione universitaria. In seguito, quando tutto era già passato, alcuni si sono distinti per le loro straordinarie conoscenze professionali o per le loro opere. No, signori miei, i nečaeviani non sono sempre dei fannulloni che non hanno appreso niente di niente.

Meditazione davanti al corpo di Marija Dmitrieva (1857-1864), prima moglie dello scrittore3

16 aprile [1864]. Masha giace sul tavolo. La rivedrò Masha?
Amare una persona come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, è impossibile. La legge della personalità sulla terra è d’impaccio. L’io è d’ostacolo. Solo Cristo poteva farlo, ma Cristo è stato nei secoli il sempiterno ideale al quale l’uomo aspira, e dovrebbe per legge di natura aspirare… Invece, dopo l’apparizione di Cristo come ideale dell’uomo incarnato è diventato chiaro come il giorno che la suprema, ultima evoluzione della personalità deve far sì che (allo stadio finale dell’evoluzione, nel punto esatto del raggiungimento del fine) l’uomo riesca a trovare, prenda coscienza e con tutta la forza della sua natura si convinca che l’utilizzo più elevato che possa fare della propria personalità, della pienezza dell’evoluzione del proprio io, è, per così dire, distruggere questo io, consegnarlo a tutti e a ciascuno nella sua interezza, completamente e senza riserve. E questa è la massima felicità. Così la legge dell’io si fonde con la legge dell’umanesimo, e fondendosi, sia l’io che il tutti (all’apparenza due estremi opposti), reciprocamente annientati l’uno in favore dell’altro, allo stesso tempo raggiungono anche l’obiettivo più elevato del proprio sviluppo individuale, ciascuno separatamente.
Lettera ad Anna Grigor’evna Dostoevskaja (1846-1918),
seconda moglie dello scrittore.
La fine del gioco (1871)
16 (28) aprile 1871, Wiesbaden
Intorno alle nove e mezzo avevo perso tutto e sono andato via come inebetito; soffrivo a tal punto che sono corso subito dal prete (non preoccuparti, non ci sono andato, non ci sono andato e non ci andrò!). Per strada, correndo da lui, nel buio, per strade sconosciute pensavo: in fondo è un pastore di Dio, non gli parlerò come a un privato ma come in confessione. Ma mi sono perso nella città, e quando sono arrivato alla chiesa, che ho scambiato per una chiesa russa, in una bottega mi hanno detto che non era russa ma ebrea. È stata come una doccia fredda. Sono corso a casa; adesso è mezzanotte, sono seduto qui e ti scrivo. (Non andrò dal prete, non andrò, giuro che non andrò!) […].
Non pensare che io sia pazzo, Anja, mio angelo custode! Su di me si è compiuta una grande opera, è sparita l’abietta fantasia che mi ha tormentato per quasi dieci anni. Per dieci anni (o meglio, dalla morte di mio fratello, quando sono stato improvvisamente sopraffatto dai debiti) ho sognato di vincere. Ho sognato seriamente, appassionatamente. Ora è finita! È stata DAVVERO l’ultima volta! Credimi, Anja, adesso le mie mani sono libere; ero legato dal gioco, ora penserò al lavoro e non sognerò il gioco per notti intere come una volta. E sembra che il lavoro procederà meglio e più in fretta, con la benedizione di Dio! Anja, abbi cura del tuo cuore per me, non odiarmi e non smettere di amarmi. Adesso che sono un uomo nuovo andiamo avanti insieme e io farò in modo di renderti felice!
1 In francese nel testo.
2 Diario di uno scrittore, 1873, cap. XVI, «Uno dei falsi moderni».
3 Quaderni e taccuini, 1860-1881.

Mitiche

Confessione di Raskol’nikov a Sonja1

Fece per sorridere, ma qualcosa di impotente e di incompiuto comparve in quel pallido sorriso. Lui chinò la testa e si nascose il viso con le mani.
E all’improvviso una strana, inattesa sensazione di odio corrosivo nei confronti di Sonja gli attraversò il cuore. Come sorpreso e spaventato lui stesso da questa sensazione, sollevò di colpo la testa e la fissò con insistenza; ma incontrò su di sé lo sguardo di lei inquieto e premuroso sino alla sofferenza; c’era dell’amore; il suo odio si dissolse come un fantasma. Non era quello; aveva scambiato un sentimento per un altro. Significava solo che quel momento era arrivato.
Di nuovo si nascose il viso con le mani e chinò la testa. A un tratto impallidì, si alzò dalla sedia, guardò Sonja e, senza dire una parola, andò a sedersi sul suo letto.
Quel momento somigliava terribilmente, nella sua percezione, a quello in cui si era ritrovato in piedi dietro la vecchia, la scure già liberata dal cappio, e aveva sentito che ormai «non c’era più un istante da perdere».
«Che avete?», domandò Sonja, terribilmente impaurita.
Lui non riuscì ad articolare una sola parola. Non era proprio così, non era così che aveva previsto di fare l’annuncio, e neppure lui capiva cosa gli stesse capitando. Lei gli si avvicinò senza far rumore, si sedette sul letto accanto a lui e attese, senza staccargli gli occhi di dosso. Il suo cuore batteva forte e ogni tanto perdeva un battito. Divenne insopportabile: lui girò verso di lei il suo viso pallido come la morte; le labbra s’increspavano impotenti, nello sforzo di articolare qualcosa. Il terrore attraversò il cuore di Sonja. […]
«Oh, come vi state tormentando!», disse Sonja con sofferenza, scrutandolo con attenzione.
«Tutte sciocchezze!… Ascolta, Sonja – d’un tratto per qualche motivo sorrise, in modo un po’ pallido e impotente, per un paio di secondi – ricordi cosa volevo dirti ieri?».
Sonja aspettava inquieta.
«Ho detto, andando via, che forse ti stavo dicendo addio per sempre, ma che se fossi venuto oggi ti avrei detto… chi ha ucciso Lizaveta».
All’improvviso tutto il corpo di Sonja fu scosso dai tremiti.
«Ecco qui, sono venuto a dirtelo».
«Ma allora, voi, per davvero ieri… – sussurrò lei a fatica – com’è che lo sapete?», gli domandò in fretta, come se di colpo fosse tornata in sé.
Sonja faticava a respirare. Il suo viso diventava sempre più pallido.
«Lo so».
Lei rimase in silenzio per un minuto.
«Cos’è, lo hanno trovato?», chiese timidamente.
«No, non l’hanno trovato».
«E allora come fate a saperlo?», di nuovo domandò Sonja, con voce appena percettibile, e di nuovo dopo un minuto di silenzio.
Raskol’nikov si girò verso di lei e la fissò intensamente.
«Indovina», pronunciò lui con lo stesso sorriso sghembo e impotente.
Qualcosa di simile a delle convulsioni attraversarono tutto il corpo di lei.
«Ma voi… mi… perché mi fate così… paura?», pronunciò, sorridendo come una bambina.
«Vorrà dire che sono un suo grande amico… visto che lo so – proseguì Raskol’nikov, continuando a fissarla con insistenza, come se non avesse più la forza di distogliere lo sguardo – questa Lizaveta… non voleva ucciderla… Lui l’ha… uccisa senza volere, per caso… Lui voleva uccidere la vecchia… quando era da sola… è arrivato lì… E poi è entrata Lizaveta… E poi lui… ha ucciso anche lei».
Passò un altro spaventoso minuto. Entrambi continuavano a fissarsi.
«Cos’è, non riesci a indovinare?», domandò lui d’un tratto, sentendosi come se si stesse buttando giù da un campanile.
«N-no», bisbigliò Sonja con un filo di voce.
«Guarda bene».
E non appena lo ebbe detto, una vecchia sensazione familiare ancora una volta gli gelò l’anima: la guardava e all’improvviso, sul suo viso, fu come se vedesse il viso di Lizaveta. Ricordava con assoluta chiarezza l’espressione di Lizaveta mentre le si avvicinava con la scure in mano, e lei indietreggiava verso il muro, il braccio teso in avanti, uno spavento assolutamente infantile sul volto, identico a quello dei bambini piccoli quando improvvisamente cominciano ad aver paura di qualcosa, guardano immobili e preoccupati quel qualcosa che li spaventa, indietreggiano e, tendendo in avanti la manina, si preparano a piangere. Quasi la stessa cosa accadde a Sonja in quel momento: con la stessa impotenza, la stessa paura, lo guardò per un poco e a un tratto, tendendo avanti il braccio sinistro, gli puntellò leggermente, appena appena, le dita sul petto e lentamente cominciò a sollevarsi dal letto, continuando sempre più ad allontanarsi da lui, mentre il suo sguardo si faceva sempre più immobile. Il suo sgomento si comunicò d’un tratto anche a lui: un identico terrore comparve sul suo volto, e anche lui cominciò a guardarla nello stesso modo, persino quasi con lo stesso sorriso infantile.
«Hai indovinato?», mormorò alla fine.
«Oddio!», un grido terribile eruppe dal suo petto. Lei si lasciò cadere sul letto, il viso premuto sul cuscino. Ma un attimo dopo rapidamente si risollevò, rapidamente si avvicinò a lui, gli afferrò entrambe le mani e stringendogliele, come in una morsa, con le sue dita sottili, riprese a fissare immobile, come incollata, il viso di lui. Con quest’ultimo sguardo disperato voleva riuscire a leggervi e a cogliervi una qualche ultima speranza per se stessa. Ma non c’era speranza; non rimaneva più alcun dubbio: tutto era proprio così! Anche dopo, in seguito, nel ricordare quel momento, avvertiva una strana sensazione: perché lei allora aveva capito subito che non rimaneva più alcun dubbio? Dopotutto, non avrebbe potuto dire, per esempio, di aver avuto come un presentimento di qualcosa? Eppure, adesso, non appena Raskol’nikov glielo disse, d’un tratto le sembrò di avere veramente presentito proprio questa cosa.
«Basta, Sonja, basta! Non torturarmi!», la supplicò dolorosamente lui.
Lui aveva pensato di svelarle la cosa in modo del tutto, ma proprio del tutto diverso, però era andata così.
Come in trance, Sonja balzò in piedi e, torcendosi le mani, arrivò in mezzo alla stanza; ma rapidamente tornò indietro e gli si sedette di nuovo accanto, la sua spalla quasi a sfiorare la spalla di lui. A un tratto, come trafitta, sussultò, cacciò un grido e, senza sapere neppure lei il perché, si gettò in ginocchio davanti a lui.
«Cosa avete fatto, che cosa avete fatto a voi stesso!», esclamò disperata e, raddrizzandosi con un balzo, gli si gettò al collo, lo abbracciò e lo avvinghiò stretto stretto tra le sue braccia.

Gli occhi di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. Le parole di Dostoevskij. Una scelta di testi
  7. Bibliografia essenziale