Turbare una stella
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Spirito e materia. Storie e cammini

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Spirito e materia. Storie e cammini

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"Le cose sono unite da legami invisibili: non si può cogliere un fiore senza turbare una stella": è la frase completa, attribuita a Galileo Galilei, che dà origine al titolo di questo libro. Un libro che prova a raccontare l'amore contrastato fra spirito e materia non con la freddezza del saggio, ma con il calore della narrativa: un alternarsi di "storie" (le tappe dello svolgersi di quella relazione nei secoli) e di "cammini" (i reportage dei viaggi a piedi dell'autore alla ricerca della propria interiorità, prima ancora che della bellezza della natura-materia). Il tutto intriso di lieve erotismo. Come per testimoniare dell'incontro fra due amanti, a volte avvinti l'un l'altro, più spesso crudelmente separati. E nel racconto-viaggio compaiono altre domande: perché la Terra ha subìto tante profanazioni? Cosa spinge l'uomo a far del male ai suoi simili? Qual è la causa dell'eclissi del sacro? Perché le nostre sono divenute civiltà del panico, dell'apparenza, della competizione, della bulimia edonistica e consumistica? Davvero crediamo di poter sconfiggere la morte? Alla fine del viaggio l'autore, nel cercare la sostanza della materia ne riscopre lo statuto animico, nello scandagliare l'essenza dello spirito ritrova la sua dimensione materica.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788849865585
Categoria
Viajes

Ventinovesima storia
— Pandemia 1: da Homo sapiens a Homo stupidus —

La pandemia che si è abbattuta sul mondo tra la fine del 2019 e il 2020 si è rivelata un immenso laboratorio planetario per appurare lo stato dell’arte in tema di prosopopea scientista. Il SARS-CoV-2, il virus che sta all’origine della pandemia, ha compiuto un capolavoro, anche dal punto di vista simbolico: una creatura invisibile e infinitesimale ha tenuto sotto scacco per mesi il grande, il potente Homo sapiens, colui che crede di esser fatto a immagine e somiglianza di Dio, colui che, come vedremo, pensa che la morte sia solo una malattia in procinto di essere sconfitta. Nell’incapacità degli scienziati di arginare il contagio, i governi sono stati costretti ad adottare misure eccezionali: miliardi di persone agli arresti domiciliari; intere economie in ginocchio; sistemi sanitari sottoposti a stress pazzeschi. Due interrogativi si fanno strada in modo prepotente. Com’è possibile che, fra tanti virologi, epidemiologi, infettivologi – primi fra tutti quelli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità –, nonostante le esperienze trascorse, nessuno abbia messo in conto la possibilità che dal ceppo del Coronavirus potesse originarsi una nuova epidemia? Eppure, perfino un divulgatore molto stimato, David Quammen, nel suo famoso libro “Spillover” (con questo termine si intende il passaggio del virus mutato dall’animale all’uomo), pubblicato negli Usa nel 2012 aveva, esattamente ipotizzato che la pandemia prossima ventura sarebbe stata provocata da un virus zoonotico (di origine animale), proveniente da un selvatico venuto a contatto con l’uomo in un mercato della carne e degli animali della Cina (Quammen, 2014, pp. 174-219, pp. 528-537). E come è possibile che, pur essendosi visto, in Cina, fin dall’inizio dell’epidemia, che il contagio era veemente e che le complicanze polmonari richiedevano l’uso della ventilazione assistita o della terapia intensiva, non si è provveduto sin da allora a potenziare i sistemi sanitari degli altri Paesi? Le risposte possibili sono due: o gli “esperti” sapevano e hanno taciuto (per altro non è mai stato smentito che i servizi segreti Usa avessero tempestivamente avvisato il governo del rischio pandemia e di quello sanitario), oppure la presunzione ha obnubilato le loro menti! Fatto sta che la pandemia ha riscritto la storia dell’evoluzione. La nomenclatura in auge per la nostra specie potrebbe essere definitivamente modificata: da Homo sapiens sapiens a Homo stupidus stupidus! (Rubo la definizione allo psicoanalista Vittorino Andreoli che ne ha fatto il titolo di un libro). I virus rivestono una fondamentale funzione biologica e hanno assunto, per l’uomo, una straordinaria valenza evolutiva, politica ed economica. Essi sono fondamentali nella trasmissione di geni e costituiscono una delle riserve di diversità genetica più importanti e inesplorate. Inoltre, vengono usati negli studi e negli esperimenti biogenetici e farmacologici. I virus, inoltre, sono molto gettonati nell’industria farmaceutica, anche perché in caso di epidemie, i governi sono costretti ad approvvigionarsi di farmaci e vaccini. Infine i virus sono ampiamente usati nell’industria delle armi non convenzionali. E non c’è bisogno di scomodare i laboratori militari segreti dei Paesi più guerrafondai. Pensiamo, semplicemente, al genocidio, da parte dei conquistadores europei, di decine di milioni di indigeni della Mesoamerica all’epoca della conquista del Nuovo Continente: le armi più usate furono proprio il vaiolo e il morbillo! Ma l’Homo stupidus, che usa in modo così massiccio i virus, mai avrebbe pensato di essere così tragicamente usato da loro. Già, perché la sensazione diffusa anche fra la gente comune sulla ragione di questo evento dalle conseguenze prima inimmaginabili è che il virus sia venuto fra noi per ridimensionare la nostra presunzione. Più o meno come fanno le epidemie che decimano le popolazioni di certi selvatici divenuti troppo numerosi e invadenti per i territori che li ospitano: le epidemie sono strumenti che la Natura utilizza per sfoltire demograficamente le popolazioni animali e ristabilire gli equilibri turbati, garantendo così, la prosecuzione della vita all’interno dell’habitat. Diversi studiosi ipotizzano che la diffusione e la letalità di queste epidemie virali da zoonosi (ossia da malattie trasmesse dagli animali agli uomini), sono strettamente collegate con la perdita di biodiversità e di naturalità della Terra dovuta proprio all’azione antropica. Non a caso Konrad Lorenz – che già aveva raccolto il suo pensiero critico verso i “progressi” dell’umanità, oltre che nel citato “Il cosiddetto male” anche ne “Il declino dell’uomo” e ne “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà” – poco tempo prima di morire, rilasciò una profetica e dura intervista in Germania (poi tradotta e pubblicata sul numero 3 del 1989 di “La nuova ecologia”) nella quale dichiarava di essere d’accordo con lo scienziato americano John P. Craven (1924-2015) il quale aveva sostenuto che la sola speranza per un cambiamento di rotta era riposta in una catastrofe radicale che sterminasse una parte dell’umanità per far aprire gli occhi ai sopravvissuti. E quando uno dei due intervistatori lo incalzò chiedendogli se allora il disastro nucleare di Černobyl, in Urss, fosse stato troppo poco, Lorenz rispose: “Sì, quel disastro è stato troppo piccolo. Dovrebbe accadere un disastro a un’intera città come New York o San Francisco. Ma tale da non danneggiare troppo il resto dell’umanità, da non farla regredire troppo”. Ma forse, mi permetto di aggiungere, neanche questo basterebbe a far assumere all’uomo senso di responsabilità verso il terribile potere che la tecnica gli ha offerto, se è vero come è vero che le bombe su Hiroshima e Nagasaki non sono servite a bandire le armi nucleari, i disastri di Černobyl e Fukushima non sono stati capaci di mettere in discussione la produzione di energia nucleare, l’olocausto ebraico non è riuscito a cancellare l’odio razziale. Esattamente come l’epidemia di SARS-CoV-2 non servirà a ricordare all’Homo stupidus che un suo esemplare per nulla stupido, Charles Darwin, aveva già preconizzato che il successo biologico di una specie vivente è direttamente proporzionale alle sue virtù.

Ventinovesimo cammino
Colle Marcione, Grande Porta del Pollino: le mie prime alla Scala e alla Fenice —

Colle Marcione, Massiccio del Pollino. Ore 9 di un freddo mattino di dicembre. Dopo la neve. Poltronissima di prima fila. Più fortunato che se stessi nel palco presidenziale di una prima del Teatro alla Scala. A guardare lo spettacolo non c’è alcun rischio che mi addormenti, come invece accade, puntualmente, quando mi trascinano a cinema o a teatro. Quel che vedono i miei occhi ha un effetto nemmeno lontanamente paragonabile alle più belle e sontuose luminarie di una grande capitale europea. Inverno, sole, gelo hanno addobbato la valle. Come se uno scenografo, a bordo di un enorme, silenzioso velivolo, avesse cosparso di luce, colori e polvere d’oro la valle, le gole, le montagne, i boschi. Un enorme anfiteatro naturale. Con al centro la grande arena fatta di declivi e pianori che digradano verso il fondovalle del Raganello, ancora immerso nell’ombra. Un mondo arcaico, appartato, silenzioso. Potente e severo, quel tanto che basta da aver tenuto a bada l’uomo per secoli. Pur avendogli consentito di vivere qui con poche famiglie, in masserie sparse. Chi fa la strada che ho percorso io stamane o è uno degli ultimi contadini pastori di quassù, o è qualche camminatore folle che aborrisce gli accessi più noti e turistici al cuore del Parco Nazionale del Pollino. Si deve possedere un robusto fuoristrada per percorrere i venti chilometri di strada che da Civita portano nel “mondo perduto” di Conan Doyle. Perché mai nessuno ha riconosciuto a questi uomini e donne ostinati lo stato di cittadini. Potremmo dire che i massari dell’alta valle del Raganello appartengono agli ultimi popoli primitivi, anzi quasi incontattati d’Europa. Restano in quelle case di pietra, a sistemarle anno dopo anno, ad accudire gli orti, i coltivi, gli animali, ad andar su e giù in vecchi fuoristrada scassati, a rimanere isolati durante le nevicate invernali, a fare lunghi cammini con le loro capre e le loro pecore. Ogni giorno e con ogni condizione atmosferica. Qui lo Stato non è mai venuto. Eppure, a Colle Marcione c’è la poltrona riservata per il Presidente della Repubblica. A costo zero. A volte penso che lo Stato, in realtà, lavori perché questa gente sia costretta ad andar via definitivamente da qui ed a stiparsi in qualche metropoli del Nord Italia: troppo complicato portare loro i servizi essenziali; troppo difficile controllarli; impossibile omologarli e lobotomizzarli come si fa nei paesi e nelle città. Son convinto che questi uomini e queste donne preferirebbero restare incontattati, come certe piccole tribù andine o amazzoniche. Perché di idioti come noi non saprebbero che farsene… al momento. E certo, idioti appariremo anche noi oggi – in senso dostoevskijano – se ci presentiamo quassù quando la temperatura è sotto lo zero e tutta la Foresta della Fagosa è strinata dalla galaverna. E quando le grandi pareti delle timpe orientali sono incrostate di ghiaccio. E quando sulle cime occidentali è arrivata la neve che resisterà ormai per tutto l’inverno. E idioti siamo se veniamo quassù non per mettere in salvo dal gelo gli animali o portare aiuto, ma solo per lasciare l’auto e beccarci mille metri di dislivello fra boschi e rupi per giungere in cima a una montagna. Più che da idioti, i locali ci trattano con un misto di curiosità e di commiserazione. Lasciamo l’auto in un delizioso boschetto di cerri. Da dove si domina tutta la valle. Proseguiamo a piedi per vecchi pascoli e campi di grano strinati di neve e ghiaccio. Tutto pare essere entrato in letargo. Tranne la luce, che chiama il mondo alla vita. Raggiungiamo la sterrata per Casino Toscano, con la veduta alpestre della parete est di Serra delle Ciavole. Saliamo nel silenzio imbiancato della faggeta, sino alle prime radure erbose che preludono alla Grande Porta del Pollino, il valico di chi traversava dalla Basilicata alla Calabria e viceversa. Un altro folle sale in solitaria da Lago Duglia, Michele. Siamo un solo gruppo quando valichiamo l’orlo del passo ed entriamo nell’altro grande teatro (deve essere La Fenice di Venezia), che si chiama Piani di Pollino. Gli attori più vicini al pubblico si sono messi in posa. Movimenti impercettibili nel vento gelido da nord-ovest che ci investe. Sono salitori lentissimi e molto, molto vecchi. Attraversiamo tutto il loro palcoscenico, da Serretta della Porticella sino alla cima di Serra di Crispo, dove stanno gli attori più bravi, gli dei della montagna. I faggi non osano infastidirli qui, a oltre 2.200 metri di quota. Dove il terreno è povero e pietroso e il clima inclemente. Solo i profumati e pungenti pulvini di ginepro resistono. Sono i pini loricati, che ci guardano dalle loro posture da pachidermi. Ci considerano anch’essi con commiserazione: non hanno animali da accudire, ma vigilano sui semi che il vento ha sparso intorno e che garantiscono la prosecuzione della loro specie. Procedere sulla cresta è tutto uno scrutare l’orizzonte: gli Alburni, il Sirino, la Spina, l’Alpi, il Raparo, la valle del Sinni, Timpa di Pietra Sasso, il Canyon del Sarmento, il lago di Monte Cotugno, il crinale di Toppo Vuturo, la Falconara, lo Sparviere, la Timpa di San Lorenzo, la valle del Raganello, le Timpe di Porace e Cassano, il Sellaro, e la Sila lontana, e la lunga dorsale del Dolcedorme e della Manfriana, e il Pollino, Serra della Ciavole e Serra del Prete, e uno spicchio dell’Orsomarso. Nonostante l’ora tarda e le prime ombre della sera, Michele ci conduce in una breve erranza, giù dalla sella fra Serra di Crispo e Serretta della Porticella sino al laghetto ghiacciato di Piano dei Moranesi e poi fino a Casino Toscano. Michele ci lascia, per tornare verso Lago Duglia. Proseguiamo verso il punto di partenza che il sole già tramonta dietro il crinale della Manfriana. Nella boscaglia soprastante un pastore, uscito anche col gelo, incita il suo gregge a rientrare. Grossi cani latranti osservano vigili noi intrusi. È il momento dei commiati: ognuno degli aspiranti incontattati primitivi, dei richiedenti asilo, degli stanziali erranti, dei monaci eremiti… sa di dover lasciare i tanti posti in prima fila nel teatro più bello del Sud Italia. Per tornare alle strade illuminate scioccamente, allo sguaiato rito dello shopping, delle abbuffate, del festeggiare non so che, dello sparare botti, del saltare come indemoniati allo scadere della mezzanotte, dell’inondare di selfie goderecci e insulsi il povero mondo attonito. Terre, montagne, fiumi, oceani, valli, uomini e donne che lottano ogni giorno per sopravvivere all’incommensurabile stupidità dei sapiens. Che guardano tutto questo brulicare di umani come alla più grande catastrofe mai accaduta al Pianeta dacché fu il big-bang.

Trentesima storia
— Pandemia 2: massa e paura —

Ricucio arbitrariamente alcune frasi di Elias Canetti (1905-1994), premio Nobel per la letteratura nel 1991, tratte dalle prime pagine di “Massa e Potere”: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. […] Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. […] Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche il timore di qualcosa che dal buio, all’improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. […] Fra le vene più salienti della massa c’è qualcosa che chiameremo forse senso di persecuzione: una particolare e irosa suscettibilità, eccitabilità, nei confronti di nemici designati come tali una volta per tutte. […] La massa è sempre una sorta di fortezza assediata, ma assediata in senso duplice: essa ha il nemico dinanzi alle mura, e il nemico in cantina. Durante lo scontro, la massa attira sempre più persone. Dinanzi a tutte le porte si adunano i suoi nuovi amici e chiedono impetuosamente di essere accolti. In momenti favorevoli questa richiesta viene soddisfatta; ma essi possono anche scavalcare le mura. La città si riempie sempre più di combattenti; ma ognuno di essi porta con sé un suo piccolo, invisibile traditore, che si rifugia frettolosamente in cantina. […] Il senso di persecuzione della massa non è altro che la sensazione di questa duplice minaccia. La cerchia delle mura viene costruita sempre più stretta e le cantine dall’interno sono sempre più minate. Le attività del nemico sono aperte e controllabili durante la costruzione delle mura, nascoste e subdole nelle cantine” (Canetti, 2015, pp. 17-28). Con la pandemia di SARS-CoV-2 tutti abbiamo potuto sperimentare quanto esiziale possa essere un attacco di panico di massa. Nelle grandi città del Nord, le persone stipate in piccoli appartamenti dormitori e abituate a vivere le loro giornate fuori di casa, tra uffici, fabbriche, negozi, centri commerciali, palestre, bar, sono state costrette a convivere forzatamente per settimane, per mesi. Al Sud, invece, a farla da padrone è stata la caccia all’untore di manzoniana memoria. Quando i forzati meridionali emigrati al Nord, sono stati costretti a tornare alle loro case sospinti dalla chiusura delle università, delle scuole, delle fabbriche, degli uffici, degli esercizi commerciali, si è scatenato un coro di epiteti dei loro “fratelli” stanziali terrorizzati dall’idea che quelli esportassero il contagio (quando già era chiaro come il virus fosse ovunque, in tutti i Paesi del mondo): irresponsabili, criminali, assassini! Sociologi, psicologi, etologi avranno di che studiare e scrivere per molti anni a venire. È questa, forse, la prima vera occasione in cui l’intera umanità si è trovata, dalla rivoluzione industriale in avanti, di fronte allo smascheramento dell’illusione di invulnerabilità. Laddove non era ancora riuscita la pur grave crisi ecologica, nonostante decenni di denunce del mondo scientifico, ripetuti meeting internazionali, impegni disattesi e revocati, sembra essere riuscito, invece, un piccolo agente patogeno. Sebbene non si possa ancora dire se l’umanità abbia fatto tesoro di questa sonora e brutale lezione, quel che è certo è che abbiamo avuto paura, anzi terrore. Ma questi due termini sono poi equivalenti? E siamo così certi che la paura non abbia, talvolta, risvolti positivi? Scrive Hans Jonas nel già citato “Il principio responsabilità”, pubblicato nel 1979: “Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l’oggetto della responsabilità” (Jonas, 2002, p. 285). La paura, negativa, che dissuade dall’azione potremmo allora chiamarla “terrore” o “panico”, per distinguerla da quella, positiva, che, invece, esorta a compierla. Ancora Jonas: “Si dovranno apprendere nuovamente il rispetto e l’orrore per tutelarci degli sbandamenti del nostro potere […]. Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo il positivo: il rispetto per ciò che l’uomo è, dall’orrore dinanzi a ciò che egli potrebbe diventare, dinanzi a quella possibilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro. Soltanto il rispetto, rivelandoci qualcosa di più sacro, cioè d’inviolabile in qualsiasi circostanza […], ci preserverà dal profanare il presente in vista del futuro, dal voler comprare quest’ultimo al prezzo del primo” (ivi, p. 286). E nello stesso luogo Jonas propugna come via d’uscita dall’illusione di onnipotenza data all’uomo dalla tecnica, un’euristica (ossia una ricerca, un metodo, una strategia) della paura, che ci esorti a compiere solo atti ispirati al principio di responsabilità verso di noi, verso le generazioni future, verso la Terra sulla quale viviamo.

Trentesimo cammino
Cascate del Grandecaccia: elogio della paura e della tenerezza —

Sono inquieto stamane: ieri ho stupidamente ascoltato i telegiornali, impegnati a creare il panico per l’epidemia. E sono solo: gli altri si sono dati al carnevale, ai pranzi, alle feste, ai viaggi. Natale mi ha avvertito che con i suoi celebrerà un rito di riconciliazione nel Grandecaccia, una gola fluviale dell’Aspromonte settentrionale. Percorsi anni fa la parte bassa della valle, da Cernatali, un grumo di case di pastori sospeso su un costone a picco sulla fiumara. Ma non arrivai alle gole, conficcate come un taglio micidiale sul fianco nord di Serra della Lùcrina. Non resisto alla tentazione. E parto da solo. Sulla Limina, l’alto valico fra le Serre e l’Aspromonte, vento forte, nebbia gelida. La strada è un calvario di frane e buche. Non c’è anima viva. Qualche casa abbandonata. Improbabili cartelli stradali divelti, sforacchiati, abbattuti. Sono attorniato da un paesaggio spettrale. Arrivano gli amici di Asprotrek. Ho appena il tempo di avvolgermi negli indumenti, che siamo già nell’intrico dei lecci, delle ginestre spinose, delle eriche. Giù verso l’abisso. Se non ci fossero gli abissi non ci sarebbero vette, disse qualcuno. In Aspromonte si comprende bene: se vuoi andar per monti devi prima calare nel vuoto che sta sui loro fianchi. Ogni traccia degli antichi camminamenti è stata cancellata. Apriamo varchi con seghetti, con roncole e con le mani. Cambiamo traiettoria in base al “rastu” (il fiuto) di Natale e di Nicola. Pencoliamo su baratri. Intanto il cielo, che si era svelato, torna a ingrigirsi e a minacciare pioggia. Se volevo peggiorare il mio umore non potevo scegliere meglio. Ma vado giù come un animale assetato in cerca dell’acqua. Finalmente un vuoto fra gli spini. Ecco il fiume, buio, tetro… magico. Indossiamo i caschi. Ora siamo una tribù guidata dallo sciamano. Guadiamo ripetutamente. Arrampichiamo fra i massi instabili. Girata un’ansa, ecco la cascata, alta una quarantina di metri. Nicola s’inerpica sul filo di una cresta stracciata, cucita appena dalle radici portentose dei lecci. Lo seguo. Ma so che siamo sul nulla. La cresta è come un’ostia fra i meandri del fiume. In qualunque momento può franare, liquefarsi, sparire. E liberare la strada dritta all’acqua. È così che funziona la natura. La distruzione precede la creazione. Il morire serve al nascere. Ma noi crediamo di essere immortali. Sino a che qualcosa ci riporta con i piedi per terra: l’età che avanza, una malattia… l’epidemia, l’avvertire il pericolo, la paura. Come oggi. Come qui. Come in questi attimi di sospensione fra il fragore della cascata e la voce di Nicola che mi ghigna se per caso non mi sia incantato e non voglia restar qui, per sempre. È strana la paura. A volte occorre la paura per renderti consapevole. Come profetizzò Konrad Lorenz quando disse che sarebbe stata necessaria una grande catastrofe in una megalopoli di milioni di abitanti perché l’umanità prendesse coscienza del male che ha fatto alla Terra e a se stessa. O, come scrisse Hans Jonas a proposito di un’euristica della paura per fermare la profanazione del presente in vista del futuro, per impedire l’acquisto di quest’ultimo al prezzo del primo. Siamo dei privilegiati noi occidentali. In Africa, in Sud America, in Asia convivono da sempre con le malattie, le epidemie, la fame. La povertà, la disuguaglianza, l’ingiustizia, sono ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. — Premessa —
  6. Protagonisti— In ordine sparso —
  7. Testimoni— In ordine di prima audizione: in tondo quelli delle “storie”, in corsivo quelli dei “cammini” —
  8. — Introduzione —
  9. Le storie e i cammini
  10. Prima storia— I sogni di un Nobel per la fisica —
  11. Primo cammino— Timpone della Chiesa: la valle del fare anima —
  12. Seconda storia— La condizione umana —
  13. Secondo cammino— Timpa del Diavolo: sperso nel vuoto del mio universo —
  14. Terza storia— La materia ama nascondersi —
  15. Terzo cammino— Panetti e Monte Faggio: il sentiero perduto e il borgo delle otto anime —
  16. Quarta storia— Nel regno di necessità —
  17. Quarto cammino— Monte Mammicomito: il cerchio della vita —
  18. Quinta storia— Dall’intuizione dei primi filosofi all’aristotelismo medievale —
  19. Quinto cammino— Neve a Macchia Sacra: quando la bellezza educa allo sguardo —
  20. Sesta storia— Naturalismo rinascimentale —
  21. Sesto cammino— I ciclopi del Reventino: l’infinito di Giordano Bruno, il mio infinito —
  22. Settima storia— Ermetismo, Paracelso, gnosi —
  23. Settimo cammino— Foresta di Tavolara: tutte le cose sono piene di dei —
  24. Ottava storia— I dogmi della fisica classica —
  25. Ottavo cammino— San Martino di Canale, Timpone Tenna, Timpone Bruno: Gioacchino e il mistero della vita —
  26. Nona storia— Goethe e Humboldt. Ma, ancor prima, Spinoza —
  27. Nono cammino— Canolo vecchio, Grotta di Zagaria, gole del Pàchina e del Novito: il racconto commosso delle nostre vite —
  28. Decima storia— Darwin, Fechner, la moderna neurobiologia delle piante —
  29. Decimo cammino— Monte Castelluzzo: della linfa e del sangue —
  30. Undicesima storia— L’irruzione della psicologia. Janet, Freud, Jung —
  31. Undicesimo cammino— Allaro: la valle con la collana di turchesi —
  32. Dodicesima storia— I dubbi della fisica moderna —
  33. Dodicesimo cammino— Montea: a lezione d’autunno e di vita —
  34. Tredicesima storia— La particella di Dio —
  35. Tredicesimo cammino— Valle del Trionto: origine del Mondo —
  36. Quattordicesima storia— Materia mistica —
  37. Quattordicesimo cammino— Monte Volpintesta e Val di Neto: Eros e la tempesta di pollini —
  38. Quindicesima storia— Positivismo e scientismo —
  39. Quindicesimo cammino— Ragonà: perché l’amo molto più di New York —
  40. Sedicesima storia— Magismo e psiconeuroendocrinologia —
  41. Sedicesimo cammino— Da Velati a Panetti. In viaggio con Rocco, l’asino filosofo —
  42. Diciassettesima storia— Wilderness: ambiguità di un’idea —
  43. Diciassettesimo cammino— Vallone della Ficara e Rupi di Lanzicello: il campanile sul diadema d’argento —
  44. Diciottesima storia— La svolta ecologica —
  45. Diciottesimo cammino— Valle del Badia: almanacco di un mondo semplice —
  46. Diciannovesima storia— Ecologia superficiale, ecologia profonda —
  47. Diciannovesimo cammino— Bosco Archiforo: la danza dei dervisci —
  48. Ventesima storia— Visione olistica e sistemica —
  49. Ventesimo cammino— Pietra di Pino: sovrumani silenzi, profondissima quiete —
  50. Ventunesima storia— Un disegno misterioso —
  51. Ventunesimo cammino— L’arpa dalle corde d’argento —
  52. Ventiduesima storia— Umanesimo ecologico —
  53. Ventiduesimo cammino— Pietra dell’Angioletto: in fuga dai persuasori occulti —
  54. Ventitreesima storia— L’uomo contro se stesso —
  55. Ventitreesimo cammino— Da Agrami a Casalnuovo di Africo: ritorno a casa —
  56. Ventiquattresima storia— Aggressività: fisiologia o patologia? —
  57. Ventiquattresimo cammino— Serra di Coppo: tutto è res cogitans —
  58. Venticinquesima storia— L’uomo contro la Terra —
  59. Venticinquesimo cammino— Serra Grande, Monte Rossino: Cristo è morto a Lauria —
  60. Ventiseiesima storia— Dall’adattamento necessitato al dominio irresponsabile —
  61. Ventiseiesimo cammino— Valle del Tacina: quel che resta del giorno. E della notte —
  62. Ventisettesima storia— Grandiosità della natura e voglia di sfida —
  63. Ventisettesimo cammino— Pascoli di Macchialonga: il Grand Tour dentro noi stessi —
  64. Ventottesima storia— La tecnica come fine e non più mezzo —
  65. Ventottesimo cammino— I titani di Cellia: Eros e il rito di espiazione —
  66. Ventinovesima storia— Pandemia 1: da Homo sapiens a Homo stupidus —
  67. Ventinovesimo cammino— Colle Marcione, Grande Porta del Pollino: le mie prime alla Scala e alla Fenice —
  68. Trentesima storia— Pandemia 2: massa e paura —
  69. Trentesimo cammino— Cascate del Grandecaccia: elogio della paura e della tenerezza —
  70. Trentunesima storia— Una “Carta” per la Terra —
  71. Trentunesimo cammino— Timpa del Pino di Michele: il cosmo intelligente —
  72. Trentaduesima storia— Libertà, ansia, terrore, consumo —
  73. Trentaduesimo cammino— Pietra di Momo: elogio dell’imperfezione —
  74. Trentatreesima storia— Vita segreta dei dati —
  75. Trentatreesimo cammino— Bosco di Gallopane: mondo o “oltremondo”? —
  76. Trentaquattresima storia— Transumanesimo: la morte è solo una malattia —
  77. Trentaquattresimo cammino— Monte Ciagola: un eremita nell’era del Robotcene —
  78. Trentacinquesima storia— Dio o il big-bang? —
  79. Trentacinquesimo cammino— Cozzo dell’Orso: il mistero e il big-bang —
  80. Trentaseiesima storia— Ritorno al passato —
  81. Trentaseiesimo cammino— Case Dani, Valle del Terrate: voci dal silenzio —
  82. Trentasettesima storia— L’esperienza del sacro —
  83. Trentasettesimo cammino— Pietra Ferruggia, Pietra Longa: fra labirinti e ninfei —
  84. Trentottesima storia— Declinazioni del sacro —
  85. Trentottesimo cammino— Valle del Colognati, Cascata del Cerasia: il mistero della natura increata —
  86. Trentanovesima storia— L’eclissi del sacro —
  87. Trentanovesimo cammino— Cascate di Marmarico: dispersi fra la terra e il cielo —
  88. Quarantesima storia— Il senso religioso della vita —
  89. Quarantesimo cammino— Montenero: tutta la tenerezza in una montagna —
  90. Quarantunesima storia— Per un’ecologia integrale —
  91. Quarantunesimo cammino— Pietra di Placanica, Monte Stella: l’universo, il vecchio pastore, io, Dio ed il Bosone di Higgs —
  92. Quarantaduesima storia— Dominare o servire? —
  93. Quarantaduesimo cammino— Serra delle Ciavole: passaggio ad est —
  94. Quarantatreesima storia— Francesco d’Assisi e il Cantico —
  95. Quarantatreesimo cammino— Pinticudi: la montagna dalle cinque code —
  96. Quarantaquattresima e ultima storia— Il principio mitezza —
  97. Quarantaquattresimo e ultimo cammino — Gole del San Paolo, Rupi del Campanaro: amare il mondo senza possederlo —
  98. — Nota bibliografica —
  99. Dello stesso autore