Il racconto del cielo
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Il racconto del cielo

La grande storia dell'Antico Testamento

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Il racconto del cielo

La grande storia dell'Antico Testamento

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Gianfranco Ravasi, tra i maggiori biblisti contemporanei, traccia un meraviglioso e affascinante itinerario attraverso gli uomini, le storie, i personaggi, i misteri, i dilemmi e le idee più significative dell'Antico Testamento. Un'opera completamente rinnovata, di certo il libro più ricco e importante sulle sacre scritture rivolto ai contemporanei. Grazie a una suggestiva e originale rievocazione dei capolavori pittorici (Chagall ha definito la Bibbia come l'alfabeto colorato a cui ha attinto tutta l'arte occidentale), delle musiche, dei film, dei romanzi, delle poesie e dei saggi ispirati alle vicende e ai protagonisti testamentari, Ravasi mostra quanto l'Antico Testamento abbia permeato la nostra cultura e la nostra stessa esistenza. Il racconto del cielo è la guida che ci consente di risalire alle origini della civiltà moderna.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865768747
1. Il racconto del cielo
Nell’assemblea del tempio di Gerusalemme il solista si alzò e intonò l’antico Credo d’Israele, trasformato in cantico. Era il «Grande Hallel», la Lode per eccellenza, il Salmo 136. «Lodate il Signore: egli è buono! […] I cieli ha fatto con sapienza, / la terra ha stabilito sulle acque, / ha fatto le grandi luci: / il sole a reggere i giorni, / la luna e le stelle a regger la notte…» E il popolo a ogni verso rispondeva kî le‘ôlam hasdô, «perché eterno è il suo amore». A quel coro s’associava l’orchestra del tempio che il Salmo 150, un altro Hallel, l’ultimo del Salterio, aveva minuziosamente elencato: corno, arpa, cetra, timpano, strumenti vari a corda, flauti e cembali ritmavano le danze rituali. Nel canto del Salmo 136 si evocava – mentre al cielo salivano i fumi dei sacrifici di olocausto – il primo articolo della fede d’Israele, narrato nella prima pagina della Bibbia.
In principio un suono
Libro strano la Bibbia: non solo perché composto a mosaico da decine di libri e libretti diversi, ma anche perché il redattore finale per aprirlo ha scelto una delle pagine meno antiche. Quel celebre capitolo 1 della Genesi, quel bereshît, cioè «In principio [Dio creò cielo e terra]», infatti, è stato scritto probabilmente solo alla fine del vi secolo a.C., quasi 500 anni dopo il tempo in cui il giovane pastore «fulvo e di bell’aspetto» di nome Davide era divenuto re di Giuda. Una pagina curiosa, che pare quasi elaborata al computer secondo un complesso schema numerico: sette giorni sui quali si distendono otto opere divine, scandite in due gruppi di quattro; sette formule fisse usate per costruire la trama del racconto; sette volte risuona il verbo bara’, «creare»; trentacinque volte (7 × 5) è scandito il nome divino; ventun volte (7 × 3) entrano in scena «terra e cielo», il primo versetto ha sette parole e quattordici (7 × 2) il secondo.
Una cabala ieratica, ritmata sul sette della settimana liturgica, numero di pienezza e di perfezione, celebra quindi uno sterminato silenzio squarciato da un imperativo possente Jehî ’or […] Wajjehî ’or, «Sia la luce […] E la luce fu». Forse è necessario commentare queste parole affidandoci alla Creazione di Franz J. Haydn con la sua prodigiosa generazione di un celestiale e solare Do maggiore dal caos d’una modulazione infinita. O evocare la sfida di altri musicisti come Wagner, Holst e Schönberg, ossessionati dall’idea di cogliere in battute il risveglio dell’universo. O inseguire lo sforzo di conquista della sonorità cosmica da parte della Sagra della primavera di Igor Stravinskij, dove le sette note della scala, avvinghiate nell’accordo di tutti gli accordi possibili, percuotono dal cielo la terra per ridestarne l’impulso vitale e popolarne di vita la superficie. O creare la lacerazione dei suoni di Licht, l’opera cosmologica in sette parti di Karlheinz Stockhausen, mentre la Genesi di Battiato sembrerebbe suggerirci una comparazione tra fedi diverse. Per la Bibbia la creazione è sostanzialmente un evento sonoro: è la voce divina a dar origine all’essere. Anche nella cultura indiana il Prajapati, «il Signore delle creature», fa sbocciare l’essere da una cellula sonora che dilagherà negli spazi infiniti per riaggregarsi poi nei canti dei fedeli.
La parola è da subito decisiva, e lo è soprattutto per un popolo come Israele, che ha optato per il silenzio delle immagini: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù in terra né di ciò che è nelle acque sotto terra» imporrà il Decalogo (Es 20,4). L’essere non è sospeso su un gorgo fatale, come immaginavano, prima ancora dei greci, gli antichi sumeri, che pensavano al dio creatore Enlil come a un «arruffio di fili di cui non si conosce il bandolo». La creazione non è neppure frutto di una lotta teogonica e intradivina, come aveva cantato il poema accadico-babilonese Enuma Elish, nel quale un dio vincitore, Marduk, riduceva a materia l’antagonista Tiamat, la divinità «abissale» negativa sconfitta, trasformata dalla Bibbia nel tehôm, l’abisso sotterraneo acquatico-infernale. Per la Bibbia noi siamo «appesi» a quella Parola primordiale: «In principio c’era il Logos», cioè il Verbo, la Parola efficace, come scriverà Giovanni l’evangelista. In essa si concentrano tutti i sensi che il Faust di Goethe vorrà dissociare: il Wort-parola è anche Kraft-potenza, Sinn-significato e Tat-azione.
In principio ci fu, dunque, un suono, un’armonia. Ne è convinto un altro antico autore d’Israele, colui che ha messo in bocca alla Sapienza divina creatrice uno splendido inno, racchiuso nel capitolo 8 del libro dei Proverbi. Raffigurata come ’amôn, «architetto» o «giovane» – difficile è decidere il valore di quel vocabolo –, la Sapienza alla fine della creazione si abbandona a una danza, a una specie di ebbrezza festosa espressa con un verbo ebraico che implica delizia, allegria, abbandono gioioso, ballo: «Io ero con Lui come ’amôn, / ero la sua delizia ogni giorno, / danzando davanti a Lui in ogni istante, / danzando sul globo terrestre, / trovando la mia allegria tra i figli dell’uomo» (Prv 8,30-31). Catturato da questa immagine sarà anche il poeta di Giobbe che farà entrare sulla scena del cosmo in formazione il Creatore, accompagnato da una corale angelica: «Le stelle del mattino acclamavano in coro / e tutti i figli di Dio gridavano la loro gioia» (Gb 38,7).
Resterà sempre una sfida per l’uomo cogliere quel canto primordiale che echeggia nel tempo e nello spazio se è vero, come dice Shakespeare nel Mercante di Venezia, che «fin la più piccola orbe che tu ammiri, compiendo il suo moto canta come un angelo [like an angel sings]». Persino la scienza moderna è ricorsa a un analogo simbolismo, il «Big Bang» – certamente più volgare e brutale – per descrivere quel bereshît.
E per le Scritture la ri-creazione escatologica dei «nuovi cieli» della «nuova terra» sarà affidata, secondo quanto fa balenare l’Apocalisse, a una palingenesi per coro, orchestra e solisti. Il suono fiorirà sempre dal wajj’omer, il «disse» iniziale, e dall’imperativo jehî ’or, «sia la luce»; ascolto e visione, parola e luce insieme si distenderanno nei secoli sino all’intreccio finale di voci, quelle di Dio e dell’uomo, nell’ultima riga dell’Apocalisse: «Colui che attesta queste cose dice: Sì, verrò presto! […] Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20). L’esatto opposto della Decreazione del mondo proposta nel 1980 dal musicista brasiliano Mauricio Kagel come «parodia» escatologica in onore di un dio crudele e vendicatore.
Il racconto del cielo
Il suono dell’imperativo divino primordiale non è spento, quindi, ma continua a echeggiare nella conchiglia del creato. È quasi cristallizzato nelle creature. Ne è convinto il poeta sacro, autore di quel gioiello lirico che è il Salmo 19 il cui incipit, nella versione latina, forse è ancora nella nostra mente: «Coeli enarrant gloriam Dei». Si potrebbe accompagnarlo con il filo musicale di uno spartito di Franz Liszt sul salmo stesso o del Salmo xix che Niccolò Castiglioni ha presentato in prima esecuzione a Perugia nel 1980. Nel carme biblico s’accendono due soli. Il primo è quello che campeggia nel cielo terso di Palestina; il secondo è quello che brilla nell’anima d’Israele, cioè la Tôrah, la Legge divina, la Rivelazione biblica, descritta appunto con immagini solari («i comandamenti di Jhwh sono radiosi, / illuminano gli occhi; / la parola di Jhwh è pura, / anche il tuo servo ne viene illuminato»).
Ma è al primo sole che noi ora guardiamo. Come un eroe, esce dal talamo nuziale, il grembo delle tenebre, ove ha trascorso la notte; come un atleta, compie il suo volo sull’orizzonte, senza conoscere soste e stanchezze, avvolgendo il pianeta nel calore irresistibile del mezzodì. Una simbologia nota, rintracciabile anche in Mesopotamia, in un inno al dio solare Shamash: «O Sole, guerriero e atleta, e tu, Notte, sua sposa, lanciate sempre uno sguardo luminoso alle mie azioni giuste!». Ascoltiamo il salmista: «Là per il sole Dio pose una tenda: / di là esce quale sposo dal talamo, / beato come un eroe percorre la sua via. / Da un estremo del cielo egli sorge, / la sua orbita conquista l’altro estremo. / Non v’è riparo ai suoi raggi di fuoco!» (Sal 19,6-7). Nell’avvio dello stesso salmo si coglie la voce della creazione, anzi il «racconto» del cielo. Il poeta ebreo, infatti, non contempla l’universo con animo romantico, egli è alla ricerca della voce primordiale e la scopre nell’arco del cielo. Notte e giorno sono rappresentati come sentinelle che di postazione in postazione trasmettono un messaggio divino: «I cieli narrano la gloria di Dio, / il firmamento annunzia le opere delle sue mani; / il giorno affida il messaggio al giorno, / la notte ne trasmette notizia alla notte, / senza discorsi, senza parole, / senza che si oda alcun suono. / Eppure la loro voce si espande per tutta la terra, / sino ai confini del mondo la loro parola!» (Sal 19,2-5). Un famoso commentatore del Salterio, Hermann Gunkel, notava che per il salmista «c’è nell’universo una musica teologica», un vangelo cosmico, che prepara quello esplicito della Tôrah.
Straordinaria questa musica silenziosa, questa voce afona, questo canale d’ascolto che sovrasta ogni soglia uditiva. Non è solo parola che dilaga per la terra intera ma è anche qaw, raro vocabolo ebraico che indica quasi l’urlato (Sal 40,2). C’è, quindi, una rivelazione cosmica aperta all’ebreo quanto a ogni Adamo: «Non c’è creato» scriveva nel 1980 in una delle sue ultime poesie Riccardo Bacchelli «che non torni a lode del creatore […] in un lume d’arcano aperto a tutti ed a nessuno: all’uomo». Il racconto del cielo inaugura la via delle epifanie segrete (affidate al silenzio «bianco» mistico, somma di tutti i suoni, opposto a quello «nero», spoglio di suoni e disperante) eppur universali di Dio. C’è una Tôrah cosmica da leggere sulla pergamena distesa tra terra e cielo, per usare un’immagine sottesa a un inno sinagogale della festa di Shavuot, la Pentecoste ebraica. «Difatti» annoterà più freddamente l’autore alessandrino del libro della Sapienza «dalla grandezza e bellezza delle creature / per analogia si contempla l’autore» (Sap 13,5). E sulla sua scia si metterà san Paolo, iniziando il suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, con queste parole: «Dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20).
Lo «scialle» di Dio
«Dio disse: Appaiano luci nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte, per essere segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni, per servire da luci nel firmamento del cielo e così illuminare la terra! E così avvenne. Dio fece le due grandi luci, la maggiore per regolare il giorno e la minore per ritmare la notte, e le stelle» così continua l’autore sacro della Genesi (Gn 1,14-16). È il quarto dei sette giorni della settimana archetipica. Secondo un apocrifo giudaico, il Libro dei Giubilei, le maggiori solennità giudaiche cadevano proprio il quarto giorno della settimana. Un giorno di festa quello in cui «s’appendono nel cielo le grandi luci» destinate a ritmare il ciclo circadiano e stagionale e a «separare» luce e tenebre. Creare è «separare», distinguere, ordinare in uno spartito armonico. La legge biblica proibirà di tessere insieme per una veste lana e lino, di accoppiare specie animali differenti, di seminare con diverse sementi (Lv 19,19) perché sarebbe un attentato alla creazione.
La cosa più suggestiva è, però, un’altra. Per l’antico Vicino Oriente sole, luna e stelle erano divinità. Nel xiv sec. a.C. il faraone Akhnaton, incantato da Aton, il disco solare, aveva inaugurato la sua riforma «monoteista» solare e intonato quello splendido Inno ad Aton che forse ha lasciato qualche brillio nel Salmo 104, il «cantico delle creature» biblico. In Mesopotamia era Shamash, il Sole, o Inanna, la Luna, a ispirare canti e liturgie. Netta è, invece, la scelta biblica: sole, luna e stelle non sono divinità, ma creature che recano un’impronta del Creatore, che possono parlare di lui, e sono alla fine semplici orologi cosmici. Al massimo possono diventare il suo esercito: quel titolo così marziale di Jhwh seba’ot, «Signore degli eserciti», con cui Israele indicherà il...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Premessa
  4. Introduzione
  5. 1. Il racconto del cielo
  6. 2. Chi ti ha detto che eri nudo?
  7. 3. Lotta con Dio, e ti benedirà
  8. 4. Dalla polvere della storia un bisbiglio
  9. 5. L'impero della legge
  10. 6. L'incenso non è un narcotico
  11. 7. Io sono tenda, casa, trono!
  12. 8. L'intelligienza infinita
  13. 9. Come cantare in terra straniera?
  14. 10. I giorno dell'ira
  15. 11. Figli di un Dio d'amore
  16. 12. Quale Dio?
  17. Abbreviazioni dei libri biblici
  18. Nota bibliografica