Ripartire dal desiderio
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Fin dalla storica domanda di Sigmund Freud «cosa vuole la donna?», la questione del desiderio è intrinsecamente legata alla differenza di genere e in particolare al femminile. Un femminile basato proprio sull'impossibilità di rispondere a tale domanda: un oggetto misterioso, un «altro» su cui ci si interroga. Partendo da Non è la Rai, passando per il #metoo, gli incel e l'educazione sessuale, Elisa Cuter indaga quella che viene percepita come l'attuale «guerra tra i sessi», e arriva a ribaltare alcuni luoghi comuni del femminismo mainstream, chiedendosi se abbia ancora senso rivendicare un'identità storicamente costruita come subalterna.Ripartire dal desiderio, incrociando e mescolando personal essay, psicoanalisi, filosofia e sociologia, cinema e cultura pop, cerca di determinare il senso presente dell'equazione «il personale è politico» (lascito fondamentale della riflessione femminista) e offre una critica radicale del moralismo che si è impossessato del discorso politico.Un punto di vista originale su argomenti centrali nel dibattito pubblico di oggi elaborato attraverso un racconto analitico capace di mettere in relazione fenomeni apparentemente distanti tra loro; ma soprattutto un invito ad abbandonare il porto sicuro dell'identità per porsi sfide più ambiziose e domande più inquietanti, proprio come quelle che ci pone il desiderio.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833892276

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IL SECONDO SESSO

In quanto donna

Quando avevo circa sei anni i miei genitori vennero convocati a scuola. Le maestre avevano notato che i miei disegni erano piuttosto strani: i soggetti femminili avevano il seno e indossavano tacchi alti. Mi piaceva molto disegnare, mi ripetevano tutti quanto fossi portata – e probabilmente a piacermi era soprattutto quello: sentirmi lodare per il tratto sicuro. Non ho mai davvero considerato il disegno un mezzo per esprimermi e non ho mai sperimentato più di tanto, né spaziato nei soggetti, e infatti credo che tanta sicurezza derivasse dalla pratica reiterata, dal fatto insomma che disegnavo sempre le stesse cose – le stesse cose che mi trovo a scarabocchiare tuttora quando sono al telefono o a una conferenza noiosa: donnine procaci. Quelle che facevo all’inizio delle elementari erano buffe, delle pin-up deformi: teste enormi e corpi piccolissimi, fronti bombate, fiocchi sparsi sui capelli lunghi e voluminosi come quelli della Sirenetta Disney. Quanto impatto quel film d’animazione uscito nel 1990 avesse avuto nella mia giovane esistenza è testimoniato anche dall’estate in cui volevo cambiare nome: mi scrivevo ogni giorno (ero al mare, puntualmente sbiadiva dopo il bagno) sul braccio ARIEL in caratteri cubitali e lo mostravo a mia madre ogniqualvolta si ostinasse a chiamarmi Elisa, e finché non si correggeva la ignoravo. Quegli esilaranti piccoli cloni della Sirenetta che uscivano dalla mia penna, dicevo, avevano sempre una curva del seno che sporgeva addirittura più delle già prominenti fronti e, che stessero andando a un ballo o a fare una gita in montagna, erano invariabilmente in bilico su tacchi altissimi: il piede, piatto e orizzontale, era sospeso su una lineetta verticale che intersecava quella del suolo – tipica, quella sì, delle rappresentazioni infantili che non hanno ancora compreso la prospettiva.
Mi ricordo ancora distintamente la sensazione di stupore e vergogna che provai quando i miei mi raccontarono del colloquio. Per i miei disegni avevo sempre ricevuto solo lodi, mai avrei potuto sospettare che avrebbero causato problemi ai miei genitori. Non so se le maestre fossero in cerca di modelli sbagliati o di tracce d’abuso. Forse erano semplicemente curiose di vedere mia madre, che peraltro era giovane ma sicuramente non una donna che facesse grande affidamento sul suo aspetto. Da dove venisse questa ipersessualizzazione dei miei disegni andava cercato altrove, e col senno di poi penso di saperlo molto bene: veniva dai cartoni Disney (penso appunto alla Sirenetta ma anche a Jasmine di Aladdin – qualcuno ricorderà la scena della sua seduzione di Jafar), dalle riviste che compravano i miei (in primis Panorama, quando ancora non aveva sostituito alle copertine porno quelle dedicate a Tangentopoli) e da Non è la Rai. Ero una bambina sensibile, mi dicevano sempre. Sensibile allo Zeitgeist, aggiungerei ora. I miei ne erano sempre stati orgogliosi, e giovani com’erano mi trattavano spesso come un’adulta a mia volta. Venivo interpellata su argomenti che chiaramente non mi potevano competere. Quello fu un caso analogo: tornati dal colloquio mi riferirono le preoccupazioni delle maestre e mi chiesero cosa ne pensassi. Non so come argomentai, ma non posso dimenticare la vergogna che provai. Mi sentivo come se in qualche modo mi avessero scoperta, avessero scoperto che non erano dei disegni «innocenti». Perché di fatto non lo erano: una parte di me sapeva, intuiva, collegava confusamente quelle caratteristiche al sesso, a qualcosa che non conoscevo ma che in qualche modo mi attraeva, mi affascinava, mi parlava di una potenza e di una forza che associavo soprattutto al corpo femminile. Se lo sviluppo dell’individuo ripercorre le tappe dell’evoluzione della specie, e per estensione della sua storia culturale, quelle buffe bimbo che disegnavo allora erano le mie personali veneri di Willendorf, aggiornate agli anni Novanta. Come delle novelle dee della fertilità, le protagoniste delle avventure banali o rocambolesche che ideavo, nelle mie intenzioni erano sempre non soltanto volitive, brillanti, indipendenti. Erano soprattutto bellissime. L’ammirazione che i miei genitori avevano sempre dimostrato di fronte alla mia opera non mi aveva mai fatto sospettare che potesse esserci qualcosa di strano o sbagliato in questo. Ma adesso non è il momento per parlare di quanti traumi anche una forma di censura o repressione blanda come questa, che pure fu sicuramente attuata in buona fede, possa creare. Concentriamoci sull’ambivalenza di questo modello femminile che avevo ricevuto.
Nel momento in cui scrivo gira in rete un video della campagna elettorale di Cynthia Nixon, ex attrice di Sex and the City in lizza per diventare sindaco di New York, intitolato «Be a Lady, They Said» («Sii una signora, dicevano»). Mentre scorrono immagini femminili tratte da film, moda e attualità, Nixon recita un testo dell’attivista Camille Rainvillee che elenca i messaggi contraddittori che vengono di continuo rivolti alle donne, riassumibili principalmente in «sii sexy, ma non fare la troia» e «mangia, ma dimagrisci». Il tutto montato in modo rapido, da pugno nello stomaco, pur riproponendo immagini che conosciamo a memoria, con musica che ricorda «I don’t care» delle Icona Pop, duo svedese che con quella hit divenne qualche estate fa una specie di baluardo del femminismo girly, cool ed empowered. Il video è una specie di slogan insomma, non particolarmente originale ma indubbiamente progressista. L’avrei archiviato con lo spirito con cui di solito processo il femminismo in stile Freeda. Freeda è, come recita la mission aziendale, «il primo media italiano di nuova generazione che si rivolge a un pubblico di donne millennial», nato nel 2017 e fondato tra gli altri da Andrea Scotti Calderini, ex direttore della divisione branded content di Publitalia. Un fenomeno dubbio ma non necessariamente deleterio, che ha senso criticare ma che ha anche dei risvolti tutto sommato positivi per il suo messaggio educativo che finalmente diventa mainstream. Lo stesso si potrebbe dire del video di Cynthia Nixon. C’è un momento in quel video però che mi ha colpito particolarmente. Mentre la voce di Nixon pronuncia il verso «men don’t like sluts» («agli uomini non piacciono le troie») si vede la scena diventata virale nell’inizio del 2020 del Papa che schiaffeggia la mano della fedele troppo insistente a piazza San Pietro. Un’immagine che non avevo mai interpretato sotto il segno della misoginia. Mi sbagliavo? Forse. Eppure la storia dei media occidentali è piena di immagini che rappresentano la violenza sulle donne, perché prendere questa? Un’immagine che non parla di niente e allo stesso tempo parla di moltissime cose, che riassume il senso per il nonsense dell’era post-internettiana, viene letta come caso eclatante di violenza sulle donne. La donna in questo video è vittima non solo delle punizioni dell’intera Chiesa cattolica, bensì di tutte queste contraddittorie prescrizioni. E questo semplicemente per il fatto che a schiaffeggiare è un uomo, e a ricevere lo schiaffo è una donna. Usata in questo modo, questa immagine è un buon esempio di come la retorica della donna vittima faccia esattamente la stessa cosa di cui accusa le istituzioni e il sistema che intende criticare, e cioè essenzializzare i ruoli maschile e femminile. La persona che viene schiaffeggiata non è un fan preso dall’isteria per l’incontro col suo idolo, è essenzialmente, primariamente e semplicemente una donna.
Quell’uomo invece è il Papa, mica uno qualunque: è il simbolo di tutta l’oppressione che le religioni hanno esercitato sulle donne, e allo stesso tempo è Papa Francesco I, un esempio morale, che quindi scandalizza doppiamente se si lascia andare a un moto di stizza. Del resto, le scuse di Bergoglio avevano evidenziato proprio questo: aveva detto di aver dato un cattivo esempio, perché, in sostanza, «le donne non si toccano neanche con un fiore». Insomma questa lettura prendeva sul serio la versione di colui che nello stesso video viene rappresentato come un perpetratore. Ma soprattutto questa lettura reitera un altro gigantesco problema del modo in cui concettualizziamo il genere: nel nostro sistema culturale, il maschile è neutro. Connotare al femminile invece vuol dire specificare, vuol dire aggiungere una qualifica. Non accade lo stesso in questa immagine usata in questo video? L’uomo è il Papa, mentre la donna «vittima» del suo schiaffetto infastidito è una sineddoche: non è una persona, incidentalmente di genere femminile, in preda all’isteria (uso apposta, di nuovo, questo termine controverso), è tutte le donne. Tutte dovremmo sentirci oltraggiate: è questo il senso del video. Non aver colto il significato «nascosto in piena vista» di violenza di genere insito nel gesto, come stranamente mi fanno notare sia Bergoglio nelle sue scuse sia il team di creativi della campagna di Nixon, mi rende un po’ stupida. Forse addirittura, in quanto donna, una cattiva femminista.
Quando, ormai quasi dieci anni fa, mi ero appena trasferita a Berlino per studiare, fui invitata a una festa in una casa condivisa abitata solo da lesbiche (era un prerequisito per abitarvi, mi dissero). Fu lì che, nel bagno, vidi per la prima volta degli adesivi che poi avrei riconosciuto per le strade per almeno un paio d’anni: SEXISTISCHE KACKSCHEISSE («merda sessista») tuonavano in fucsia su sfondo nero, e li avrei presto visti apposti, magari a censurare gli attributi sessuali, sulle pubblicità che presentavano corpi di donne (anche su quelli della fiera del porno Venus Berlin, davanti alla quale hanno manifestato a torso nudo le Femen quest’anno). Mi stupiva, e forse mi infastidiva, confesso, che pure in ambienti così radicali si ricorresse alla censura. Mi sembrava che il messaggio stridesse con il medium. Quegli adesivi così aggressivi mi piacevano, ma mi atterriva il loro utilizzo. Perché, mi chiedevo, li trovavo sempre solo su corpi femminili? Negli stessi anni erano comparsi anche cartelloni giganteschi con David Beckham in slip striminziti in giro per le città. Non avevo visto nessun adesivo sul pacco di Beckham. Nel suo caso l’uso del corpo per vendere un prodotto non faceva evidentemente lo stesso effetto. Essendo lui un uomo, si tende a considerare la sua una libera scelta, criticabile magari, ma non da compatire. Soprattutto, non conoscevo nessun uomo che vedendo Beckham si sentisse offeso in quanto maschio dall’uso che costui faceva della sua immagine. Era un lusso che volevo concedermi anch’io: non dovermi necessariamente sentire coinvolta da quello che facevano altre donne, poter pensare che il fatto che una donna nuda su un cartellone servisse a vendere un prodotto non mi chiamasse in causa in quanto donna. La cosa mi veniva abbastanza naturale, confesso, nel caso dei cartelloni. Il senso di potere che collegavo all’uso del corpo e dell’immagine quando disegnavo le mie figurine ipersessualizzate evidentemente non mi aveva abbandonato. Ma era diverso quando vedevo altri tipi di oppressione.
Una sera ad esempio stavo guardando un film con Bette Davis del 1934, Schiavo d’amore. Il personaggio di Bette Davis è la tipica femme fatale che distrugge la vita del protagonista, Philip, un artista fallito e affetto da una malformazione a un piede che decide di mettersi a studiare medicina. Lei prima lo rifiuta e poi torna puntualmente a chiedergli aiuto ogniqualvolta lui sembra finalmente in procinto di dimenticarla e rifarsi una vita. Il ruolo inequivocabilmente detestabile che impersona Davis non mi turbava più di tanto, ma c’era una scena nel film che mi provocò quel senso di umiliazione e vergogna che immagino muova anche le campagne censorie di cui sto parlando: a un certo punto Philip conosce Sally, la figlia di uno dei suoi pazienti, e viene invitato a casa loro per cena. L’obiettivo evidente dei due uomini è organizzare l’unione tra i due, e Sally è chiaramente d’accordo. Ma a casa loro, Philip e il padre siedono a tavola, mentre Sally, figlia devota ed evidentemente moglie ideale, è vestita da domestica e serve loro la cena. Solo quando il padre si alza per andare a prendere il brandy è invitata a sedere al suo posto per i pochi minuti che precedono il suo ritorno. Guardando questa scena mi sono chiesta se uno spettatore maschio mio coevo avrebbe provato quello che provavo io, e cioè vergogna. Non indignazione, ma un senso di umiliazione. Mildred, il personaggio di Davis, provoca biasimo, non pena. La pena che provavo per Sally invece mi faceva vergognare, mi faceva provare quel sentimento che si prova quando ci si sente completamente passivi, privati di qualsiasi agency e di conseguenza di dignità. Quella donna non ero io, eppure mi vergognavo, ebbene sì, in quanto donna.
Perché era scattata questa identificazione, che rifiutavo a livello razionale, che ero capace di evitare quando mi discostavo dall’uso degli adesivi delle attiviste tedesche? Penso che i motivi siano principalmente due. Il primo dipende da questa connotazione implicita del femminile in un contesto secolare in cui il maschile è neutro: Philip è un uomo, è vittima del suo desiderio per Mildred, ma è un uomo in particolare, e lo dimostra il fatto che la sua disabilità abbia un ruolo centrale nella trama. Mildred e Sally invece sono due modelli di donna, e in quanto tali sono prima di tutto donne. Come diceva Simone De Beauvoir, una donna è una donna, prima di essere una persona: la parola femmina «la imprigiona nel sesso», cioè nella sua anatomia. Una donna che ne vede un’altra oggettificata, strumentalizzata o sottomessa è dunque tenuta a sentirsi umiliata anche lei, perché quella donna è in effetti (anche) lei: se la società la legge come principalmente appartenente a questa categoria, se questa sua anatomia rappresenta inesorabilmente un destino, un’identità, sarebbe ingenuo e ottuso sperare di poter semplicemente ignorare questo dato. Il secondo motivo però risiede nel fatto che il movimento femminista non ha ancora fatto abbastanza per eliminare questa inferenza.

Sebben che siamo donne

«La lega» è una famosa canzone popolare, socialista e padana, della fine dell’Ottocento, diventata presto appannaggio delle mondine. Inizia dicendo: «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo». Poi c’è un verso che dice: «La libertà non viene perché non c’è l’unione / Crumiri col padrone, son tutti da ammazzar». Nei cortei della seconda ondata femminista in Italia, che la recuperano negli anni Settanta, questo verso diventa «i maschi col padrone». Perché questa modifica? Proprio nel momento in cui la lotta di classe era diventata un tema trasversale a tutta la società, le donne avevano scoperto che, come recitava un altro slogan di quegli anni: «Nella famiglia l’uomo è borghese, la donna proletaria». Era diventato fondamentale operare una frattura con il maschile, da un lato, e dall’altro unire il fronte delle donne, identificare due fronti, due lati della barricata, e farli coincidere con due poli (maschi contro femmine).
Ho passato tanto tempo a chiedermi se il discorso di genere potesse essere mutuato da quello di classe. Il discorso del conflitto di classe è semplicistico fino al parossismo. C’è una scena raccontata in I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed che riporto dalla trasposizione cinematografica di Bondarčuk del 1983. Sono appunto i giorni della Rivoluzione d’ottobre, un intellettuale è alla stazione e incontra dei bolscevichi che vengono dalle campagne. Uno di questi sta ribadendo un concetto chiave della guerra civile in corso: «Per me, ci sono solo due classi: il proletariato e la borghesia, non c’è altro». L’intellettuale lo accusa di «ripetere a pappagallo» degli slogan senza sapere cosa significhino. «Voi siete un uomo istruito», concede il bolscevico, «io sono una persona semplice, sì insomma sono uno che parla come mangia». L’intellettuale introduce vari argomenti più «complessi», come la democrazia russa e la presenza di un altro nemico, quello nazionale (i tedeschi), ma anche quello della sua autorevolezza di intellettuale: «Non hai mai sentito parlare di me?», chiede autenticamente stupito mentre l’altro fa spallucce girandosi con calma una sigaretta. Nonostante tutti questi distinguo e sottigliezze, il bolscevico è sicuro: «La cosa è chiara. Gliel’ho detto, sono ignorante. E allora il discorso si riduce a questo: che ci sono sempre due classi. Il proletariato, e la borghesia». Mentre parla, a essere inquadrato è il reporter, Reed, interpretato da Franco Nero, che ha assistito a tutta la scena, e che nel sentire la fermezza composta e irriducibile del bolscevico alza la testa dal taccuino e sorride ammirato. «Io divento pazzo se non cambi musica!», esplode invece l’intellettuale, che si alza il bavero ed esce di scena. La macchina da presa stringe sul bolscevico, che conclude, tra sé, lo sguardo rivolto al futuro più che all’interlocutore ormai lontano: «Ci sono solo due classi, e chi sceglie di stare con una, è nemico dell’altra». L’apparente semplificazione, spiega magistralmente questa scena, è stata necessaria per la rivoluzione, per includere potenzialmente tutti, a prescindere dalla loro istruzione e dal loro potere pregresso. Se guardiamo meglio a questo dialogo, però, troviamo delle complicazioni alla tesi molto semplice del bolscevico, complicazioni molto più radicali e insieme sottili di quelle fintamente sofisticate dell’intellettuale, che nel suo discorso sulla democrazia in realtà sta infilando il nazionalismo. «Tu credi davvero che Lenin sia amico del proletariato?», chiede provocatorio al bolscevico, e non ha neanche tutti i torti, perché Lenin è non solo un intellettuale e non certo un contadino, ma soprattutto, per origine, è un borghese, proprio come lo erano anche Marx e soprattutto Engels, figlio di un magnate dell’industria tessile e imprenditore a sua volta. Il bolscevico non si scompone: «Lenin dice delle cose che a me stanno bene, e a tutti quelli come me lo stesso».
Dalla radice, dalla causa della differenza di classe, si passa a quella della formazione di una classe in vista di un obiettivo che è la società senza classi: riportare l’umanità a uno stadio di uguaglianza che si indica come ideale, a uno stato che probabilmente non è mai esistito ma che è nell’interesse di tutti. Borghesia e proletariato sono due categorie puramente sociali. Sono costruite dalla storia, dall’uomo. Non è scritto in nessun codice genetico che uno nasca borghese o proletario. L’appartenenza di classe si fonda solo nella storia dell’uomo, sullo sfruttamento di una classe sull’altra. Eliminare questa differenza non vuole dire perdere qualcosa, perché questa differenza di classe non rappresenta un valore aggiunto, una diversità che arricchisce la nostra esperienza del mondo. Eliminarla significa piuttosto ripristinare una condizione di uguaglianza che si ipotizza come necessaria al dischiudersi della libertà autentica, intesa come un proliferare di differenze. Ho usato il verbo «ripristinare», ma non occorre ritrovare questa condizione in nessun passato mitico, basta pensarla in senso spaziale più che storico o cronologico: è l’utopia, un luogo più che un tempo. Dunque, proprio perché la differenza di classe è falsa da un punto di vista ontologico, ed è vera solo contingentemente, storicamente, occorre non prenderla sul serio, superarla già nel momento della lotta, porsi cioè come utopia realizzata per contrapporsi allo status quo che si vuole sovvertire.
Cosa dire dunque delle differenze di genere? Anche in questo caso si tratta di una differenza che non esiste sul piano ontologico. Nessuno nasce maschio o femmina. La maggior parte di noi nasce ovviamente con caratteristiche anatomiche maschili o femminili, ma è il nostro sistema socioculturale che legge come determinante questa differenza e ci incasella in queste due categorie, con tutto il corredo di prescrizioni di adesione a un ruolo sociale che ben conosciamo. In questo senso anche il genere, come la classe, è un falso ontologico, quindi far coincidere la polarizzazione del conflitto di classe e quella di genere ha avuto un senso strategico, nell’obiettivo di ottenere la dittatura del proletariato «privato» (la donna, proletaria nella famiglia come dicevamo). Ma questa dittatura del femminile era intesa come uno stadio intermedio in vista dell’abolizione del genere? A guardare la corrente maggioritaria e mainstream di oggi, sembrerebbe di no. Si rivendica una differenza che non si vuole eliminare, e la si va a fondare in quello che è l’esatto opposto della differenza, ovvero l’identità, reiterando quell’appartenenza al genere che De Beauvoir indica come una gabbia.
Poi c’è un altro problema: se, come dicevamo sopra, abolire le classi non implica nessuna perdita, si può dire lo stesso della differenza di genere? Sì e no. Eliminarne il portato sociale e prescrittivo è un progetto politico determinato e condivisibile, un obiettivo minimo. Tuttavia c’è un campo in cui la differenza di genere continuerebbe a ripresentarsi, anche nel caso si riuscisse finalmente a raggiungere questo obiettivo minimo, e quello è il sesso. Non certo perché la differenza (e in particolare il binarismo) sia naturale o ontologicamente fondata. Anzi, deve essere molto chiaro che parlare di differenza di genere ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. / Introduzione
  4. 1 / Il secondo sesso
  5. 2 / Manuale per ragazze di successo
  6. 3 / Critica della vittima
  7. 4 / Il nostro desiderio è senza nome
  8. / Conclusione
  9. Fonti
  10. Ringraziamenti