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Come Hitchcock insegnò all'America ad amare l'omicidio

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Come Hitchcock insegnò all'America ad amare l'omicidio

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Fu realizzato come un film per la tv e completato in meno di tre mesi. L'attrice protagonista veniva uccisa dopo soli quaranta minuti. Non c'era alcun lieto fine. E offriva agli spettatori la scena più violenta che fosse mai stata inclusa in un film americano, accompagnata da un agghiacciante stridio di violini. Non c'era mai stato niente di paragonabile a Psycho, e dopo la sua uscita nelle sale l'industria cinematografica non sarebbe stata più la stessa. In questo saggio breve e illuminante, David Thomson colloca Psycho all'interno della carriera di Hitchcock, illustra il suo impatto sulla psiche collettiva e dimostra come questo film rivoluzionario abbia modificato profondamente la rappresentazione del sesso, della violenza e dell'orrore nel cinema. E abbia alterato, forse, la natura stessa dei nostri desideri e del nostro ruolo di spettatori.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833892290

1
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1960

La sala cinematografica ci aveva sempre incoraggiato a credere che fossimo al sicuro, racchiusi al caldo nella sua penombra. È un posto confortevole e confortante, al modico prezzo di un nichelino... o dodici dollari e mezzo. Entrate e troverete sollievo dall’afa, o dal freddo. Entrate e dimenticate i vostri dispiaceri e tutti i guai del mondo. La nostra sala ha un rifugio antiaereo privato. Fate una pausa dopo una lunga giornata alla guida. Il cinema è un accogliente motel con biancheria pulita e doccia calda.
Fino a che punto la gente credeva a questa promessa? L’invito era ambiguo: sì, potevamo vedere donne che si spogliavano e uomini che sparavano come se le munizioni non finissero mai. Ma solo perché non eravamo lì, nel «lì» dello schermo. Eravamo voyeur, non potevamo essere colpiti dai proiettili, ma nemmeno toccare le donne. Eppure c’era anche il brivido del rischio: la sensazione di non poter fuggire, di essere intrappolati tra le file gremite di gente seduta. E se la lampada del proiettore mandasse a fuoco tutto l’edificio? (In effetti la pellicola si incendiava molto facilmente ai primi tempi.) E se le situazioni «controllate» e censurate che vediamo sullo schermo cedessero all’improvviso il posto a orge e massacri? (Che orrore! Che delizia!) E se la locomotiva uscisse dallo schermo e ci venisse addosso? E se il coltello che abbiamo davanti agli occhi cominciasse a brillare e prendere corpo nella nostra mano e ci ritrovassimo a colpire, colpire, colpire?
Fin dall’inizio, Psycho giocava con questi scenari e altri ancora più oscuri. C’era la sensazione che sarebbe stato di gran lunga il film meglio realizzato della storia, se si pensava ai film come a treni fantasma, sogni o esperimenti di suspense. Chiunque capisse qualcosa di film si accorse immediatamente che Psycho non aveva solo cambiato «il cinema», ma anche svelato l’osceno segreto: il mezzo cinematografico era pronto a una ribellione oltraggiosa in cui il sesso e la violenza non erano più soltanto giochi, erano i protagonisti. Psycho era così sfacciato che il pubblico doveva riderne per non farsi affascinare dal brivido della malvagità. Il titolo avvertiva che il personaggio principale era un po’ matto, ma il punto era che anche il pubblico, nel suo esperimento autoinflitto con il pericolo, avrebbe potuto esserlo. Il sesso e la violenza erano pronti a esplodere, e la censura si accartocciò come l’ombrellino da sole di una vecchia signora. L’orgia era arrivata.
Alla fine degli anni Cinquanta Hollywood non era poi così diversa rispetto ai vecchi tempi. Erano usciti Sentieri selvaggi, Rio Bravo e Dove la terra scotta, tre dei migliori western di sempre. Aveva prodotto Ben-Hur, Gigi, Il gigante e Il giro del mondo in 80 giorni, grandiosi spettacoli senza limiti quanto a budget e ambizioni ma molto deludenti quanto a immaginazione. C’erano musical (Il re ed io, Alta società, South Pacific), kolossal biblici (I dieci comandamenti) e storie edificanti di umanità e sacrificio (Il diario di Anna Frank, La parete di fango). La maggior parte aveva il lieto fine; anche quando Anna Frank moriva venivamo subito tranquillizzati: i suoi nemici sarebbero stati sconfitti e la virtù di Anna era una fiamma eterna. In disparte, certo, c’era qualche sguardo indipendente, film su un’America più profonda, in cui regnavano paura e disordine – Un bacio e una pistola, Dietro lo specchio, La morte corre sul fiume, Piombo rovente, A qualcuno piace caldo – barlumi di una società reale ma allarmante (la maggior parte erano ancora in bianco e nero perché era considerato più «grezzo»). Ma non erano questi i film che Holly­wood considerava importanti.
I suoi fondatori stavano man mano morendo. Quelli rimasti continuavano a ripetersi che il cinema non era mai stato migliore, ed erano convinti di essere ancora al timone. Ma si trattava di uomini anziani che non capivano quanto velocemente stesse cambiando il gusto del pubblico. C’erano già scaltri osservatori consapevoli che il momento di gloria – l’epoca d’oro, il matrimonio senza riserve tra Hollywood e l’America – era finito. A tratti sembrava che i nuovi film frammentati volessero rivelare proprio gli oscuri postumi di quell’età dorata, gli «angeli anneriti», per citare un altro film dell’epoca.1
Nel 1958, per la prima volta dall’inizio degli anni Quaranta, gli incassi dei cinema americani scesero sotto il miliardo di dollari annuo. Nello stesso anno l’affluenza media settimanale crollò a trentacinque milioni di spettatori; nel 1946 era di ottantasei milioni. Un altro dato statistico aiuta a spiegare questo declino. Negli anni Cinquanta il numero di famiglie americane che possedeva un televisore salì da quattro milioni a quarantotto. Non era in discussione la passione dell’America, o del mondo, per le storie raccontate su schermo. Solo che guardarle a casa era più facile, economico e naturale. Per quanto Holly­wood si sforzasse di fare film grandiosi e spettacolari, il pubblico sceglieva la versione in piccolo. Una delle menti più brillanti in città se ne accorse, e alla metà degli anni Cinquanta aggiunse alla sua produzione filmica una nuova serie tv. Ne uscì cambiato più di quanto potesse immaginare.
Quando Alfred Hitchcock compì sessant’anni, il 13 agosto 1959, era già il regista più famoso d’America. Il pubblico adorava i suoi film: negli anni Cinquanta L’altro uomo, Il delitto perfetto, La finestra sul cortile, Caccia al ladro, L’uomo che sapeva troppo e Intrigo internazionale erano stati tutti grandi successi, storie di suspense farcite con la crema nera dello humour di Hitchcock. Altri film (Io confesso, Il ladro, La congiura degli innocenti e Vertigo – La donna che visse due volte) avevano avuto un’accoglienza più tiepida. Resta il fatto che negli anni Cinquanta Hitchcock aveva diretto film straordinari, e in Francia, per esempio, era ampiamente riconosciuto come grande artista. Due critici cinematografici che sarebbero poi diventati registi, Claude Chabrol ed Éric Rohmer, nel 1957 avevano scritto un libro su di lui. Un libro su un regista! Era una grande novità. Negli anni Cinquanta il cinema era ancora identificato con l’intrattenimento puro, e nessuno pensava di scriverci dei libri.
La straordinaria reputazione di Hitchcock non era dovuta solo alla suspense e al giallo ma al modo arguto e malizioso con cui giocava con la responsabilità morale. Sapeva come imporsi o pubblicizzarsi. Aveva preso l’abitudine di comparire nei suoi film – piccoli camei, a volte di una sola inquadratura – un’abitudine che era diventata famosa se non altro perché Hitchcock, paffuto, dignitoso e flemmatico, strideva con la frenetica azione che caratterizzava i suoi film. (È difficile immaginarsi Hitch in Intrigo internazionale che corre con Cary Grant nel campo di mais mentre l’aereo agricolo cerca di travolgerlo. Né ci si può figurare Hitch che abbraccia tutte quelle bellissime donne spingendosi qualche centimetro oltre – e i centimetri contano – rispetto a quanto avrebbe voluto la censura.)
Ma negli anni Cinquanta l’apprezzamento del pubblico per Hitchcock crebbe a dismisura grazie alla sua nuova serie tv, Alfred Hitchcock presenta. Venne mandata in onda per la prima volta nell’autunno del 1955 e sarebbe andata avanti per dieci anni. Era un’antologia di racconti gialli, spesso scritti e diretti molto bene. Hitchcock si occupò anche della regia di alcuni episodi, e faceva due brevi apparizioni in ogni puntata, piccoli siparietti di apertura e chiusura in cui spiccavano il suo caratteristico eloquio flemmatico e il suo humour distaccato e formale. C’era un contrasto interessante tra il macabro materiale e l’elegante presentazione, e Hitch (con in sottofondo la lugubre «Marcia funebre per una marionetta» di Gounod) diventò per tutti il buffo ometto che amava spaventare i telespettatori. La campagna pubblicitaria di Psycho sfruttò abilmente il format, ponendo l’accento sul fatto che il regista era Hitchcock. Gli episodi venivano girati negli studi della Revue, la società di produzione messa in piedi da Lew Wasserman, l’agente principale di Hitchcock.
Hitchcock prendeva il cinema – inteso come mestiere, come arte, o mezzo di controllo dell’informazione – molto seriamente. Non c’era niente che avesse più a cuore. Voleva suscitare emozioni forti nel suo pubblico, ma non avrebbe saputo dire quali. Quindi decise per la paura, il terrore. E il terrore, prima o poi, vuole prendere il potere. Hitchcock manteneva un tono moderato quando parlava del suo lavoro, perché sapeva che certi discorsi non erano ben visti nell’industria del cinema. Quando aveva cominciato, negli anni Venti, era stato spesso accusato di essere troppo «artistico». Ma negli anni Cinquanta era molto compiaciuto nel vedere quanto lo prendessero sul serio i giovani scrittori francesi perché, a un livello represso, coltivava ambizioni creative enormi. In film come L’altro uomo, La finestra sul cortile e Vertigo aveva quindi indagato la questione della responsabilità morale nel voyeurismo e, più in generale, del perché le persone «perbene» fossero così interessate ad assistere a crimini, sesso e violenza da una posizione di apparente sicurezza e immunità.
Alla fine della Finestra sul cortile, quando James Stewart, a forza di spiare, capisce che un uomo nel condominio da lui sorvegliato ha ucciso la moglie, quello stesso uomo si presenta alla sua porta. Ci aspettiamo il pericolo, la minaccia. Invece l’uomo chiede: «Cosa vuoi da me?» E Hitchcock era certamente curioso di sapere cosa volessero i personaggi «buoni» dei suoi film, e il loro pubblico. È ancora valido oggi chiederselo? Non solo a cosa servano i film, ma a cosa serviamo noi?
Oltretutto è chiaro, con il senno di poi, che Hitchcock era personalmente coinvolto in quel voyeurismo e nelle sue conseguenze. Era sempre stato obeso, sin da piccolo. Aveva sposato una sua bravissima assistente, Alma. Avevano una figlia, Patricia. La sua vita sembrava appagante. Ma in segreto Hitchcock era solito innamorarsi delle sue attrici, e far parlare il film proprio di queste infatuazioni – per Joan Fontaine, per Ingrid Bergman, Grace Kelly, Kim Novak, Eva Marie Saint. Non è solo gossip o speculazione. I suoi film degli anni Cinquanta (i migliori) sono pervasi del desiderio e del senso di colpa suscitati dalla vista di una figura amata sotto pressione. In Psycho un’altra di queste donne – Janet Leigh – viene studiata senza rimorso per quaranta minuti e poi fatta a pezzi.
Hitch era un uomo di successo. I suoi incassi avevano avuto un brutto periodo alla fine degli anni Quaranta (Nodo alla gola, Il peccato di Lady Considine, Paura in palcoscenico), ma la maggior parte dei film erano andati bene. Figlio di un fruttivendolo di Londra Est, una figura di infimo rango nella classista società britannica, ora viveva a Beverly Hills circondato da un lusso raffinato (e con una casa a Santa Cruz per i weekend. Ma non aveva mai vinto un Oscar per la regia, e non lo vinse mai. Il suo primo film americano, Rebecca – la prima moglie, aveva vinto quello per il miglior film, assegnato quindi al produttore David O. Selznick, che Hitchcock detestava. Hitch aveva ottenuto la nomination per Rebecca, come l’avrebbe poi ottenuta per Prigionieri dell’oceano e La finestra sul cortile. Qualcuno degli attori che lavoravano con lui lo vinse (la Fontaine per Il sospetto), ma perfino quello succedeva di rado. E per Notorious, L’altro uomo, Vertigo o Intrigo internazionale Hitch non fu nemmeno nominato. Perché? La risposta semplice è che la sua ricerca della suspense e della violenza era ritenuta un vezzo ironico, che mancava di peso e serietà. L’Academy non ha mai avuto un gran senso dell’umorismo, e molti erano dell’opinione che Hitchcock non trattasse la materia col dovuto rispetto. E l’Academy non era la sola ad avere questo atteggiamento. Hitchcock non ricevette mai nessun premio né dalla Directors Guild né dai BAFTA (i premi britannici) e soltanto una volta ricevette un premio dal New York Film Critics Circle, nel 1938 per La signora scompare. Con il tempo alcune di queste organizzazioni tornarono sui propri passi: l’Academy conferì a Hitchcock il Thalberg Award nel 1967, e l’American Film Institute lo onorò con il premio alla carriera, nel 1979. Ma l’Academy non lo premiò mai con un Oscar alla carriera, una cortesia che riservò invece a tanti altri (Chaplin, Griffith, Welles, Renoir, Lubitsch, Hawks, Keaton) per farsi perdonare tutte le opportunità perdute nel corso degli anni.
È logico dedurre che Hitchcock si sia sentito ferito o offeso; ciò che meraviglia è come sia stato possibile commettere un simile errore. Nessuno metteva in discussione la sua abilità tecnica, di intrattenitore o di maestro della suspense. Ma il pubblico e l’Academy non tennero conto del suo humour, o comunque non lo interpretarono mai come parte integrante del suo approccio serio al cinema. Forse c’entrava qualcosa anche l’autocompiacimento che molti percepivano in lui, e il fatto che fosse un inglese che, dopo aver evitato la guerra, aveva imparato a farsi strada a Hollywood meglio di moltissimi americani.
Il suo tono a metà strada tra il sardonico e il minaccioso (lo stesso presente nelle opere di Harold Pinter, un altro artista di umili origini che veniva da Londra Est) venne messo alla prova negli anni attorno al 1960. E la prova si basava sulla differenza tra l’accoglienza riservata a Hitch in Francia e nei paesi anglofoni. Per Hitchcock fu un’esperienza cruciale andare in Costa Azzurra per girare Caccia al ladro nel 1954, perché fu proprio in quel periodo che venne avvicinato da giovani critici francesi – François Truffaut, Jacques Rivette e Jean-Luc Godard. Lo intervistarono per i Cahiers du Cinema e gli dedicarono un intero numero della rivista, quello di ottobre del 1954. Gli dissero quanto era grande. E più avanti, alla fine degli anni Cinquanta, dimostrarono la veridicità di quel complimento diventando loro stessi importanti registi. Fu al Festival di Cannes del maggio 1959 (pochi mesi prima che iniziasse la lavorazione di Psycho) che François Truffaut – il fan più sfegatato di Hitchcock in Francia – vinse il premio al miglior regista per il suo primo film, I 400 colpi.
L’ammirazione dei francesi non contava granché agli occhi di Hollywood, o perlomeno non ancora. I Cahiers du Cinema non vendevano molto. I film di Truffaut e Godard venivano proiettati in piccoli cinema d’essai. Poi negli anni Sessanta le idee francesi sul cinema vennero assorbite in America, quando la cinematografia fece il suo ingresso nel sistema di istruzione superiore americano. Nell’arco di dieci anni una materia che prima veniva insegnata, con parsimonia, in una manciata di posti, diventò un corso di laurea di primo livello. In altre parole, i film non erano più proprietà esclusiva dell’industria che li aveva creati.
E fu quella stessa generazione, dotata di pillola anticoncezionale e di un nuovo approccio al sesso, che cominciò a insidiare la censura. Psycho è arrivato in anticipo su quei cambiamenti, ma in realtà è arrivato in anticipo su tutto: non dobbiamo scordarci che indugiava senza remore su sesso (nudità esplicita) e violenza (quel famoso coltello) e sfidava apertamente la censura. Molta gente condannò quell’audacia; alcuni pensavano fosse di cattivo gusto. Ma Hitchcock superò con un balzo tutto quel pudore e decise che il pubblico era pronto. Psycho fu proiettato in sale di primo piano, guadagnò una fortuna, e tutta una generazione di giovani che ricercava quella modernità nel cinema iniziò a parlarne molto presto come di una brillante «opera d’arte». Nessuno aveva coltivato con più dedizione di Alfred Hitchcock l’idea che il cinema potesse essere considerato arte.
Il regista sessantenne aveva quindi deciso di dimostrare la sua superiorità. Non voglio dire che fosse torturato dal risentimento, anche se la tiepida accoglienza riservata a Vertigo lo aveva sicuramente ferito. Hitch aveva una profonda comprensione delle proprie opere – si potrebbe anzi dire che forse erano fin troppo architettate – e sapeva bene che in Vertigo aveva reso un ritratto estremamente tormentato di registi e attrici. Non era poi così diverso da una confessione, anche se l’avevano capito in pochi. La grandezza del film non era stata colta, e la suspense narrativa non aveva ottenuto i risultati sperati al botteghino. Forse Hitch era del parere che Kim Novak non fosse stata una sostituta adeguata per Vera Miles (l’attrice che avrebbe voluto per il ruolo di protagonista) o per la regale Grace Kelly.
Come la maggior parte del pubblico, Hitch ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. 1 / 1960
  4. 2 / Continuità
  5. 3 / Servizio in camera
  6. 4 / Faccende domestiche
  7. 5 / Hitch... cock
  8. 6 / Altri corpi nella palude
  9. 7 / Una società noir
  10. 8 / Persone sole
  11. 9 / Verso Fairvale
  12. Credits