1. Framing: la resistenza alla crisi degli intermediatori culturali
1.1. il monopolio della bolla nei media tradizionali: infotainment, framing, agenda setting
Nell’immaginario collettivo l’ultimo grande esempio di giornalismo d’inchiesta risale al 1972, con l’indagine condotta da Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post sullo scandalo del Watergate, che portò alle dimissioni del Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.
In realtà furono molte le inchieste di qualità condotte in ambito giornalistico anche negli anni successivi, fino ai giorni nostri. Da noi, basti ricordare quella di Andrea Purgatori del Corriere della Sera sulla Strage di Ustica.
Il punto non è se sia o meno sparito, negli ultimi anni, il giornalismo d’inchiesta o più in generale il giornalismo di qualità. Semmai la chiave è capire se sia ancora il giornalismo di qualità a ripagare l’industria dell’informazione. Il sospetto sempre più forte è che l’ottimo lavoro di alcuni professionisti, sia nelle redazioni sia come freelance, sia poco più che una “foglia di fico”, non esattamente al cuore della fonte dei ricavi. È del tutto legittimo, e persino auspicabile, raccontare queste belle storie di informazione ai molti festival sul giornalismo che affollano il calendario. Ma è fuorviante esibirle, come a volte accade, per distogliere lo sguardo da ciò che veramente funziona, in termini economici: il modello dell’infotainment che garantisce il presidio dell’attenzione, unica vera risorsa scarsa per l’industria.
Tornando al Watergate, per gli standard odierni potremmo considerarla per certi versi una vicenda, almeno inizialmente, abbastanza noiosa. Il tutto però avveniva nell’ambito di un giornalismo che, come principale fattore competitivo, puntava ancora sulla qualità. Ci si contendevano ancora i lettori prima degli inserzionisti, quindi l’idea stessa che l’esito dell’indagine potesse condurre a conseguenze decisive per la società democratica spingeva sia l’editore sia i lettori, in una sorta di patto di fiducia, a portarla avanti fino in fondo. Quella scommessa fu vinta, il Washington Post guadagnò una immensa rendita di prestigio e con essa milioni di nuovi lettori.
Da allora in poi le cose cambiarono, e di parecchio. I giornali iniziarono a subire una concorrenza sempre più spietata dalla televisione, che contava su un modello di ricavi molto diverso: il telespettatore non pagava più direttamente il contenuto, doveva solo sopportare le interruzioni pubblicitarie. A lungo le redazioni dei grandi telegiornali della CBS, ABC e NBC cercarono di far convivere il buon giornalismo con il modello commerciale. A loro volta, i grandi quotidiani provarono a continuare a fornire strumenti alle persone per farsi un’idea. Ma durò poco.
In un film del 1976, “Quinto Potere”, Sydney Lumet ci mise in guardia sul rischio di una deriva completamente governata dagli ascolti: presto avremmo desiderato (e ottenuto) solo verità preconfezionate che cavalcassero le nostre opinioni disinformate. E a un certo punto non avremmo più nemmeno voluto un conduttore che ci informasse, ma qualcuno che solleticasse la nostra rabbia.
A distanza di alcuni decenni possiamo dire che la realtà ha ampiamente superato la fiction. In Italia, l’apparizione delle reti televisive commerciali è stata sufficiente per reimpostare l’intero business dell’informazione su fondamenta etiche ancora più degradate. Oltreoceano, invece, ci si arrivò principalmente attraverso due processi paralleli. Da un lato, la nascita di potenti conglomerati dell’informazione, dove i più rispettabili quotidiani vennero trascinati all’interno di grandi gruppi editoriali largamente governati dalle logiche e dai linguaggi televisivi. Dall’altro, le innovazioni tecnologiche: il satellite, con l’imporsi di canali televisivi all news e di miriadi di talk radio pre-orientate sulle opinioni di precisi cluster di ascoltatori, mal presidiati dai network precedenti. Campione assoluto di questo nuovo trend fu il nascente canale Fox News, il primo a dover autoproclamare la correttezza e l’equilibrio del proprio racconto con un claim, “fair and balanced”, che suona molto come una ammissione di colpevolezza.
Il colpo di grazia definitivo giunse però all’alba del nuovo millennio, con l’avvento dell’editoria online e dei grandi player Over-the-Top come Facebook e Amazon. I quali, lungi dal rivoluzionare il modello economico ed esplorare le nuove opportunità digitali, si limitarono ad adeguare il vecchio modello alle nuove tecnologie. Rivelando l’approccio molto più predatorio che sinceramente innovativo, Amazon si spinse fino a fare un sol boccone del Washington Post. A questo proposito, è curioso notare che mentre la transizione digitale ha portato negli USA a consolidare aggregazioni guidate da soggetti nuovi (è Comcast, per esempio, ad acquisire NBC, Vivendi e Universal Pictures), da noi si assiste al processo opposto: è Mondadori a comprare Banzai e FanPage, è RCS a comprare YouReporter, e così via. Ciò testimonia la “specialità” del caso italiano nel rapporto di forza tra vecchi e nuovi padroni dell’industria dei media.
Ma al di là della (presunta) evoluzione del modello di business, cerchiamo di capire meglio cosa tutto questo abbia significato dal punto di vista strettamente culturale.
Anzitutto credo si possa dire, con ragionevole certezza, che in nessuno di questi passaggi si sia verificata alcuna “rivoluzione” dei processi informativi. Non viviamo affatto, per intenderci, in una nuova repubblica del citizen journalism. A ben vedere, infatti, la manifestazione più visibile di questo fenomeno si nota quando i media ufficiali, senza quasi mai chiedere il permesso e citare la fonte, saccheggiano i nostri video e le nostre foto amatoriali, che però hanno il merito di mostrare notizie da luoghi dove i loro corrispondenti non arrivano più. Un esempio-spartiacque a questo proposito furono i primi video del grande tsunami che colpì l’estremo oriente nel 2004. Nonostante le molte iniziative allora attive per una distribuzione organizzata di quei contenuti indipendenti, da Current TV a IndyMedia, non ci volle molto per capire che la nuova skill richiesta alle redazioni dei media ufficiali sarebbe stata quello di impadronirsi e riutilizzare per prime, e quindi monetizzare, questa crescente massa di contenuti dal basso, proveniente da un piccolo esercito di ignari e capillari microcorrispondenti usa-e-getta. Parallelamente, e c’è dell’ironia in tutto questo, le stesse testate ufficiali, infastidite dalla crescente pratica dello screenshot non autorizzato dei loro articoli sui social media, iniziarono ad accompagnare i loro contenuti con la velleitaria dicitura “riproduzione riservata”.
Una volta compreso che i contributi spontanei degli utenti non avrebbero affatto rappresentato una minaccia, ma anzi, come abbiamo visto, una pratica opportunità, iniziò a farsi strada nell’industria dei media un altro timore molto più concreto. A spaventare non furono più i contenuti generati dagli utenti, che in fondo hanno sempre fatto il loro gioco, rivelando quasi sempre la loro inadeguatezza e mancanza di autorialità. Ciò che adesso terrorizza giornali e televisioni è la prospettiva sempre più reale che grazie a internet qualcuno, al posto loro, possa stabilire cosa è rilevante e cosa no; cosa è una notizia, cosa no; cosa merita di piantare la tenda oltre la linea rossa della celebrità, anche momentaneamente, e cosa no.
La rappresentazione plastica di questo nuovo terrore è un altro prodotto recente dell’industria, i talent show: vagonate di milioni spesi non per creare nuovi contenuti, ma per dimostrare chi ancora, faticosamente, tiene i cordoni dell’arena. Con il pubblico inconsapevolmente complice, e ammansito dall’idea che forse, tutto sommato, l’opportunità di un momento di celebrità, come diceva Warhol, potrebbe spettare a ciascuno di noi.
Il miglior alleato dell’industria, in questo caso, è proprio la sua vittima, e cioè il pubblico. I telespettatori (ma anche i lettori e i radioascoltatori, che l’industria considera varianti appena più sofisticate) rimangono inchiodati nell’incapacità di immaginare un cambio di paradigma: quello per cui ciò che sarebbe davvero rivoluzionario non è “avere finalmente una chance di essere considerati rilevanti”, ma “pretendere di poter stabilire chi e cosa è rilevante, e in che modo e con quali criteri qualcosa diventa rilevante”. Purtroppo, oggi, questo non ha niente a che vedere, come qualcuno prova ancora a farci credere, con un ipotetico X-factor. L’unico reale criterio di rilevanza è qualcosa di molto più triste e banale: la capacità di presidiare l’attenzione, e quindi, in ultima istanza, di vendere prodotti come il riso senza lattosio.
Si potrebbero fare molti esempi su quanto e perché sia culturalmente difficile, per ciascuno di noi, utilizzare la rete, una infrastruttura a due vie, per invertire questo rapporto di forza. Reagiamo in modo inconscio, come con un riflesso condizionato al principio indiscusso per cui sono altri a stabilire la rilevanza mediatica, costruire palcoscenici e tracciare la linea rossa della celebrità. Aspettiamo che qualcuno accenda i riflettori, e inv...