Massimo Baldacci
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
Premessa
Del complesso fenomeno sociale e culturale che è stato il Sessantotto (in realtà, più che un evento un processo che da noi si prolungherà fino al 1977) vogliamo qui accennare al suo versante pedagogico, alla sua capacità di generare un nuovo pensiero sull’educazione e/o comunque di influenzare la riflessione sulla problematica formativa. Pertanto, ci limiteremo a ricordare rapidamente alcuni presupposti culturali e materiali della genesi di questo movimento e alcuni suoi caratteri fondamentali, per poi esaminare i suoi risvolti pedagogici, anche essi di natura transnazionale, ma che hanno trovato nel nostro Paese alcuni sviluppi altamente significativi.
1. Presupposti e caratteri del movimento
I presupposti del movimento del Sessantotto sono di ordine sia materiale, sia politico, sia culturale.
Tra i presupposti materiali si devono indicare le contraddizioni che accompagnarono lo sviluppo socio-economico del secondo dopoguerra. Uno sviluppo impetuoso che, muovendo dall’America, interessò tutto l’Occidente, e che nella seconda metà degli anni Cinquanta investì anche l’Italia, dove – sebbene tardivo – assunse un carattere particolarmente rapido e disordinato (il cosiddetto Miracolo economico). Questo sviluppo trascinava un’espansione dei consumi, che interessava anche quelli culturali (con l’affermazione dell’industria culturale e della cultura di massa), e innescò così celeri cambiamenti nei costumi e nelle aspirazioni. Tuttavia, tale sviluppo rimaneva compresso nelle forme dei rapporti sociali tradizionali, di natura gerarchica e permeati di ideologie autoritarie e conformiste, che erano in conflitto con le nascenti aspirazioni dei giovani. A ciò si aggiungeva l’incapacità da parte delle forze politiche, sia di governo che di opposizione, di cogliere queste nuove esigenze di cambiamento.
Agli occhi dei giovani, le forze al potere apparivano inoltre compromesse con una politica imperialista che la resistenza dei Paesi del terzo mondo svelava in tutta la sua arbitrarietà e violenza: dalla guerra di liberazione algerina alla rivoluzione cubana, alla guerra del Vietnam. L’America e l’Occidente apparivano come l’oppressore, il moloch capitalista che calpestava la libertà dei popoli.
Queste inquietudini esistenziali e politiche assumevano una forma culturale consapevole nel rapporto con gli orientamenti filosofico-ideologici che caratterizzavano la ricca e complessa elaborazione degli anni Sessanta, soprattutto nell’area del pensiero marxista. Dal giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, col tema dell’ alienazione; agli scritti di Marcuse ( L’uomo a una dimensione); al pensiero di Mao e alla rivoluzione culturale cinese; al culto della figura del Che e al guevarismo; ai quali, da noi, si deve aggiungere l’operaismo di Panzieri (i Quaderni rossi) e Tronti ( Operai e capitale) e la cruciale Lettera a una professoressa, di Don Milani, su cui torneremo. E ancora, sebbene con una incidenza forse minore: il marxismo esistenzialista di Sartre ( Critica della ragione dialettica); il situazionismo di Debord ( La società dello spettacolo); lo strutturalismo di Althusser ( Per Marx) e di Foucault ( La storia della follia); l’antipsichiatria di Laing ( L’io diviso), e da noi di Basaglia ( L’istituzione negata).
Ma l’inquietudine politico-esistenziale dei giovani trovava espressione anche attraverso la cultura di massa, soprattutto nella musica, che si affermava come il linguaggio giovanile per eccellenza – con i numerosi gruppi rock e beat, nonché col folk-rock (basti pensare a Bob Dylan), e da noi con i cantautori politici (De André, Guccini), ma anche con i Cantacronache e col Nuovo Canzoniere Italiano (Ivan Della Mea) – e come esperienza di aggregazione di massa (che culminò nel festival di Woodstock, del 1969), ponendosi come veicolo globale di socializzazione giovanile. Ma la problematica giovanile emerge anche nel cinema e nella letteratura: per limitarci all’Italia, basti pensare al film I pugni in tasca (Bellocchio, 1965), spietatamente anti-borghese, o al romanzo I porci con le ali (Lombardo Radice, Ravera, 1976), ritratto del rapporto tra due adolescenti di sinistra negli anni della contestazione (in un clima vicino al ’77).
Queste complesse matrici culturali vanno lette anche come le coordinate pedagogiche entro cui assunse concretezza la formazione dei giovani della contestazione. Gli orientamenti pedagogici di cui parleremo nella seconda parte del contributo rappresentano solo la punta dell’iceberg di un più ampio organismo formativo informale, ramificato ed eterogeneo.
Entro tali matrici presero forma i caratteri del movimento del Sessantotto, che andò configurandosi come una rivoluzione culturale ed esistenziale dal profilo politico, nella cui dinamica l’esperienza esistenziale e sociale assumeva un significato politico, e la contestazione politica diventava atteggiamento esistenziale ed esperienza culturale. Il processo assunse la forma di un conflitto inter-generazionale, entro cui i giovani si autorappresentavano come classe sociale, ma prese presto anche una curvatura intra-generazionale (con l’ostilità tra giovani di destra e di sinistra). La contestazione aveva un carattere anti-autoritario, squisitamente libertario; anti-dogmatico e anti-conformista, valorizzando il dissenso e la differenza; anti-borghese, nemico del perbenismo e del consumismo, volto alla liberazione del corpo e della sessualità. Dal punto di vista strettamente politico, si presentava come anti-capitalista e anti-imperialista. Questi suoi caratteri di contro-cultura nascevano da una profonda inquietudine esistenziale e trovavano espressione positiva nell’aspirazione alla differenza, alla creatività (“l’immaginazione al potere”), all’ edonismo dell’essere contro quello dell’avere.
Tuttavia, tali caratteri non erano privi di contraddizioni che il movimento non riuscì a risolvere, quali il risorgente contrasto tra la spontaneità della contestazione e la sua organizzazione consapevole (un problema di potere e di direzione di tipo gramsciano); l’edonismo (sia pure riferito all’essere, contro l’etica giudaico-cristiana del sacrificio, come dichiarò Cohn Bendit, uno dei leader del Maggio parigino) che minava l’anti-consumismo (“vogliamo tutto”); il fantasma del Grande Rifiuto della società borghese che predisponeva alla fuga negli immaginari psichedelici degli allucinogeni. Queste e altre contraddizioni irrisolte pesarono sul movimento e ne limitarono gli sviluppi, concorrendo al suo indebolimento e alla sua estinzione. Nondimeno il Sessantotto fu una grande esplosione di energie e di vitalità, e modificò costumi e abiti mentali in modo significativo e duraturo. E non si deve dimenticare che fu un fenomeno transnazionale: nacque nei campus universitari americani (come Berkeley, fin dal 1964), e da lì si estese in Europa, soprattutto in Francia, Germania e Italia (ma non si deve dimenticare la Cecoslovacchia). Da noi il mondo giovanile era già in subbuglio e la contestazione ebbe una maggiore durata (arrivando a estinguersi solo nel 1977), conoscendo inoltre significativi rapporti col movimento operaio, che culminarono nell’ autunno caldo del 1969. Infine, non si deve trascurare che la contestazione non ebbe come bersaglio soltanto le forze politiche moderate, di governo, ma gli stessi partiti della sinistra tradizionale (come da noi il Pci), ritenuti responsabili di essersi attardati su concezioni produttivistiche, che sotto l’ombrello della necessità dello sviluppo delle forze produttive avevano finito per favorire il consolidamento della società capitalista. Infatti, il Pci – nonostante i tentativi di avvicinamento del segretario Longo – non ebbe mai presa sul movimento giovanile, e ne criticò piuttosto (in particolare con Amendola) il carattere libertario e spontaneista, manifestando una complessiva incapacità di comprensione per le sue ragioni.
2. La scuola e la pedagogia della contestazione
Uno degli aspetti caratterizzanti del Sessantotto fu la critica alla scuola (e all’università) “borghese”. I rimproveri mossi a questa istituzione erano almeno due. In primo luogo, quella di essere borghese e classista, e quindi di colpire con la selezione scolastica le classi subalterne, assicurando una riproduzione della stratificazione sociale esistente. In secondo luogo, la scuola era accusata di essere un’istituzione autoritaria e dogmatica, volta a conformare i giovani all’ideologia borghese-capitalista.
In Italia, gli inizi degli anni Sessanta si erano aperti con l’unificazione della scuola media (1962), che costituiva un passo importante verso una realizzazione di una scuola della Costituzione. Tuttavia, l’attuazione della scuola media unificata subiva l’opposizione di larga parte dei docenti, di estrazione piccolo-borghese, che temevano che da essa potesse derivare uno scadimento del proprio ruolo sociale (si veda Le vestali della classe media, 1969, di Barbagli e Dei, esito di una ricerca sul campo iniziata nel 1965).
L’elaborazione pedagogica che accompagna il Sessantotto e la critica alla scuola e all’università ha un raggio transnazionale. Ci limitiamo però a un cenno ad alcuni momenti significativi a livello internazionale, per poi esaminare i contributi italiani. Si tratta di momenti che presero l’avvio in contesti particolari per poi conoscere una vasta diffusione internazionale.
Nell’ area anglo-americana la pedagogia della contestazione fu caratterizzata dall’attenzione all’esperienza di Summerhill, promossa da Neill già da alcuni decenni, sulla base di presupposti psicanalitici anti-repressivi, che trovava particolare risonanza nella nuova situazione. Nell’ area francese questo periodo è caratterizzato dalla pedagogia istituzionale (Lapassade, Fernand Oury) che muoveva dall’analisi istituzionale e dall’ipotesi dell’autogestione pedagogica (Lapassade), legata a un più vasto movimento – nutrito di presupposti marxisti e psicanalitici (Althusser, Lacan) – che coinvolgeva anche l’area della psichiatria (Jean Oury). Nell’ area dell’America latina l’esperienza fondamentale è quella della pedagogia degli oppressi di Freire. Si trattava di un’esperienza fortemente radicata nella situazione sud-americana, dove grandi masse rurali analfabete erano oppresse e sfruttate da minoranze privilegiate, sotto l’egida di governi conservatori o apertamente reazionari. La prospettiva di Freire assumerà, però, un valore paradigmatico di raggio globale. Di taglio cosmopolita era invece il movimento della descolarizzazione (Illich, Reimer), che trovava in Ivan Illich l’interprete della più radicale critica all’istituzione scolastica.
Entro questo quadro internazionale, inquieto ed eterogeneo, si sviluppò in modi peculiari l’esperienza pedagogica italiana.
Prima del 1968, nel nostro Paese, erano già presenti elementi di critica della scuola tradizionale e di proposta innovativa, come quella sviluppata dal Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), entro il quale erano particolarmente significative le posizioni di Bruno Ciari (la scuola come “grande disadattata”, il tempo pieno, la scuola dell’infanzia) e le esperienze di Mario Lodi ( C’è speranza se questo accade a Vho, 1963). Tuttavia, l’opera che è stata una fonte d’ispirazione per la contestazione del Sessantotto è stata Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani, ma firmata dall’intera Scuola di Barbiana. Come si è accennato, la resistenza alla scuola media unificata (evidenziata nel citato Le vestali della classe media) si traduceva nella massiccia selezione scolastica che colpiva gli alunni di estrazione proletaria, con la giustificazione della difesa della qualità e della serietà della scuola. Verso questo tipo di scuola, la critica di don Milani (ispirata ai valori del Vangelo e ai principi della Costituzione) non si basa sulla differenza di classe concepita in termini marxiani, ma sulla distinzione evangelica tra ricchi e poveri: la scuola discrimina i poveri, ma Dio non ha creato i poveri meno intelligenti dei ricchi. La scuola ha perciò il compito di realizzare l’uguaglianza tra tutti i cittadini, secondo lo spirito della Costituzione. Pertanto, non deve fare parti eguali tra diseguali, ma deve dare di più a chi ha di meno. E in tale opera egli assume l’educazione linguistica come chiave per il raggiungimento dell’eguaglianza: è la lingua che fa eguali. La sua modalità di lavoro, inoltre, non concede nulla a un facile puero-centrismo e non inclina verso l’anti-autoritarismo . Al contrario, essa sembra basata su rigore analogo a quello gramsciano: lo studio richiede sforzo, serietà e disciplina. Questo rigore è però indirizzato al riscatto degli ultimi, diretto alla loro emancipazione culturale e politica.
Le posizioni di don Milani, per la verità, sembrano avere un collegamento piuttosto debole con quelle del Sessantotto (centrate sull’anti-autoritarismo, l’anti-dogmatismo, lo spontaneismo e l’immaginazione), ma la loro radicalità e la loro coerenza fanno diventare comunque Lettera a una professoressa uno dei punti di riferimento della contestazione studentesca, se non altro per la tensione anti-selettiva che le pervade.
Tra le pedagogie che hanno accompagnato il Sessantotto e ne hanno raccolto l’ispirazione per un’educazione antidogmatica e antiautoritaria si possono citare l’ antipedagogia di De Bartolomeis, soprattutto sul versante anti-dogmatico, e le esperienze de «L’Erba voglio», animate da Facchinelli, particolarmente sul versante anti-autoritario (ma un discorso a parte, declinato sul versante del corpo e della fantasia, meriterebbe anche l’ animazione di Passatore, Rostagno, Scabia, che qui non tratteremo).
L’attacco anti-dogmatico alla scuola viene portato da De Bartolomeis con La ricerca come antipedagogia (1969), che dichiara apertamente il carattere non neutrale bensì politicamente schierato del proprio discorso. L’intento è quello di colpire quello che viene indicato come il dispositivo fondamentale del dogmatismo scolastico: la lezione frontale. Quest’ultima è vista come una forma di violenza e di sopraffazione culturale del discente, nonché come un momento di regressione narcisista del ...