Parte seconda
Nuove ambizioni per Roma
Proviamo a immaginare come sarà Roma a metà del secolo.
Può sembrare troppo lontana la meta di paragone con l’oggi. Ma per la città eterna alcuni decenni sono ben poca cosa. D’altronde i suoi difetti più gravi vengono da lontano e non ci si può illudere di superarli in un breve lasso di tempo.
Può sembrare un inutile volo pindarico che elude le soluzioni semplici e immediate. Tuttavia, proprio l’esperienza recente dovrebbe aver chiarito che non si realizzano né le grandi né le piccole cose senza una visione di lungo periodo. Che non vuol dire rinviare le soluzioni a un domani imprecisato, ma significa definire una meta per poter iniziare il cammino. I buoni progetti per il futuro, anche quando non sono fattibili, forniscono un quadro di coerenza per le scelte di oggi.
Può sembrare un menare il can per l’aia invece di applicare le soluzioni già previste da tanto tempo. Quando però si attraversano passaggi storici, come l’esaurimento della città coloniale, sono proprio le politiche del passato che impediscono di uscire dalla crisi.
Può sembrare un intento volontaristico che non corrisponde ai processi reali, ma con la crisi mondiale del Covid irrompe l’esigenza di cambiare il modo di vivere in comune, come accade solo dopo le guerre e le dittature.
Può sembrare vano l’esercizio progettuale se si ritiene che in realtà contino solo le persone chiamate a governare. Però sono sotto gli occhi di tutti i ripetuti fallimenti dell’ideologia della personalizzazione. Prima che i leader realizzino i progetti, sono le idee condivise socialmente a creare nuove leadership. Solo quando crescono le ambizioni collettive si afferma una nuova classe dirigente.
Allora immaginiamo come se a Roma si fosse già affermata una classe dirigente capace e autorevole e discutiamo delle politiche per la rinascita della città1. Le pagine seguenti sono un esercizio di immaginazione del come se annunciato nel titolo del libro. Dovremmo, quindi, prendere confidenza con la molteplicità dei significati di questa espressione. Ce ne vengono esempi dai più diversi contesti storici e culturali.
Abbiamo già incontrato il come se di Leon Battista Alberti che è una postura del progetto di città. Ancora una volta, però, è il cinema a proporci un’immagine folgorante del come se con il Jeeg Robot che in virtù dei suoi superpoteri si innalza dalle sofferenze di Tor Bella Monaca e vola sopra la città eterna. Non sappiamo se il regista si è ispirato alla nietzchiana volontà di illusione che svelle le certezze della volontà di potenza, seminando il dubbio del come se. D’altronde, non è necessario dimostrarne la certezza, poiché il come se è solo una kantiana idea regolativa che a prescindere dalla sua verità orienta la nostra ragione pratica, come accade con l’idea dell’esistenza di Dio2. A me è molto caro il significato teologico incastonato nella Lettera ai Corinzi – «quelli che piangono come se non piangessero» – che capovolge il senso comune anticipando la rivelazione del nuovo Regno.
Più semplicemente l’esercizio del come se è solo un atto d’amore per Roma, che libera lo stupore dalla gabbia della giustificazione logica. In analogia con le parole rivolte da un cantautore romano alla persona amata: «potrei sorprenderti, potremmo fare come se/ come se avessi tutto il tempo per decidere»3.
Riguardo alle politiche, già nell’Introduzione si è indicata la transizione necessaria. Alla coppia nazione-città, protagonista della fase coloniale, subentra la coppia mondo-regione. Il doppio ampliamento della scala del riconoscimento definisce il campo di gioco della capitale nel secolo che viene. L’esito non è scontato. Nelle nuove dimensioni si possono accumulare ulteriori arretratezze, e le avvisaglie non mancano, come vedremo. Oppure si possono attivare nuovi itinerari di crescita civile e di qualità ambientale, come si cercherà di prefigurare di seguito.
Il capitolo iniziale, infatti, è dedicato alla Città Mondo, come ipotesi di rielaborazione del carattere internazionale di Roma. Che comporta una doppia sfida nelle opposte direzioni del mondo che viene e che va: da come saprà accogliere i migranti dipenderà la prosperità sociale dei prossimi decenni; nel contempo le sue produzioni culturali ed economiche dovranno assumere la dimensione globale come misura di qualità.
Nel capitolo successivo le proposte si misurano con l’enorme salto di scala della Città Regione. La chiamiamo ancora Roma, anche se ormai la sua espansione ha reso incomprensibile sia il livello metropolitano sia quello urbano. C’è un doppio riconoscimento da elaborare nella campagna e nella città: la prima non più come materia prima dell’edificazione ma come risorsa vitale dell’organismo metropolitano; la seconda come spazio pubblico che genera e alimenta le relazioni tra i luoghi e le persone.
Le forme di elaborazione del riconoscimento sono esaminate nel settimo capitolo, «L’intelligenza sociale», e nell’ottavo relativo alle istituzioni per il governo della capitale. Si parte dall’ipotesi che le risorse della civitas siano più ricche dell’attuale assetto dell’urbs. Mettere a frutto questa eccedenza è la condizione essenziale per la rinascita della città. E tutto ciò, però, ha bisogno di una riforma che non solo innalzi l’efficacia di governo ma promuova il più essenziale dei riconoscimenti, quello tra i cittadini e le istituzioni.
1 Non a caso negli ultimi tempi crescono gli studi prospettici, tra i quali il più completo: D. De Masi, Roma 2030. Il destino della capitale nel prossimo futuro, Einaudi, Torino 2019.
2 Mi riferisco qui alle interpretazioni proposte all’inizio del Novecento di H. Vaihinger, La filosofia del come se, Ubaldini, Roma 1967 delle filosofie di Nietzsche (Al di là del bene e del male) e del Kant dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica: «Noi siamo costretti a guardare il mondo come se fosse l’opera di un supremo intelletto e volere […]: come un orologio […] sta all’orologiaio […] così il mondo sensibile […] sta allo Sconosciuto, che dunque così io certo non conosco in ciò che esso è in sé, ma pur conosco in ciò che esso è per me, cioè riguardo al mondo di cui sono parte», Laterza, Roma-Bari 1996, p. 239.
3 Nella canzone di Daniele Silvestri, Come se, traccia 13 dell’album Acrobati, 2016.
V. La Città Mondo
A metà del secolo Roma sarà più felice o più triste? Più aperta o più chiusa? Più creativa o più conformista? Più equa o più disuguale? Più ricca o più povera?
Da che cosa dipenderà un esito o l’altro? Certamente dalla politica, dall’economia, dal welfare, dalle infrastrutture, ma più di tutto conterà la grande mutazione del secolo: le migrazioni delle genti. Da come sarà governato questo processo discenderanno le mutazioni dell’organizzazione sociale, dello spirito pubblico, dei riferimenti simbolici1.
Il senso della capitale sarà sollecitato in tutti i lati del suo triangolo: le avanguardie culturali saranno stimolate dal crogiolo delle differenze, delle arti, dei linguaggi, delle visioni del mondo; l’umanità popolare sarà scossa nel suo ceppo antropologico e ne potrà scaturire un imbarbarimento mai visto oppure un salto di civiltà; il riconoscimento verrà messo in questione, se ieri era scontato verso il cittadino con la pelle dello stesso colore, domani diventerà più impegnativo e anche più dirimente nella relazione con l’altro.
Insomma Roma non sarà più come oggi. Non potrà più galleggiare sulla superficie della sua decadenza, sarà costretta a misurarsi con il secolo nuovo.
Potrebbe giocare la sua carta migliore: il carattere universale sedimentato nella sua storia millenaria. Per molto tempo è stata una rendita ricevuta in eredità. Adesso si presenta l’occasione di rinnovarla per meriti contemporanei.
1. La capitale del Mediterraneo.
Roma si trova al centro del grande flusso delle genti dal Sud al Nord del mondo. Può continuare a subirlo oppure può diventarne il luogo della consapevolezza, come capitale culturale del Mediterraneo, e quindi città internazionale per eccellenza. Ecco la priorità di governo per il 2050. È la più impegnativa opera di riconoscimento di Roma per sé e per il mondo.
Nel nuovo secolo l’antico mare sarà l’area geopolitica più importante. Nel suo bacino non a caso tutte le grandi potenze giocano i loro successi e le loro sconfitte. Paradossalmente l’attore più lontano, la Cina, è anche l’unico ad avere a lungo termine una strategia a tenaglia. Da est, con il progetto della Via della seta prova a prendere in mano la guida degli scambi internazionali dopo il ripiegamento protezionistico del mondo anglosassone. Da sud, con gli investimenti in Africa mira al controllo delle materie prime e mette un’ipoteca sulla crescita del continente, ovvero nel processo di massimo impatto sul futuro della globalizzazione. Gli Usa sono in guerra da quasi trent’anni intorno al mare, ma con l’unico risultato di aver perso credibilità e potere di influenza, dai Balcani, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, alla Siria, al Libano, all’Egitto. Incredibilmente hanno lasciato campo aperto alla Russia, tornata a essere perfino una potenza navale che controlla il bacino orientale in divergente accordo con la Turchia, la quale, però, è anche un paese Nato, a conferma della perdita di egemonia dell’Occidente. Nella crisi libica due dittatori come Erdoğan e Putin sono arrivati a farsi beffe delle democrazie europee e americana.
Tutte le questioni strategiche del nostro tempo si giocano nel Mediterraneo: oltre le migrazioni, la pace e la guerra, il confronto tra le religioni monoteistiche, gli esiti dei conflitti interni al mondo arabo, l’impatto dei cambiamenti climatici, la fuoriuscita dalla dipendenza petrolifera, le opportunità di cooperazione tra le economie sature del nord e il potenziale di crescita del sud.
Nel frattempo, proprio nel Mare Nostrum si è consumato lo smacco dell’ideale europeo. Sul piano morale per il cinismo e l’indifferenza verso la morte in mare di bambini, donne e uomini innocenti, la più grande tragedia umanitaria del nostro tempo. Sul piano politico per la clamorosa irrilevanza nelle relazioni internazionali.
Negli anni duemila è fallita la promessa di diventare un continente protagonista della globalizzazione. L’unica strategia è stata quella dell’interesse prevalentemente tedesco verso i paesi dell’Est che si liberavano dalle dittature comuniste, ma non c’è stata vent’anni dopo un’apertura verso sud di fronte alle cosiddette «primavere arabe»2. Ci sono stati solo i bombardamenti contro i vecchi dittatori e poi gli accordi con i nuovi padroni per i contratti petroliferi o i campi profughi. L’Unione europea è diventata irrilevante nel mondo perché ha voltato le spalle al Mediterraneo3. Lo ha considerato il confine meridionale, e lo ha disconosciuto come origine. Ma il Mare Nostrum non è il limes, è l’archè dell’Europa.
Da quale altra capitale se non da Roma dovrebbe levarsi la voce per una svolta politica euromediterranea? Eppure non può farlo da sola, per parlare sia al Mediterraneo sia all’Europa dovrebbe coinvolgere le città del Sud – Napoli, Bari, Palermo – e quelle del Nord – Bologna, Milano, Torino, Genova, Venezia. Solo in un movimento euromediterraneo delle città italiane Roma può ritrovare un compito nazionale, che altrimenti non può essere ripristinato operando nella sola dimensione statale, per il semplice motivo che questa oggi non è più in grado neppure di unire il paese, e anzi è il...