La mia arte, la mia vita
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Mostro sacro del muralismo messicano, Diego Rivera è stato in realtà tante cose: sodale di Picasso, donnaiolo impenitente e amante vorace, fervido comunista ben presto espulso dal Partito e sedicente rivoluzionario dell'arte. Rievocando alcuni episodi salienti di questa sua storia personale, raccolta e trascritta dalla giornalista Gladys March, si rivela anche un narratore incapace di tenere a freno l'esuberante fantasia. Nella sua prosa, così come nella sua pittura, scorrono una travolgente passione per la vita e un'umanità multiforme: prostitute e rivoluzionari, politici corrotti e mecenati capitalisti, ma soprattutto la gente della propria terra, per la quale nutrirà sempre un amore profondo.Dopo i primi passi come pittore cubista in Europa, il ritorno in patria è vissuto infatti da Rivera come una rivelazione: il Messico, con i suoi colori infuocati e la sua luce intensa, le moltitudini gioiose al mercato e alle fiestas, gli si presenta come una fonte di incontenibile splendore. A cui attingerà al momento di ritrarre sulle enormi pareti degli edifici pubblici messicani la coscienza politica di un popolo, attraverso scene di schiavitù, di lotta sociale e immagini della cultura precolombiana, plasmando i tratti di quel muralismo che diventerà di lì a poco un movimento pittorico internazionale.L'autoritratto che si dipana sotto i nostri occhi assume via via i contorni di una confessione a cuore aperto, in cui l'autore non risparmia nessuno, men che meno se stesso. La sua versione dei fatti trova un controcanto nelle voci delle donne della sua vita – Angelina Beloff, Lupe Marín, Frida Kahlo, sposata per ben due volte, ed Emma Hurtado – raccolte in appendice. Giunto all'ultima pagina, al lettore non resta che chiedersi dove stia la verità su questo artista che è stato innanzitutto uno straordinario affabulatore o, nelle parole di Élie Faure, un creatore di miti, se non addirittura un mitomane.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788860102942
Argomento
Art

La battaglia di Detroit

Il lavoro all’Institute of Arts mi assorbiva completamente. Nonostante la dieta ferrea e debilitante a cui mi ero sottoposto per la tiroide e per perdere peso, rinunciando completamente alla carne, passavo in media quindici ore al giorno sul ponteggio, sette giorni su sette. Quando cominciai a dipingere pesavo più di centotrentacinque chili; quando terminai ne avevo persi più di quarantacinque.
Anche Frida lavorava. Aveva maturato un suo stile personale e stava cominciando a realizzare veri e propri capolavori. Dopo circa sei mesi che ci trovavamo a Detroit, tuttavia, la madre si ammalò gravemente e Frida dovette tornare a Coyoacán. Io rimasi a Detroit a lavorare più intensamente che mai.
Nei murales precedenti avevo cercato di integrare armoniosamente la mia pittura all’architettura dell’edificio. Tentare la stessa cosa nel giardino dell’Institute of Arts avrebbe significato andare contro i miei obiettivi, perché le pareti erano in un elaborato stile barocco italiano con piccole finestre, teste di satiri, passaggi e cornici scolpite. Era all’interno di questo contesto che dovevo rappresentare la vita di un’epoca che non aveva nulla a che fare con le raffinatezze barocche – una nuova vita rappresentata dalla massa, dalla macchina e dalla nuda potenza meccanica. Mi misi dunque a lavorare con la consapevolezza di dover sovrastare le decorazioni della sala.
Il soggetto dell’opera si prestava a questo tipo di contrasto sia in senso storico sia dal punto di vista pittorico. Per rafforzarne l’effetto visivo e integrarlo nello spazio, decisi di imporre alla composizione una scansione più essenziale e d’impatto rispetto a qualsiasi altro motivo decorativo del giardino. Scelsi uno dei ritmi dominanti dell’esistenza: l’onda. Il murale è composto da ventisette scene, suddivise grosso modo in tre ordini. Alla base, una sequenza di formelle raffigura varie situazioni di una giornata di lavoro; la superficie centrale del dipinto, quella che si sviluppa dalla cornice superiore delle formelle al capitello delle colonne e che occupa la maggior parte della composizione, mostra alcuni macchinari in funzione; nella fascia superiore, l’affresco rappresenta la geomorfologia della regione – il territorio, i minerali e i fossili, i trasporti via fiume e sul lago – e infine, ai lati di quest’ultima, l’aviazione militare e civile e le razze umane. Il motivo dell’onda si ripresenta scena dopo scena nei giganteschi nastri trasportatori d’acciaio, nei tubi e condotti, negli strati del sottosuolo.
Pur essendo completamente immerso nel mio lavoro, dopo qualche tempo mi resi conto che in città iniziavano a girare voci su alcuni soggetti dei miei affreschi. Nella fascia superiore di una parete avevo dipinto delle mani che scavano nella terra e ne riemergono con un minerale o un metallo. Ai lati di questa immagine avevo raffigurato due nudi femminili sdraiati: la donna nera rappresenta il carbone, la rossa il ferro. Sulla parete opposta avevo dipinto alcune mani che afferrano la pietra calcarea, la sabbia, lo zolfo e altre sostanze della terra di colore chiaro e, subito ai lati, gli omologhi umani con nudi femminili di pelle bianca e gialla.
Le quattro donne, che simboleggiano anche le razze umane, sono figure con caratteri autoctoni, niente affatto “belle”. Girava voce che stessi componendo un inno alla bruttezza: secondo certa gente di Detroit, quelle figure che apparivano sopra il fragore e lo sfavillio delle macchine d’acciaio non rappresentavano altro che bruttezza. Continuai a lavorare senza dare retta alle maldicenze. L’unica cosa che non mi era chiara era per quale motivo si cercasse un pretesto per attaccare me e il mio murale.
Il pretesto fu dato loro dalla scena che raffigura la farmacologia. Davanti a tre uomini all’opera in un moderno stabilimento biochimico avevo ritratto un bambino in braccio a un’infermiera nell’atto di essere vaccinato da un medico in camice bianco. In primo piano ci sono un cavallo, una mucca e alcune pecore, animali i cui tessuti servono alla preparazione di diversi vaccini. L’affresco voleva essere una celebrazione del nobile operato degli uomini di scienza che cercano di sconfiggere le malattie. Qualcuno interpretò il dipinto come un ritratto della sacra famiglia in chiave moderna, con i tre scienziati di laboratorio che rappresentavano i re magi e gli animali della mangiatoia. Siccome ero io ad averla concepita, i miei detrattori ritenevano che fosse un’opera sacrilega.
Un giorno, dal ponteggio, scorsi un uomo con un’aria strana che osservava attentamente gli affreschi e che mi fu presentato come un pittore di vetrate per le chiese. Aveva la sommità del capo completamente calva e un viso rotondo dalle guance rosee, contornato da lunghi capelli grigi che gli cadevano a boccoli fino alle spalle. Nel salutarmi, le sue labbra sottili si aprirono in un timido sorriso. Aveva occhi grigio-azzurri e lo sguardo basso, come se avesse perso qualcosa di molto importante e lo stesse cercando.
Indossava un abito grigio insolitamente sporco e malridotto per una persona che viveva negli Stati Uniti. Ai piedi portava sandali di tela nera alla maniera di sant’Antonio.
Parlando intrecciava le mani come una scolaretta. Quella strana creatura mi raccontò di essere di origini francesi e di avere dedicato tutta la sua vita all’arte sacra. Dando un’ultima occhiata generale alla sala si congratulò per il mio lavoro in modo palesemente ipocrita e se ne andò via in fretta. Compresi le sue intenzioni solo molti giorni dopo.
Il giorno successivo venne a vedermi all’opera un altro visitatore, che mi fu presentato come un giornalista di uno dei maggiori quotidiani di Detroit e che aveva un aspetto ancor più sgradevole del pittore di arte sacra. Indossava un cappello abbassato sugli occhi e, quando alzava la testa, due lenti spesse come fondi di bottiglia gli nascondevano lo sguardo.
Dopo avermi osservato a lungo sul ponteggio, urlò: «Non pensate che la prospettiva sia sbagliata?».
Quando guardai giù, la vista di quell’uomo miope e accecato dal cappello mi parve così buffa che non riuscii a controllarmi e scoppiai a ridere.
Il giornalista mi restituì uno sguardo interrogativo e pieno di imbarazzo. Alla fine chiese dove fosse il bagno. Mentre riprendevo fiato tra le risate, gli diedi le indicazioni che mi aveva chiesto. Inutile dire che non fece ritorno.
Il giorno dopo, però, dalle pagine della sua rubrica aprì una campagna ufficiale contro di me. Alla base della sua condanna c’era la presunta immoralità dei miei affreschi. Si domandava come fosse possibile che in un museo così bello mi fosse permesso di dipingere una simile porcheria, e sosteneva di essere stato informato da fonti affidabili che stavo disonorando le pareti dell’istituto con dipinti pornografici. Dovevano fermarmi immediatamente.
Comunque quel giornalista fu solo il primo di una lunga serie di squilibrati che si scagliarono contro di me.
Un nemico ancor più folle e pericoloso del mio murale fu un prete della periferia di Detroit – padre Charles Coughlin – che aveva costruito una bella chiesa grazie al generoso contributo di fedeli poveri e ignoranti. L’edificio era riccamente decorato con vetrate colorate realizzate, caso vuole, proprio dallo strano tipo che mi aveva fatto visita, il pittore d’arte sacra. Oltre al pulpito, per divulgare le sue idiozie padre Coughlin aveva a disposizione una stazione radiofonica personale, di cui si serviva per trasmettere, senza interferenza alcuna, la propaganda più feroce e reazionaria che si potesse immaginare. Dopo la pubblicazione dell’articolo di denuncia sulla mia opera, il sacerdote iniziò a onorarmi quotidianamente con lunghi e violenti attacchi in cui condannava gli affreschi dell’Institute of Arts definendoli immorali, blasfemi, antireligiosi, osceni, materialisti e comunisti. Il risultato fu che tutta la città di Detroit iniziò a discutere sul mio operato. Un consigliere comunale locale attaccò i murales definendoli «una parodia dello spirito di Detroit» e fece pressione sui colleghi del consiglio affinché ne ordinassero la rimozione. In breve tutta la regione di Detroit si buttò nella mischia. Da parte mia, continuai a dipingere in tutta serenità.
Nel bel mezzo della tempesta, Frida fece ritorno. Aveva visto sua madre morire ed era prostrata dal dolore. Per di più rimase turbata dal mio aspetto. In un primo momento non mi riconobbe neppure: in sua assenza avevo seguito una dieta e lavorato così tanto che avevo perso molto peso; inoltre indossavo un abito di Clifford Wight che non mi aveva mai visto addosso, perché nessuno dei miei vestiti mi stava più.
Appena la vidi la chiamai: «Frida, sono io». Quando finalmente mi ebbe riconosciuto, mi abbracciò e si mise a piangere. Avevo un aspetto spaventoso, la mia pelle era pallida, cascante e grinzosa come quella di un elefante. Cercai di consolarla dicendole che, in compenso, con la perdita di peso avevo guadagnato una nuova rapidità di movimento, che mi permetteva di lavorare con una straordinaria agilità. Grazie alla dieta e alla cura per la tiroide, sarei riuscito a terminare quel lavoro prima di quanto pensassi. Malgrado tutto, Frida non si tranquillizzò e rimase in uno stato di apprensione finché l’ultimo colpo di pennello non si fu asciugato.
Tre giorni prima della riapertura del museo al pubblico ci fu una presentazione degli affreschi riservata ai mecenati d’arte di Detroit che, a quanto pare, erano numerosi.
La condanna fu unanime. Donne belle ed eleganti si lamentarono di aver perso il loro bel giardino tranquillo, che aveva rappresentato un’oasi nel deserto industriale di Detroit. Grazie a me, quel luogo affascinante e riservato era diventato l’epitome di tutto ciò che faceva rumore, fumo e polvere. Una cosa era certa: i miei affreschi avevano distolto l’attenzione dai loro meravigliosi abiti lunghi.
Le signore sussurravano il proprio sgomento all’orecchio dell’architetto francese che aveva progettato il giardino.
Me ne stetti in disparte a osservarle. Poi fui avvicinato da un gruppo di donne dell’alta società conosciute poco prima, che mi chiesero cosa pensassi del giudizio prevalente nei confronti della mia opera. Dissi alle signore di riferire ai loro amici che lo sviluppo e la ricchezza di Detroit, di cui tutti godevano, provenivano dai soggetti e dalle risorse stesse che stavano contestando. Oltretutto, aggiunsi, molti di loro dovevano la propria ricchezza personale all’acciaio che avevo rappresentato così accuratamente, un materiale che amavo, nonostante si trattasse di un metallo duro e freddo. Quello che avevo rappresentato sui muri del loro giardino era la realtà.
Mi domandarono come mai non avessi scelto soggetti più gradevoli da dipingere come concerti, sport, festival all’aperto e mostre d’arte. Spiegai con la massima gentilezza di cui ero capace che trovavo qualsiasi stabilimento industriale esteticamente più bello e significativo dei temi che avevano suggerito.
Si offesero per la mia risposta e dissero che stentavano a credere che stessi parlando sul serio. Com’era possibile, si chiedevano, che potessi avere certe idee, io che venivo dal Messico, una terra idilliaca, e che avevo studiato in una città raffinata come Parigi, se non per prenderle in giro. Mi ero fatto un’idea sbagliata: loro non avevano nessuna responsabilità nell’inesorabile espansione industriale di Detroit, non avevano colpa delle brutture delle fabbriche che avevano strappato alla città la sua originaria maestosa eleganza.
La mattina dopo quella triste accoglienza, arrivò al museo un gruppo di signori con un atteggiamento completamente diverso dai visitatori della sera precedente. Erano più di sessanta ed entrarono in giardino in una formazione quasi militare, dietro a un tale che si presentò come loro portavoce consegnando un biglietto da visita a Clifford Wight. Era il responsabile tecnico dell’industria automobilistica Chrysler, seguito, disse lui, da un gruppo di ingegneri. Cliff conosceva sia il francese che l’inglese, che io invece parlavo poco e, una volta fatte le presentazioni, gli chiesi di farci da interprete.
Cliff iniziò subito a spiegare che quegli affreschi non erano opera di un ingegnere ma di un artista. Il portavoce lo interruppe con un cenno della mano in maniera quasi villana: «Desidero parlare con Diego Rivera».
Cliff mi lanciò uno sguardo interrogativo e io dissi a quel tale che ero pronto ad ascoltarlo.
«Questi signori sono tutti ingegneri di una delle più importanti industrie automobilistiche e siderurgiche di Detroit; hanno voluto che vi parlassi per due motivi: per prima cosa perché sono il loro responsabile, e poi perché a causa vostra, mio caro amico, e dei vostri dannati affreschi, ho mancato ai miei doveri professionali in ben diciannove occasioni. Prima del vostro arrivo non avevo mai messo piede in questo posto. Non sono interessato alle solite sciocchezze che spacciano per cultura. Passo di qui ogni giorno, andando e tornando dal lavoro. La prima volta mi sono fermato perché volevo capire contro chi si accanivano quegli idioti di giornalisti.
«Da quella prima visita ho continuato a sentire un forte desiderio di tornare. Ho già trascorso qui più di cinquanta ore. Oggi ho portato con me questi altri signori per condividere con loro il piacere di questa esperienza. Ho aspettato fino a oggi per essere sicuro di non avere tra i piedi le signore eleganti e i pappagalli da salotto, ma non è questo il punto. Quello che desidero dirvi a nome mio e di questi signori è che, se l’incarico di realizzare quest’opera fosse stato affidato a noi, da un punto di vista tecnico avremmo fatto esattamente lo stesso che avete fatto voi.»
Poi si rivolse a Cliff Wight: «Vorrete senz’altro correggermi ricordandomi che Rivera non è un ingegnere di professione. È vero; ma quest’uomo ha tenuto insieme in poco spazio una serie di operazioni che normalmente si svolgono a una distanza di almeno due miglia, e ogni dettaglio tecnico dell’affresco è perfetto. La cosa più incredibile è questa!».
Detto questo, lui e i suoi colleghi ci strinsero la mano congratulandosi in maniera profonda e sincera. Poi, dopo averci salutati, la delegazione di ingegneri se ne andò così com’era entrata.
Per la prima volta in vita mia mi sentii non solo contento, ma addirittura euforico e orgoglioso per questa rara dimostrazione di apprezzamento del mio lavoro.
Nel pomeriggio dello stesso giorno ricevetti un riconoscimento ancor più gratificante, che mi fece capire che i miei sforzi, anche quelli che consideravo inutili, non erano stati vani.
Anche in questo caso tutto ebbe inizio con una folla di uomini che entrarono nel museo per conoscermi; questa volta non si trattava di sessanta ma di più di duecento persone. C’era anche qui un portavoce che non si presentò ma, appena entrato, gridò con un tono di voce profondo e squillante, procedendo a grandi passi nel giardino: «Vogliamo parlare con Diego Rivera!».
Lasciai ciò che stavo facendo e diedi un’occhiata alla folla di persone sotto di me. Scesi immediatamente dal ponteggio e subito mi diressi verso l’uomo alto e muscoloso che aveva parlato.
Mettendo da parte i soliti convenevoli, mi salutò con un cenno del capo. «Siamo operai di Detroit; lavoriamo in diverse industrie e apparteniamo a partiti politici diversi. Alcuni di noi sono comunisti, altri trockisti, altri ancora sono democratici e repubblicani, qualcuno non è di nessun partito. Siete considerato un uomo dell’opposizione di sinistra, nonostante non siate un trockista. Gira voce che abbiate affermato che, finché la classe operaia non prenderà il potere, un’arte proletaria è impossibile, e che un’arte proletaria è possibile solo nella misura in cui viene imposta al popolo dalla classe dirigente. Avete lasciato intendere che una vera arte rivoluzionaria può esistere solo in una società rivoluzionaria. Bene. Vi dispiacerebbe allora mostrarmi anche un solo centimetro quadrato di questi affreschi che sia privo di carattere, tematiche e sentimenti proletari? Se lo farete passerò anch’io a far parte dell’opposizione di sinistra. In caso contrario, dovrete ammettere davanti a tutti questi signori che siamo di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro
  3. Frontespizio
  4. Prefazione di Gladys March
  5. Geografia e genealogia
  6. Ritrovarsi con Angelina
  7. La battaglia di Detroit
  8. Testimonianze su Diego Rivera
  9. Gli e-book di Johan & Levi
  10. Copyright