1. La realtà storica di una scienza giuridica europea
Parlare di una scienza giuridica europea appare oggi, forse proprio a un giurista, inammissibile e non-scientifico. E questo non solo a motivo della lacerazione politica dell’Europa, dilaniatasi in due guerre mondiali, ma anche per una ragione formale e all’apparenza persino di natura specificamente giuridica. Per il positivismo, che da cento anni domina nella teoria e nella prassi della nostra vita giuridica, oggetto della scienza giuridica è solo la norma positivamente vigente, e tale è per esso solo la legge dello Stato di volta in volta in essere o la norma imposta, dotata di mezzi coercitivi, stabilita da una volontà che si impone. Il fondamento formale di validità del diritto positivo risiede qui sempre e soltanto in statuizioni, dietro alle quali esiste una volontà statale di stabilirsi, che vuole appunto imporsi. Per la concezione puramente statocentrica di un simile positivismo della legge, esiste di conseguenza solo un diritto francese, spagnolo, svizzero o di altri singoli Stati, mentre, in assenza di un comune Stato europeo e di una volontà normativa europea, non può darsi alcun diritto europeo e pertanto neanche una scienza giuridica europea, tutt’al più ricerche di diritto comparato e di storia del diritto quali lavori di sussidio scientifico senza alcun significato positivo. Con il che il nostro tema sarebbe formalmente già esaurito.
Finanche nel cosiddetto diritto internazionale privato, che per Savigny (1849) ancora si fondava interamente su una comunità giuridica europea, sulla «riconosciuta comunità delle diverse nazioni», la volontà di validità della legge del singolo Stato è divenuta, nella prospettiva dell’odierno positivismo della legge, l’unico fondamento di validità. Quando il giudice nazionale, per la decisione di un caso internazionale analogo, ricorre a un diritto straniero, il diritto internazionale privato che trova applicazione è sì «internazionale quanto al suo oggetto, ma quanto alla fonte o al fondamento di validità è diritto puramente statale». Nel diritto internazionale privato, di conseguenza, a partire dalla seconda metà del XIX secolo sono sorte nuove difficoltà, in particolare in numero crescente per la riserva dell’ordre public nazionale. Tali difficoltà hanno messo in discussione l’intera comunità giuridica europea ancorata a un diritto privato internazionale e l’hanno trasformata in una somma di accordi precari di norme di conflitto nazional-statali.
Dal punto di vista del fondamento formale di validità, per il positivismo statocentrico non esiste nemmeno più un diritto internazionale europeo. Fin verso la fine del XIX secolo, ciò che veniva chiamato “diritto internazionale” si identificava con il “diritto internazionale europeo”, finanche con uno jus publicum Europaeum. Nella prospettiva del positivismo statocentrico, di contro, il diritto internazionale e il diritto interno allo Stato si scindono dualisticamente (vale a dire, pluralisticamente) verso l’interno e verso l’esterno in due fonti di diritto assolutamente separate e isolate: la legge interna allo Stato da una parte, l’accordo tra Stati dall’altra. Al positivismo della legge interna allo Stato corrisponde il positivismo dell’accordo tra Stati. La separazione tra interno ed esterno, tra diritto interno allo Stato e diritto tra Stati, è così assoluta che – come dimostra cogentemente Heinrich Triepel nel suo Völkerrecht und Landesrecht (1899) – tra interno ed esterno vi è una completa e incondizionata assenza di connessioni, al punto che, da un punto di vista formale, tra le due sfere giuridiche non è nemmeno possibile un conflitto. Si parla, certo, di una “trasformazione” dell’obbligazione di diritto internazionale in diritto interno allo Stato. Ma tutte queste trasformazioni, commutazioni, incorporazioni, estensioni di validità o comunque le si voglia chiamare, si rivelano in realtà solo ponti illusori che il diritto interno allo Stato costruisce sull’abisso che separa tra loro l’interno e l’esterno.
La dottrina dualistica dell’assenza di connessioni tra interno ed esterno, sviluppata da Heinrich Triepel nel libro del 1899 sopra richiamato, è divenuta assolutamente dominante. Per il nostro tema, la scienza giuridica europea, essa significa la completa negazione dell’esistenza giuridica di detta scienza finanche sotto il profilo del diritto internazionale. Infatti, o il giurista si occupa del diritto interno di un paese, e allora il suo sguardo statocentrico è rivolto esclusivamente all’interno e non può oltrepassare l’abisso che separa dualisticamente interno ed esterno; oppure questi ha a che fare con il diritto internazionale, più precisamente con le norme del diritto delle relazioni tra Stati, e allora si tratta sempre e soltanto di singoli Stati, le cui volontà per mezzo di trattati, accordi o consuetudini, istituiscono le norme del diritto positivo tra Stati. Non si perviene mai a un ordinamento concreto. Che siano proprio degli Stati europei a instaurare tramite trattati e accordi reciproci relazioni giuridiche è, dal punto di vista positivistico, una semplice casualità. I trattati e gli accordi di uno Stato europeo con un altro Stato europeo non hanno, per i positivisti, nulla di giuridicamente specifico dal punto di vista formale rispetto ai trattati e agli accordi con Stati non-europei. Dopo che lo spirito europeo aveva sviluppato dal XVII al XIX secolo un diritto internazionale specificamente europeo, nel passaggio dal XIX al XX secolo il diritto internazionale si è dissolto in innumerevoli e indiscriminati rapporti interstatali fra cinquanta, sessanta Stati di tutta la terra, vale a dire in una generalità priva di spazio.
Un simile positivismo del contratto o della legge naturalmente possiede, nel migliore dei casi, tanto e, nel peggiore, tanto poco valore quanto ne posseggono i trattati tra Stati e le leggi interne allo Stato ai quali esso si accoda. Del resto, dal punto di vista della scienza giuridica, esso non significa niente più di una finzione normativistica, il cui valore, come in generale il valore dell’intero positivismo elevato a visione del mondo, caratterizzante il XIX secolo, è relativo e limitato nel tempo. Tale positivismo tralascia intenzionalmente il significato contenutistico-sostantivo del diritto, vale a dire il senso politico, sociale ed economico degli ordinamenti concreti e delle istituzioni, e non può pretendere, già per tale ragione, di possedere il monopolio del modo di pensare giuridico e di dire l’ultima parola sul nostro tema. Appunto un’interpretazione e una sistematizzazione scientifico-giuridiche devono tener conto del contenuto sostantivo delle norme e del senso specifico delle istituzioni. Se osservata dal punto di vista sostantivo si ha, tuttavia, un’immagine completamente diversa dalla lacerazione formal-positivistica tra interno ed esterno. Quanto al loro significato e contenuto, concetti e istituzioni essenziali dei popoli europei concordano in modo sorprendente. Si dà qui una comunità del diritto europeo molto solida, che, come tale, aveva fino a poco tempo fa anche un significato immediatamente politico.
Nella convivenza dei popoli, nella prassi del diritto internazionale, per tutto l’ultimo secolo è valso, quale inaggirabile condizione per l’ammissione nella comunità del diritto internazionale, l’adeguamento a un determinato standard giuridico tipicamente europeo nella codificazione, nella legislazione e nell’amministrazione della giustizia. Uno Stato veniva ritenuto civilizzato solo una volta uniformatosi al comune standard europeo del diritto e della giustizia. Solo a tale condizione nel XIX secolo Stati non-europei sono stati riconosciuti come membri della comunità del diritto internazionale. La dottrina del riconoscimento giuridico internazionale aveva per questo un significato contenutistico; a ragione poteva essere al tempo indicata da Lorimer come il fondamento del diritto internazionale. Ciò avveniva nel 1884, all’epoca di Bismarck, l’«ultimo uomo di Stato del diritto internazionale europeo». Nel frattempo, l’istituto giuridico del riconoscimento giuridico internazionale si è dissolto in un opportunismo del tutto nichilistico, in favore di una disimpegnata condotta meramente fattuale e tattica. Alla Conferenza di Losanna (1922-23), le potenze europee, nei confronti della Turchia, a riguardo della questione dell’abolizione delle cosiddette Capitolazioni, hanno ancora tenuto fermo, almeno in linea di principio, che uno Stato, per essere riconosciuto pienamente sovrano, deve conformarsi allo standard del diritto sviluppatosi in Europa e della giustizia propria di esso. Una Commissione di inchiesta sull’extraterritorialità in Cina, riunitasi a Pechino il 12 gennaio 1926, ha richiesto, nelle sue proposte per la certezza del diritto in Cina, fondamentalmente solo la piena europeizzazione della legislazione e dell’ordinamento giudiziario cinesi. I criteri in base ai quali si è giudicato se una forma politica sia realmente “Stato” o “matura per essere considerata tale” sono appunto derivati dall’idea che normalmente si ha di uno Stato europeo. Quanto dal punto di vista di un “fondamento di validità formale” positivisticamente concepito appare come una casuale conformità o un parallelismo, giuridicamente irrilevanti, delle determinazioni legali, diviene, nell’ottica di una considerazione scientifica del diritto contenutistico-sostantiva, un’autentica comunità europea, il cui comune diritto reca in sé i tratti di un’autentica common law e, nonostante le grandi diversità tra gli ambiti giuridici germanici, anglosassoni, latini o di altro tipo, non viene dichiarato nullo.
Di ciò vi sono numerosi esempi in ogni singola disciplina giuridica (nel diritto civile, nel diritto commerciale, nel diritto penale e processuale, nel diritto tributario e dell’economia), comunemente noti a ogni esperto di tali discipline. Reciproche corrispondenze e influenze si estendono tanto a rilevanti norme singole e istituti giuridici, quanto alla struttura sistematica dell’intero. Il diritto dei singoli Stati europei, per come esso si presenta oggi, è stato sviluppato in un continuo processo intraeuropeo di simili incontri e reciproche influenze. Possiamo finanche affermare, senza essere accusati di alcuna esagerazione, che l’intera storia giuridica e l’intero sviluppo giuridico dei popoli europei è da migliaia di anni una storia di reciproche recezioni, dove per “recezione” non intendiamo un’accettazione irriflessa e priva di fantasia, bensì un reciproco processo di incorporazione, di adeguamento e di perfezionamento, spesso accompagnato da forti resistenze, capace di riflettersi anche sul diritto recepito, e la cui valutazione nei singoli casi rappresenta una questione a sé. Tali recezioni sono qualcosa di naturale e appartengono allo sviluppo della vita. La situazione a loro riguardo è analoga a quella dei prestiti delle forme e dei motivi nell’arte, nella musica e nella pittura, e anche qui vale l’affermazione di un grande maestro della musica tedesca del XVII secolo: «Prendere in prestito è cosa permessa; si deve solo corrispondere con gli interessi quanto ricevuto». Ma è quanto dovrebbero aver fatto, ognuna a suo modo, tutte le nazioni europee.
2. La scienza del diritto romano come architrave di una scienza giuridica europea
Al primo posto sta qui, ovviamente, il grandioso, plurisecolare incontro-evento della storia del diritto, la “recezione del diritto romano”, che deve essere qui richiamata almeno in sintesi. Tale recezione segna molte epoche dello sviluppo del diritto di tutti i popoli europei, non solo di quelli che l’hanno resa effe...