Nuovo cielo, nuova terra
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L'esperienza visionaria in letteratura

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L'esperienza visionaria in letteratura

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Ogni scrittore è un creatore di trame, eventi, personaggi. Ma esistono artisti la cui visione si estende oltre il mondo materiale e cerca di penetrare le verità celate che muovono gli esseri umani, il destino e i meccanismi stessi dell'universo. Donne e uomini che Joyce Carol Oates non esita a definire «mistici e visionari», eredi degli asceti medievali nella ricerca dei segreti dell'esistenza, la cui opera è percorsa da un anelito irrefrenabile verso ciò che non si può percepire con i sensi, ma solo intuire, sognare, desiderare e, a volte, temere.Così i romanzi di Henry James sono permeati da una caduta mitica, dalla perdita dell'innocenza in un mondo ostile e degradato che richiede il sacrificio dei personaggi; Virginia Woolf, invece, non drammatizza tensioni etiche bensì l'ambiguità della vita e dell'individuo, sospeso tra i ruoli sociali e una brama irrealizzata di trascendere il tempo; la poesia di D.H. Lawrence è insieme esperienza religiosa, comunione con il lettore e diario privato di un uomo per cui la vita precede l'arte; le pagine di Harriette Arnow e di Flannery O'Connor aprono squarci devastanti su un mondo crudele e insensato in cui lo spirito deve soccombere alla materia e l'unica salvezza per l'uomo è una fede quasi fisica in un dio inconoscibile; mentre Franz Kafka racconta un'umanità in bilico tra beatitudine e peccato, tra paradiso e inferno, piagata dalla lacerazione della propria stessa mente.In Nuovo cielo, nuova terra Joyce Carol Oates attraversa tutta la letteratura moderna e contemporanea e, con la precisione di un bisturi e la pazienza del rabdomante, va alla ricerca dei filoni nascosti che rappresentano il suo nucleo più prezioso: il tormento e l'estasi di scrittori memorabili.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788865768891

1. L’arte delle relazioni umane

Henry James e Virginia Woolf
L’arte non riproduce ciò che vediamo. Ci permette di vedere.
Paul Klee, Schöpferische Konfession
Nelle opere di Henry James e di Virginia Woolf l’immaginazione di stampo realista si ritira, non trovando nei loro mondi fittizi evidenza del mondo fisico, naturale, biologico da cui sorge ogni cosa. I loro personaggi sono spiriti privi di corpi personali; abitano il tempo e lo spazio in maniera fantasmatica, e nelle indulgenti complicatezze della loro soggettività il soprannaturale non pare mai distante. Anzi, c’è un vero e proprio elemento ultraterreno in quei mondi fittizi, che esistono senza dolore o appetito in un baluginante, mutevole mosaico di riflessioni estetiche. Che sono stranamente limitate. Tipici giudizi critici sono quelli di E.M. Forster in Aspetti del romanzo (il presupposto di James è che «gran parte della vita umana deve sparire prima di poterci fornire un romanzo») e di Walter Allen in The English Novel (Woolf è una «scrittrice dai limiti angusti [… I suoi personaggi] tendono tutti a pensare e sentire allo stesso modo, ad essere gli esteti di un unico insieme di sensazioni»).
L’accusa è che i personaggi di entrambi i romanzieri non sperimentino lo spettro dell’esistenza com’è davvero; inoltre sembrano abitare mondi in cui problematiche di lotta sociale, di disgrazie e di sofferenza, di dubbiosità religiosa, o persino questioni necessarie alla vita stessa come il lavoro, sono ignorate. Il sentire generale, anche tra gli ammiratori, è che nei romanzi di James e Woolf la sensibilità estetica abbia talmente stritolato la vita da distorcerla e pervertirla, prendendo in considerazione ben poco della ricchezza e della volgarità del mondo reale. Non è mia intenzione affermare che James e Woolf siano simili in numerosi aspetti cruciali; stranamente, anzi, non hanno affinità nella forma, poiché James allestisce forme il cui rigore, benché non altrettanto lampante, è paragonabile agli intrecci del romanzo tradizionale, mentre Woolf cerca di scoprire, insieme ai suoi personaggi, il disegno nascosto all’interno del flusso esistenziale; tematicamente, James è ossessionato dall’educazione morale di creature pastorali – che siano principesse o robusti e adamici viaggiatori americani – mentre Woolf si interessa al tentativo necessario quanto votato all’insuccesso di forgiare dalla vita ordinaria un senso che la trascenda.
Sono affini, comunque, nella creazione di mondi soggettivi che cercano di autodefinirsi in rapporto al più ampio mondo «reale», processo che spesso porta con sé l’annientamento, come in La crociera e Le ali della colomba. Sono più palesemente affini nell’utilizzo di minute osservazioni psicologiche, laddove la ricerca di Woolf è molto più libera e ingegnosa; e nella loro cauta, imperturbabile, a tratti implacabile lealtà verso queste osservazioni. Ciò che più colpisce delle loro opere, comunque, è che al lettore medio appaiono disumanizzate. Impossibile astrarsi dai personaggi dei loro mondi, capaci di sopravvivere in un ambiente alieno, come invece sembra possibile con altri romanzieri – Dickens, Austen, Twain, Joyce. Ma quest’apparente debolezza, comunque, può essere vista come una componente necessaria della letteratura.
Basti pensare a romanzieri rappresentativi – Thackeray e Conrad, per esempio – per capire che la visione della realtà accettata da James e Woolf è marcatamente diversa. Per Thackeray e Conrad, benché imparagonabili in quasi ogni senso, la realtà è stabilita a priori e può essere definita oggettivamente come Storia; per James e Woolf la realtà è un fenomeno soggettivo – più precisamente, una serie infinita di fenomeni soggettivi che possono essere o non essere correlati. Le vite segrete degli altri restano tali; non ci si può infiltrare al loro interno, e gli esigui lampi relazionali tra le persone sono infidi e deperibili. Anche i morti sono fonte di mistero. Milly Theale e la signora Ramsay influenzano la «realtà» dopo la loro morte, ma il loro effetto sugli altri non porta con sé alcuna improvvisa comprensione da parte dei sopravvissuti. Le essenze umane, avvolte nel mistero, sono eternamente unite al singolo momento esistente in cui sono espresse – non possono astrarsi da esso, non possono essere riassunte, comprese, nemmeno dimenticate. Se, nell’arte moderna, è una verità lapalissiana che le cose non esistono e sono solo le relazioni a esistere, questa osservazione si presta bene a spiegare la letteratura di James e Woolf. La loro preoccupazione primaria è il mistero e la bellezza e la tragicità delle relazioni umane, non le profondità del reale che compongono la «personalità» umana. La creazione dei personaggi fine a se stessa, completa pur non operante in equazioni relazionali o psicologiche con altri personaggi, comporta una base metafisica che in apparenza James e Woolf non hanno a disposizione, o non hanno scelto. Le loro metafisiche hanno in comune l’idea che l’uomo acquisti la sua identità, sperimenti la sua «vita», solo in rapporto agli altri – altre coscienze intelligenti con cui può comunicare. Inoltre, la realtà del singolo come individuo è determinata da queste relazioni, che sono essenzialmente transitorie e, specialmente in Woolf, inaffidabili. Il più antico sentire dell’uomo che si definisce in rapporto a Dio o alla nazione o alla «Storia» familiare è stata soppiantata in James e Woolf dalla sensibilità del moderno intellettuale secolare che non ammette altra realtà al di fuori di quella della mente.
I
Il grande mito di James è essenzialmente il mito della Caduta: per James, erede dei suoi antenati puritani come Hawthorne e Melville, la caduta è sfortunata in quanto porta con sé la macchia mortale della decadenza così come l’«educazione» che dovrebbe essere una specie di vittoria minore compensativa. Si deve dunque definire il mondo di James come esistenzialmente pastorale: un’estensione, in un più riconoscibile donnée sociale, dell’Eden degradato di Il giro di vite. Il paradiso di innocenza è trascinato precariamente nell’animo di tutta una serie di eroine verginali che sono discendenti umanizzate della Hilda di Hawthorne più che della Clarissa di Richardson – la purezza americana che definisce una purezza spirituale estesa a proporzioni mitologiche, anziché essere reale, fine a se stessa come invece nel romanzo inglese. Così abbiamo Isabel Archer, Maisie la bambina tradita, i piccoli Miles e Flora, Maggie Verver, Milly Theale, e Fleda, sconfitta dalle prede di Poynton perché «troppo buona» per competere con loro. Abbiamo anche Lambert Strether, l’ambasciatore da Woollett, Massachusetts (l’innocenza indurita in sterilità, banalità), a Parigi (vita istintiva indurita in sordidità), che è un vedovo, ha sperimentato la morte del suo unico figlio, eppure appare insoddisfatto finché non fa i conti non semplicemente con la ricchezza della vita che l’Europa sembra offrire ma con la devastante suggestione malefica di fondo che questa vita «reale» nasconde. In Gli ambasciatori (1903) James raffina l’esperienza perché attinga più alla qualità del pensiero che alla vita, portando Forster a fare la considerazione che ho già citato; allo stesso tempo, James sviluppa fino alla perfezione l’arte della narrazione secondo punto di vista, ristretta alla terza persona, raccontando la storia solo attraverso la coscienza limitata, per quanto in espansione, di Strether. Il romanzo potrebbe essere definito una registrazione minuziosa di un’educazione alla realtà del sé e del mondo condotta interamente attraverso la decodificazione dell’eroe delle sue relazioni con gli altri e delle loro relazioni tra loro. Viene in mente una musica colata in forme visibili: si percepisce quasi una danza, l’alternanza di compagni di ballo, e mai, come in Austen, una spinta gravitazionale verso la «verità» e il «bene», che sono un’unica cosa, semmai una spinta implacabile verso la conoscenza. Non si può immaginare Strether fuori dal romanzo; il suo ambiente fisico lo definisce, diventa lui. Per un uomo della sensibilità di Strether, affatto raro ai nostri tempi, è la considerazione di ciò che non è immediato a segnare o minare il presente: «l’ossessione per l’altra cosa è il terrore» dice. Ma la realtà di questo mondo di infinite restrizioni è forse meno legittima della realtà di violenza del romanzo americano, uno così devoto alla mente, l’altro al corpo? James era sicuramente influenzato dai trascendentalisti nella sua comprensione e insistenza sulla legittimità dell’esperienza psichica in quanto realtà totale a dispetto dell’opposizione di certi critici come H.G. Wells. In un senso cruciale tutta l’arte è pastorale, le sue eccezioni sono almeno significative quanto le sue conferme. Per James la tecnica necessaria a investigare la realtà fino ai suoi abissi è così precisa, così sottile, che la gamma investigata dev’essere limitata. La tecnica jamesiana non può essere fusa con successo con il romanzo d’azione, né c’è alcuna ragione perché debba esserlo o perché, fallendo il suo coinvolgimento nella «vita totale», debba essere considerato in qualche modo incompleto: deumanizzato o, come dice Forster, castrato.
In James così come in Woolf c’è la suggestione che l’arte controlli la vita, che le richieste del romanzo «architettonicamente competente» debbano alterare il libero flusso della vita e che, specialmente in Woolf, la squisita epifania diventi fine a se stessa piuttosto che uno strumento per illuminare il personaggio; come se il romanzo fosse solo un romanzo «di personaggi» in senso letterale. Se esaminiamo dettagliatamente l’opera più soddisfacente e forse più jamesiana, Le ali della colomba (1902), però, ci darà ciò che certamente appare come il tentativo più esaustivo o il riflesso di un’esperienza tragica. È l’esperienza che conta; il risultato estetico è secondario. La trama del romanzo suona leggendaria: un’ereditiera morente americana, Milly Theale, è tradita dal suo «amante», Merton Densher, che è innamorato di un’altra donna. Questa donna, la bellissima e potente Kate Croy, ha guidato la relazione nella speranza che col matrimonio di Milly e Densher, e la morte prevista di Milly, i beni di Milly finiranno a loro e completeranno le loro vite. Milly scopre il complotto, la sua morte è accelerata, ma lascia comunque i soldi al ragazzo: attraverso questo atto che impone nei suoi traditori un senso morale così violento da cambiare le loro vite, Milly ci ricorda le vittime passive di Dostoevskij – il santo, il debole, l’impotente, che possiedono paradossalmente, come Dostoevskij ha pensato, il più grande potere nel mondo. È la sottomissione di Milly al suo «fato» che mette in salvo i suoi poteri; ma non è una perversa masochistica sottomissione paragonabile a quella che le donne di Dostoevskij talvolta esibiscono – per esempio, la suicida Nastas’ja Filippovna di L’idiota – è piuttosto una cristiana arrendevolezza dell’io ai peccati degli altri, che causa una trasformazione morale nei peccatori. Non che James fosse cristiano, e nemmeno visibilmente coinvolto in problemi religiosi. Ma il movimento di questo romanzo, il suo stesso ritmo sacrificale di autorealizzazione morale, il tema del potere dell’amore altruistico – tutto ciò è inconfondibilmente parallelo all’esperienza religiosa, che sia cristiana o tragica in senso greco. Milly incarna i ruoli simbolici dell’innocente adamico e della salvatrice, la transizione dall’uno all’altra precipitata dal suo incontro con il male; lei è la colomba le cui ali si spiegano a includere la lordura, a trasportare la sua innocenza via dalla salvezza della morte (la colomba come anima), la colomba del sessantottesimo salmo, come R.P. Blackmur ha notato: «Mentre voi dormite tra gli ovili, splendono d’argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d’oro». Soprattutto, Milly è una vittima sacrificale. «Perché mi dici cose del genere?» chiede a Kate in un inusuale momento di debolezza.
Kate risponde:
«Perché sei una colomba.» Con la quale [Milly] si è sentita così delicatamente, dolcemente abbracciata; non con familiarità o come una presa libertà, ma quasi cerimoniosamente…
Come se fosse la funzione, il destino dell’innocenza a essere vittimizzato: l’innocente condannato ad accettare i peccati commessi contro di lui. Se Milly si sente colpevole di una debolezza, può essere solo la sua intensa brama di vivere, ovvero, di amare ed essere amata, e questa «debolezza» la supera attraverso la sua completa obliterazione dell’io. È la passività dell’amante che ama davvero, che non altera, in parole shakespeariane, quando «alterità trova» ma continua ad amare di fronte al tradimento. La piccola ereditiera americana acquista una dimensione tragica solo attraverso le tecniche di James, perché la situazione è ben poco tragica.
Non è, riassumendo rozzamente, un esercizio di terrore convenzionale quello che Milly patisce all’inizio del terzo libro quando la incontriamo per la prima volta – la paura che le due donne sole, in giro insieme per l’Europa, fossero «inclini ad essere sedotte e dominate»? Precisamente: ma la cosa importante non è l’esperienza bruta in se stessa. È la consapevolezza di Milly della sua esperienza, e la coscienza del peccato da parte di Kate e Densher, che lo rendono un grande romanzo. È un’educazione, una crescita del senso morale implicato in ogni cosa, a costituire la «realtà» del romanzo. Milly è lo strumento attraverso il quale ci è mostrata la conoscenza tragica del rapporto tra vita e morte, essendo la vita appagata soltanto nella morte (conoscenza), la colomba che diventa il simbolo – e James ci mostra l’alquanto trita immagine nell’attuale processo di diventare simbolo – di morte-in-vita, vita-nella-morte. La dea greca Ate è qui sconfitta, in quanto l’assimilazione del male da parte dell’innocente, il rifiuto di perpetrarne il potere passandone le sofferenze agli altri, sono influenzate dal silenzio di Milly: per dirlo con le parole intrise di stereotipico dolore della signora Stringham, «Ha voltato la faccia al muro». La bellezza dello spirito oscura il «talento di vivere» di Kate Croy, l’opposto di Milly; il potere della colomba oscura quello della pantera.
Virginia Woolf commenta così Le ali della colomba nel suo diario il 12 settembre 1921: «… E poi è impossibile rileggerlo. La morsa mentale e l’elasticità sono magnifici. Mai una frase fiacca o trascurata, semmai castrata da […] timidezza o coscienza…». La verità è che, ovviamente, il romanzo deve invece essere «riletto», che una prima lettura non può non essere superficiale. La timidezza e la coscienza che Woolf disapprova sono la materia stessa del romanzo: senza la tecnica avremmo qualcosa come una commedia di costume, eccetto il finale tutt’altro che comico. Ciò che fa sembrare il romanzo castrato o almeno eccessivamente rifinito è la sua insistenza sull’esplorazione di motivi e giudizi in modo estremamente dettagliato. Eppure James non è mai criptico; ogni episodio porta avanti l’«azione», intendendo per azione gli avvenimenti relazionali tra i tre o quattro personaggi principali. Il potere di James è di tipo cumulativo. Solo il lettore che è arrivato a meritare, come James, l’esperienza del tradimento di Milly, può apprezzare la realtà di questa improvvisa realizzazione di Densher:
… Sentiva a momenti, come finale impulso o definitivo rimedio, il bisogno di seppellire nell’oscura cecità del loro abbraccio la reciproca conoscenza che non potevano annullare.
Un’impossibilità: poiché l’educazione jamesiana ricorda l’e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. 1. L’arte delle relazioni umane. Henry James e Virginia Woolf
  5. 2. Il sole ostile. Henry James e Virginia Woolf
  6. 3. Anarchia e ordine nella Trilogia di Beckett
  7. 4. L’incubo del naturalismo. "The Dollmaker" di Harriette Arnow
  8. 5. Le agonie terminali del romanticismo. La poesia di Sylvia Plath
  9. 6. L’arte visionaria di Flannery O’Connor
  10. 7. La teleologia dell’inconscio. L'arte di Norman Mailer
  11. 8. Dalla pietra alla carne. L’immaginario di James Dickey
  12. 9. Il paradiso di Kafka
  13. Note