1. La giovinezza di Gesù è il Vangelo della speranza che rende liberi per amare
La proposta culturale di papa Francesco per tutti i giovani
L’esortazione apostolica post sinodale – Christus vivit – di papa Francesco è donata ai giovani e a tutto il popolo di Dio. Come tale non è solo una «proposta confessionale», ma evidentemente, prima ancora, è una «proposta culturale». Se così non fosse, il papa non si sarebbe rivolto ai giovani, distinti dal popolo di Dio. È noto che i giovani fanno parte del popolo di Dio. Solo quelli battezzati e cresimati? O anche gli altri? Cosa è il popolo di Dio? È una realtà storica che include tutti gli «animali dal volto umano», perché creati a immagine e somiglianza di Dio, e quindi presenza di Dio nella vicenda storica degli umani. Tutti – nella grazia dello Spirito creatore – sono «di Dio» e quindi «suo popolo».
È una proposta culturale, prima che pastorale
Tuttavia, il vescovo di Roma è segno di unità del popolo di Dio cattolico e la Chiesa cattolica è, oggi, una delle tante vie del cristianesimo nel mondo. È un dato di fatto, benché dispiaccia purtroppo a molti. Il Vangelo di Gesù è il cristianesimo, perciò il cristianesimo s’identifica con quanto Gesù ha «fatto e detto», con la sua rivelazione del Dio solo e sempre amore. Come tale, il Vangelo non è solo un insegnamento dottrinale, ma è potenza di Dio che opera nel cuore dell’uomo che crede.
Questo Vangelo è annunciato nel mondo (in contesti culturali ben precisi e plurali) ed è destinato a tutti gli uomini. Le modalità e le forme di questo annuncio sono molteplici, per necessità storica. Comunità e Chiese si costituiscono anche per questo, per aver scelto un modo di evangelizzare, piuttosto che un altro.
Il cattolicesimo è, perciò, una delle vie sulle quali i giovani possono/devono incontrare Gesù.
La Chiesa cattolica è come uno strumento attraverso il quale questo incontro salva la vita dei giovani: perché Cristo vive come realtà d’amore, capace di cambiare l’esistenza e non semplicemente un’«idea regolativa» su come andare avanti nei marosi dell’esistenza umana. La rivelazione salvifica di Dio accade con «parole e fatti» (verbis gestisque) intrinsecamente connessi, cioè indissolubilmente legati, per riferimento ai quali bisognerebbe anche dire: «non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito».
Fa bene allora il papa a distinguere i destinatari. Nel «popolo di Dio» ci sono, inevitabilmente, tutti i giovani cattolici. Nei «giovani» ci sono i giovani cattolici e tutti gli altri. Perciò la proposta della giovinezza di Gesù è «culturale» (prima di essere confessionale), perché ciò che Cristo è «per noi cattolici», in verità è «per tutti».
A chi si rivolge papa Francesco quando scrive sul protagonismo dei giovani, perché siano attivi e costruttori del loro futuro?
Vediamo:
Voglio incoraggiarti ad assumere questo impegno, perché so che «il tuo cuore, cuore giovane, vuole costruire un mondo migliore. Seguo le notizie del mondo e vedo che tanti giovani in tante parti del mondo sono usciti per le strade per esprimere il desiderio di una civiltà più giusta e fraterna. I giovani nelle strade. Sono giovani che vogliono essere protagonisti del cambiamento. Per favore, non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi siete quelli che hanno il futuro! Attraverso di voi entra il futuro nel mondo. A voi chiedo anche di essere protagonisti di questo cambiamento. Continuate a superare l’apatia, offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. Cari giovani, per favore, non guardate la vita “dal balcone”, ponetevi dentro di essa. Gesù non è rimasto sul balcone, si è messo dentro; non guardate la vita “dal balcone”, entrate in essa come ha fatto Gesù». Ma soprattutto, in un modo o nell’altro, lottate per il bene comune, siate servitori dei poveri, siate protagonisti della rivoluzione della carità e del servizio, capaci di resistere alle patologie dell’individualismo consumista e superficiale» (Christus vivit [d’ora in poi ChV] 174).
Sembra fare un appello paterno ai giovani cattolici, per un discernimento vocazionale serio che porti a domandare non tanto «chi sono io», ma «per chi sono io» e concepire così la vita come dono e servizio, abnegazione e carità verso gli altri, sul modello di Gesù e della sua pro-esistenza. Eppure, questo appello riguarda il giovane in quanto tale. È destinato a tutti. Perciò, il papa urge una pastorale giovanile più inclusiva, ospitale, accogliente, affinché tutti possano con «orecchio rinnovato» ascoltare il Vangelo apprezzandone la bellezza umana e l’intelligenza feconda che consente a tutti (non solo ai giovani cattolici) di gustare i grandi valori dell’esistenza, cui tutti aspirano, più o meno consapevolmente: tutti, infatti, tendono all’amore, all’amicizia, alla fraternità, alla felicità e alla gioia dello stare insieme impegnandosi nella cura di altri, nel servizio a fratelli e sorelle svantaggiati e poveri, disagiati e, spesso, scartati. Il cuore del giovane – pur dentro il ghiaccio di tanta indifferenza della società dell’ipermercato – resta umano e pulsa al ritmo di un affetto per l’umanità che va valorizzato.
Anche da questo versante – è proprio il caso di insistere – la riflessione di Christus vivit è anzitutto culturale, prima ancora che pastorale. Lo si evince con chiarezza dalla sua richiesta di una «pastorale giovanile popolare» (ChV 230-238) che non si fermi ai luoghi tradizionali della pastorale: oratori, centri giovanili, scuole, associazioni, movimenti. Questi, infatti e purtroppo, intercettano solo una parte del mondo giovanile, escludendone per forza altre: il giovane che si professa credente e cristiano ma non cattolico o religioso e non cristiano o ateo, chi lo incontra? E chi – anche cattolico, ma attraversato da dubbi, errori, traumi che mantiene le distanze dalla Chiesa cattolica – non va guardato con attenzione e missionariamente recuperato come la pecorella perduta che Gesù va a cercare nel deserto, mentre le novantanove le lascia nel recinto? E chi dovrebbe e potrebbe incontrare questi giovani, se non i giovani stessi? E dove li incontrerebbero, visto che i giovani (nella quasi totalità) non si ritrovano più negli spazi istituzionali della Chiesa cattolica?
Ossessione per la dottrina e/o creazione di un contesto empatico
La chiesa cattolica – per la sua via – si fa comunicazione di un messaggio per tutti i giovani cercando, per questo, la «simpatia» di tutti, la stima di tutti, perché senza credibilità non ci può essere annuncio. L’urgenza pastorale di annunciare la giovinezza di Gesù ai giovani porta pertanto ad avviare un processo di autocritica della Chiesa cattolica sul suo possibile invecchiamento, se resta nostalgica del suo passato remoto o prossimo, frenata e resa immobile (ChV 35). La tentazione di perdere l’entusiasmo e di «cercare false sicurezze mondane» (ChV 37) porta spesso a perdere la propria identità, annacquando la verità del messaggio evangelico o, addirittura nascondendolo, mimetizzandosi, con la scusa di rinnovarsi.
Invece: «dobbiamo avere il coraggio di essere diversi, di mostrare altri sogni che questo mondo non offre, di testimoniare la bellezza della generosità, del servizio, della purezza, della fortezza, del perdono, della fedeltà alla propria vocazione, della preghiera, della lotta per la giustizia e il bene comune, dell’amore per i poveri, dell’amicizia sociale» (ChV 36).
Da dove si attingerà questo coraggio se non dalla sequela di Gesù e dalla potenza dello Spirito inabitante il cuore di tutti i cristiani. Assumere «la forma di Gesù» – nel senso di san Paolo quando dice «Io, non io, ma è Cristo che vive in me» – è il modo ordinario per portare il Vangelo, sapendo che il soggetto ultimo e primo di questo annuncio è proprio lo Spirito Santo che opera nel cuore dei credenti per forgiare Cristo vivo in loro. La conversione a Cristo e alla sua giovinezza sono obbligatorie per essere cristiani, depositari di un messaggio di salvezza rivolto a tutti i giovani, perché tutti i giovani sono destinatari della speranza del Vangelo. Il Vangelo è creduto come speranza per il mondo da «molti». È evidente. Tuttavia, questa fede è per convincere tutti. Ecco, dunque, il motivo di fondo perché il Vangelo della giovinezza di Gesù deve missionariamente parlare a tutti e, per parlare a tutti, deve poter attingere alla potenza universale del suo Logos. Non basta (e talvolta non serve, anzi spesso dis-serve) parlare il «nostro linguaggio religioso cattolico» (simboli, dottrine, riti e quant’altro). È indispensabile ricavare, dal di dentro di questo linguaggio religioso, quella lingua comune che corrisponda all’umano-comune-in–ogni uomo. La «capacità di inclusione» è la keyword della proposta pastorale di papa Francesco. Se tutti vanno inclusi, è allora piuttosto evidente che occorra placare «l’ansia di trasmettere una gran quantità di contenuti dottrinali», cercando, invece, «di suscitare e radicare le grandi esperienze che sostengono la vita cristiana» (ChV 212).
No, dunque, alla dottrina e sì solo all’esperienza?
Non è questo il problema. Per il cattolicesimo è impossibile educare all’esperienza cristiana senza dottrina. Non la dottrina ma l’ossessione per la dottrina è necessario dismettere del tutto. Gli incontri di formazione cattolica all’esperienza cristiana sono, infatti, troppo spesso concepiti come «trasmissione scolastica» di contenuti di verità. Come se fosse necessario un passaggio dalla mente di chi li espone alla mente di chi li ascolta. È questa prassi diffusa, nell’atmosfera odierna, creata da certo «intellettualismo» degli stessi predicatori, i quali – avendo in testa «idee chiare e distinte» e sapendole comunicare con ragionamenti logicamente lapalissiani e incontrovertibili – ritengono vengano con la stessa chiarezza e logicità recepiti e assunti e, così, praticati e vissuti. Purtroppo, non è così. I corsi di formazione (come anche la comunicazione del catechismo) devono tener conto non solo (ma necessariamente) dell’intelletto e della ragione, ma anche (e soprattutto oggi) di altre facoltà dello spirito umano, quali la volontà, il sentimento, l’intuizione, l’immaginazione. Perciò, deve essere possibile che la dottrina venga trasmessa non trasformandola in «bunker a difesa dagli errori della cultura esterna, impermeabili al cambiamento» (cfr. ChV 221). È invece indispensabile che la dottrina «assuma carne», entri cioè nella carne dei drammi umani, di tutti, affinché i giovani non si annoino a morte con le nostre distinzioni sottili e disquisizioni filosofiche. Non la dottrina, ma il modo con cui oggi la si comunica, magari anche senza alcun riferimento più al Vangelo, come se la dottrina non fosse il Vangelo stesso che – col mutare dei giorni e delle stagioni – attraverso le difficoltà della vita, cerca di attualizzare nella «carne di quel momento, di quel problema» la verità salvifica del Vangelo.
L’annuncio del Vangelo e – anche della dottrina – accade dentro spazi di accoglienza nei quali tutti si sentono capiti, interpretati, amati, «inclusi» nell’affetto nuovo generato da Gesù con la sua morte e risurrezione.
Anche questo dovrebbe portare a interrogarsi sul «come si comunica», per comprendere quali siano oggi le strategie da inventare perché la comunicazione anzitutto accada e poi sia salvifica. Si dovrà anche immaginare una strategia comunicativa che nasca dall’ascolto dei giovani e, a un tempo, del Vangelo. Sì, perché Gesù fu anche un grande comunicatore. Perciò, Gesù non è solo «il contenuto-significato-verità» da comunicare, ma è anche la «forma stessa della comunicazione»1.
Creare spazi in cui risuoni la voce dei giovani
C’è un’urgenza pastorale prioritaria da non sottovalutare. Si tratta di «“creare più spazi dove risuoni la voce dei giovani”, per costruire le condizioni indispensabili dell’annuncio, quel contesto di empatia grazie al quale è possibile che la Chiesa affascini con la sua fraternità e diventi dialogo, così da raggiungere il cuore dei giovani “in modo incisivo e fecondo”» (ChV 38). D’altronde – come ha più volte ricordato papa Francesco –, l’ascolto è un atto di fede. Per Israele, il primo comandamento della fede è Shemà, ascolta. Per il cristianesimo, poi, la fede cresce e matura ex auditu, dall’ascolto. Perché il cristiano possa ascoltare la Parola di Dio e accoglierla in quanto tale è dato lo Spirito Santo (potenza e forza, origine e soggetto del vero discernimento e del possibile ascolto). E allora? Dio parla dappertutto. In Gesù – Parola del Dio vivente, rivelazione auten...