A Monaco nel 1807: “morte dell’arte” e sopravvivenza dell’estetico?
Tonino Griffero
1. Morte dell’arte?
L’entusiasmo di Schelling1 per l’arte dura ben poco. A rigore, non più dei cinque anni che separano la messianica conclusione del Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) dalle ultime lezioni sulla Filosofia dell’arte (1802-3/1804-5), già comunque segnati dalla dismissione della tesi dell’ulteriorità dell’arte in favore di una più sobria ridefinizione della sua funzione anagogica nel cosmo esemplaristico della filosofia dell’identità. Nel Discorso sulle arti figurative e la natura (1807), l’arte a tratti sembra presentarsi addirittura (hegelianamente) come un relitto del passato, meno che mai in grado di fornire la superprestazione epistemologica precedentemente affidatale. Ma non è Schelling, come impone la vulgata, il sostenitore del cosiddetto “assolutismo estetico”, se non, addirittura, il filosofo dell’estetica, ossia il solo filosofo di rango cui sia riuscito non solo di emancipare l’arte, e la filosofia che la tematizza, dalla sua tradizionale condizione periferica, ma di farne la rivelazione suprema e pertanto la sola via d’accesso all’intera filosofia?2
Senza dubbio, ma solo per breve tempo. È bene comunque ricordare che Schelling non vuole dare alle stampe le lezioni sulla filosofia dell’arte, e tanto meno elaborare una “estetica” nel senso stretto del termine, ritenendo meritevole di diffusione solo la propria concezione del tragico come ideale dell’arte3, come quella condizione di indifferenziazione di soggettivo e oggettivo in cui la libertà appare riaffermata dalla sua stessa perdita. È altresì noto che, proprio nel momento in cui indossa i panni di Segretario Generale dell’Accademia delle Arti Figurative di Monaco (1808-1821)4, lasciati in seguito per quelli di Conservatore Generale delle Collezioni Scientifiche Reali (1827-1841), il nostro filosofo «stranamente cess[a] di interessarsi speculativamente dei problemi dell’arte»5, limitandosi a patrocinare il valore didattico dell’Accademia, intesa come una libera società artistica capace di formare spiriti che, senza essere necessariamente geniali (un dono che nessuna didattica è in grado di garantire), possano rivitalizzare l’interesse della vita pubblica per le arti (SW VII: 553-567). Una disincantata diagnosi sociologica il cui valore è però anche autobiografico: come spiegare altrimenti che il Direttore dell’Accademia (il pittore Johann Peter von Langer) chieda alle autorità di rimproverare il filosofo per una certa negligenza rispetto ai suoi compiti istituzionali6, e che a più d’uno egli sembri disinteressato se non addirittura incompetente in campo artistico, comunque inadatto a realizzare quanto progettato?7
È come se, eletto simbolicamente a custode ufficiale dell’arte, Schelling preferisse interessarsi pubblicamente solo degli aspetti burocratici della propria carica istituzionale e privatamente della difesa da eventuali accuse di plagio8. Come se, valorizzando un luogo del Discorso – «quante cose da molto tempo si sono sentite, pensate e dette dell’arte!» (SW VII: 291) –, ritenesse di essersi speso eccessivamente in ambito estetico e troppo poco per il necessario rinnovamento etico del popolo tedesco. Certo, neppure ora Schelling disconosce il fatto che solo l’arte rende fisicamente accessibile la perfezione sublime (SW VII: 292), arrivando così direttamente al cuore delle persone (SW IX: 471), ma dinanzi alla crescente autoreferenzialità degli artisti del suo tempo, i quali in definitiva «non sono veri poeti nati, [perché] fanno per lo più poesia sulla poesia» (SW VIII: 457), non sente evidentemente alcun rimorso nel voltare «le spalle all’arte viva del suo tempo»9, persuaso sia della crisi dell’arte del suo tempo (Plitt II: 231), sia della necessità di raffreddare l’eccessivo entusiasmo romantico per l’arte, e interessato semmai a mettere a frutto la pregnanza dell’intuitività non tanto nell’estetica10 quanto in un orientamento teosofico-narrativo il cui esito dovrebbe essere niente meno che la “biografia” filosofica del Dio-che-diviene (è il senso del progetto, incompiuto, delle Età del mondo, 1811-1815).
Questo relativo disinteresse per l’arte non farà che accentuarsi nella sua ultima filosofia, i cui temi prediletti sono, com’è noto, la mitologia e la rivelazione. In essa l’arte antica, per la sua natura essenzialmente pagana11 e per quel suo carattere necessario che l’arte moderna crede ingenuamente di poter surrogare incrementando la quantità di opere, peraltro minate dal soggettivismo e dallo scetticismo (SW XI: 242), resta sì un modello inarrivabile per la psicologia e l’arte moderne, ma è comunque presa in considerazione più per il suo contenuto strettamente mitologico che non per il suo valore estetico. Di più: respingendo la tradizionale tesi del significato poetico della mitologia attraverso un’acuta reinterpretazione di Erodoto (Omero ed Esiodo non avrebbero creato, ma solo ordinato poeticamente, la teogonia greca), Schelling sconfessa una volta per tutte la nostalgia romantica per una età poetica originaria, spiegando come la mitologia sia assolutamente anteriore all’invenzione poetica, la quale presuppone un rapporto già libero col divino e quindi del tutto impossibile nello stadio estatico della coscienza mitologica (dunque solo embrionalmente poetica, in quanto abitata da una poiesis naturale e inintenzionale). Privata di una sua immemoriale età dell’oro, l’arte non avrebbe (più) un carattere inaugurale neppure nel presente, dal momento che, diversamente da quanto accade nell’antico, in cui è la poesia il fondamento della filosofia, nel mondo moderno è la filosofia ad allestire (eventualmente) il terreno propizio per la poesia, fornendole i “grandi oggetti” universali e necessari oggi fattisi incomprensibili, quegli «oggetti poetici in se stessi» (SW XI: 242) che promettono, insieme a una rinascita poetico-estetica, il superamento dell’universale infelicità. L’arte potrebbe dunque anche rinascere – «lo stordimento dell’arte ipocrita e corporativa passerà» (Plitt II: 423) –, ma solo se una nuova filosofia (e non l’entusiasmo teosofico) ne è la conditio sine qua non12 e se, di conseguenza, i migliori tornano a dedicarvisi13.
Una metamorfosi non di poco conto, visto che, se nel periodo di Jena il grande valore dell’arte deriva dal suo distacco dal cosiddetto mondo reale, ora il suo relativo valore dipende unicamente dalla capacità di inseguire la realtà e di sintonizzarsi su di essa. Il riconoscimento della sua ineffettualità rispetto alla crisi del tempo conferma la crescente diffidenza schellinghiana verso la genialità artistica e comunque la sua indiscutibile retrocessione rispetto alla genialità filosofica e religiosa (SW X: 293). All’arte è ora assegnato un ruolo del tutto provvisorio e preliminare rispetto alla futura “religione filosofica” o filosofia positiva, tanto che, dei tre gradi della vita contemplativa, essa occupa quello mediano, posto al di sopra di quello soggettivistico della “devozione mistica” ma al di sotto di quello supremo-oggettivo rappresentato dalla “scienza contemplativa” (filosofia), direttamente in rapporto con Dio in virtù della trasformazione dello “spirito” in “anima” (SW XI: 556-557; X: 118-119). Pur potendo dunque, grazie all’entusiasmo spersonalizzante di cui si nutre, preparare l’ascesa al vero essere, all’arte non è concesso di procedere dall’essenza all’esistenza di Dio, a Dio come “signore dell’essere”. Tre le ragioni: a) la transitorietà della condizione contemplativa (SW XI: 559-560), e quindi della gioia e bellezza che ne scaturiscono (licenziamento in tronco dell’“anima bella”); b) il carattere inevitabilmente “passato” della contemplazione rispetto al volgersi della filosofia positiva non all’essenza ma all’indeducibilità del reale (e chi contempla, invece, «intrattiene unicamente un rapporto ideale con questo Dio»; SW XI: 559); infine c) l’evidente inutilità dei tesori dell’arte, al confronto coi monumenti della fede più antica, come medium esplicativo della vicenda cosmoteandrica della coscienza, articolata in caduta (mitologia pagana) e promessa del ritorno a Dio (rivelazione biblico-cristiana).
Divenuta, allora, analogamente alla contemplazione e alla coscienza mitologica, qualcosa di “passato”, l’arte sarebbe fondamentale, in quanto tale14, solo per chi è già felice e ignora dunque che il presente richiede l’opposto dell’immaginosità estetica, ossia «la prosa più pura e la sobrietà totalmente non intuitiva» (SW XIII: 122). Persino il mondo “felice” degli antichi, cui si deve indubbiamente la massima esaltazione della natura nella bellezza visibile degli dèi, dell’arte e della scienza, appare ora a Schelling velato da una maschera illusoria, poiché dove domina esclusivamente il “fondamento” (Grund), ancora non trasfigurato nello spirito dell’amore, la felicità non può che essere dimidiata. Non si può non segnalare, tuttavia, come questa convergenza e (perché no) confusione di motivi speculativi e sociologici sancisca la “retrocessione” dell’arte come ontologia regionale ma non certo del “sentimento artistico” o senso dell’organicità, che risulta indispensabile anche a ogni vera sistematicità filosofica (SW XIII: 88)15, né del valore più generalmente ascritto all’estetizzazione della ragione, cioè a un orientamento che non è esagerato definire “estetico” in quanto modellato – giusta l’esigenza per un pensiero volto all’originario di farsi assorbire dall’alterità “positiva” al di là di ogni vincolo egologico e meramente riflessivo16 – sull’epifanicità indistintamente artistica e religiosa. A una filosofia che, pur nel suo perenne divenire, non cessa mai di voler vincere la deietta condizione di anestesia, e con ciò di trapassare nel proprio altro (che questo “altro” sia l’arte, una narratività epica extra-riflessiva oppure la positività storico-dinamica della rivelazione), contando così su modalità che possono dirsi non meno “estetiche” che “estatiche”: a patto, naturalmente, che con “estetica” non s’intenda né la dottrina del gusto né la filosofia dell’arte, bensì la presa d’atto dell’inevitabile ammutolimento cui soggiace il pensiero dinnanzi all’assoluta inconcettualità dell’essere17.
2. Arte e melanconia
Non stupisce, allora, che anche i contributi apparentemente estetico-artistici del secondo Schelling non tocchino affatto l’arte né la bellezza, concentrandosi piuttosto, anche dove si prendano in esame opere plastiche e architettoniche (cfr. Tilliette: XLII, n. 106), in modo filologico-antiquario esclusivamente sul loro contenuto storico-mitologico e religioso. Emblematico ci pare il caso dell’erudita conferenza Sul significato di uno degli affreschi recentemente scoperti a Pompei (1833) qui tradotta (cfr. infra Addenda): indifferente agli eventuali valori artistici dell’affresco (“Le nozze di Crono e Rea”),...