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Sviluppo e capacità nella microfinanza solidale

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Sviluppo e capacità nella microfinanza solidale

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Non solo denaro: sviluppo e capacità nella microfinanza solidale nasce dall'esperienza di studio e ricerca del Gruppo su Valori, Etica ed Economia, nato dalla collaborazione tra l'Università di Torino (Cattedra Raimon Panikkar) e la Fondazione Arbor. Il volume vuole essere un utile strumento per studenti, ricercatori, tecnici dello sviluppo e per tutti coloro che si interessano ai temi della microfinanza, della cooperazione internazionale, ai concetti di empowerment e capacity building, alle metodologie di ricerca e alla valutazione d'impatto dei progetti di sviluppo. Non solo denaro è pensato come un volume collettaneo, composto da sei capitoli tra loro indipendenti ma legati da un filo comune: l'esperienza di studio e di ricerca del progetto di sviluppo nato in Andhra Pradesh a opera della Fondazione Arbor.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857575551
Argomento
Business

ROBERTO BURLANDO

1.

MICRO-FINANZA, SVILUPPO E BUONA VITA: CONTRIBUTI, POTENZIALITÀ E PROBLEMI

Dopo parecchi anni in cui ha avuto grande risalto e pubblicità il Microcredito (e la Microfinanza in genere, anche se meno nota) pare ormai sostanzialmente uscito dall’attenzione del pubblico e anche dalla considerazione degli economisti. Si direbbe che abbia perso il grande “appeal” che ha esercitato per anni presso pubblici diversi – sia quello di economisti e scienziati sociali sia di persone interessate ai temi dello sviluppo e della sostenibilità, per ragioni operative o per pura attenzione a quel che succede nel mondo – e che sia pressoché dimenticato.
Certo è apparso manifesto che le enormi speranze riposte in questo strumento non hanno trovato una corrispondenza nella complessa e difficile realtà dei processi di sviluppo, in particolare nei paesi della “periferia” del Mondo (quelli che un tempo si indicavano eufemisticamente come Pvs, paesi “invia di sviluppo”), ma la prima questione cruciale relativamente a questa evidente discrasia è se fossero eccessive e/o infondate le grandi speranze riposte nel microcredito e perché, o se invece lo strumento è stato applicato male o, ancora, se sul campo si è rivelato meno efficace di come appariva nelle analisi teoriche. Crediamo – e nel prosieguo di questo lavoro cercheremo di sostanziare le ragioni di questa valutazione – che ci siano evidenze che mostrano come elementi di tutte e tre le considerazioni, se adeguatamente considerati e contestualizzati, concorrano a spiegare quel che è successo, mentre nessuna di esse è in grado di fornire una prospettiva esclusiva e sufficiente.
Occorre, però, dire subito che Microcredito e Microfinanza non sono scomparsi né, fortunatamente, dalla “cassetta degli attrezzi” dei professionisti che sul campo si occupano di sviluppo né, purtroppo, dalla retorica politico-economica (anche di segno opposto), nel quadro della quale appaiono piuttosto relegati ad un limbo ma pronti ad essere recuperati alla bisogna. La retorica retrò – buonista (spesso piuttosto farisea quando non estemporanea) ancora a tratti ne invoca le potenziali virtù taumaturgiche mentre quella “incattivita” (pur senza mai essere stata buona) lo addita superficialmente come esempio della corruzione dilagante (in primis per le disavventure politiche e amministrative, presumibilmente con sua modesta responsabilità personale, del suo principale propugnatore, M. Yunus, il famoso “banchiere dei poveri” che nel 2006 ricevette il premio Nobel per la pace1 proprio per questa sua attività) e della impossibilità di risolvere problemi atavici come quello della povertà.
Che un singolo strumento non sia sufficiente per raggiungere un tale obiettivo, obiettivamente di enorme portata, a molti è parso chiaro fin dall’inizio della “saga” del microcredito. Costoro si sono anche chiesti, quindi, il perché della evidente sopravvalutazione che veniva fatta dello strumento, senza nulla togliere a esso e alle sue novità e positività. I dubbi non riguardavano, infatti la sua possibile efficacia nel quadro di progetti di sviluppo locale bensì il riconoscimento che eliminare la povertà nel mondo (o anche solo il ridurla drasticamente) richiede non solo strumenti adatti ma prima ancora una volontà determinata di perseguire tale obiettivo a livello delle istituzioni nazionali, internazionali e sovrannazionali, nonché delle principali potenze economiche mondiali, che invece hanno trovato ancora una volta comodo “nascondersi” e nascondere le proprie responsabilità dietro quelle che venivano indicate come la capacità taumaturgiche del nuovo strumento. Tale “gioco” appariva ancora più evidente a chi ricordava come un trattamento simile era già stato riservato all’approccio dei Basic Needs, sostenuto da Robert McNamara2 quando era presidente della Banca Mondiale. Questa retorica ha dunque “bruciato” nei decenni due strumenti, ben diversi tra loro ma entrambi potenzialmente utili, usandoli come paravento per una sostanziale indifferenza e inattività (al di là delle possibili intenzioni di singoli protagonisti) nei confronti del problema della povertà e del perseguimento, invece, degli interessi degli attori più potenti sulla scena mondiale (Stati e/o imprese multinazionali) senza riguardo per le conseguenze delle operazioni così orientate.

1. La parabola del micro-credito tra illusioni, critiche e (limitata) efficacia

Per decenni dunque il microcredito è stato considerato, da moltissimi, come una sorta di panacea, di bacchetta magica, che poteva risolvere da solo i problemi della povertà e del sottosviluppo (qualunque cosa si intendesse con questo termine… e le concezioni al riguardo sono state e sono tuttora assai differenziate). La Banca Mondiale e molti economisti hanno guardato a questo strumento non solo con grandi speranze ma anche con tutta l’ingenuità (sic!) di chi ha sostenuto di disporre “finalmente” di uno strumento “tecnico” in grado di fornire soluzioni efficaci ai problemi del finanziamento capillare di tante iniziative di piccola imprenditoria nei paesi della periferia del Mondo. Come se ciò non fosse abbastanza hanno poi anche cercato di trasformare questo strumento – come del resto ogni altro, nella prospettiva di privatizzazione e finanziarizzazione generalizzate sostenuta dall’ideologia ultraliberista tuttora prevalente (malgrado i crescenti dubbi al riguardo nel dibattito teorico e presso il pubblico) presso le istituzioni internazionali, forse per un abituale ritardo ideologico e/o burocratico – anche in una occasione favorevole per chi era interessato a cercare occasioni di guadagno persino in ampi progetti di microcredito. L’argomentazione sulla scorta della quale le istituzioni internazionali si sono mosse in questa direzione è stata quella della difficoltà di trovare fondi sufficienti per i molti bisogni e progetti di microcredito, come del resto fanno ora più in generale nell’intera area della cooperazione allo sviluppo. Perché dunque non incentivare l’impiego di capitali privati rendendo conveniente in vari modi il loro intervento? Allora come ora non si è in grado o si evita accuratamente di vedere le specificità di questi settori e si ritiene invece di poterli trattare o trasformare semplicemente in occasioni di guadagno, come qualunque altro in una visione economica che non riconosce (o forse proprio non conosce) che merci e che dunque progressivamente riduce a questa dimensione anche i diritti fondamentali e tratta i bisogni essenziali alla stessa stregua dei desideri e delle preferenze (come evidenziano, tra gli altri, i filosofi statunitensi E. Anderson e M. Sandel3).
Da un lato troviamo quindi la pretesa che sia sufficiente fornire credito a persone povere sia per liberarle dall’assoggettamento nei confronti dei prestatori di denaro a tassi di interesse sostanzialmente usurai sia per consentire loro di avviare attività produttive destinate a permettere loro di uscire dalla “trappola della povertà (e conseguentemente i loro Paesi da quella del sottosviluppo) diventando piccoli artigiani e imprenditori, inserendosi in settori esistenti o aprendo mercati nuovi nei quali non avranno problemi a trovare adeguate occasioni e spazi di guadagno. Non valgono a incrinare questa visione neppure le considerazioni relative alla progressiva concentrazione di redditi e ricchezze4, sia nel mondo che all’interno dei singoli paesi (industrializzati e Pvs), ed alla estrema riduzione della mobilità sociale dagli anni ’80 del secolo scorso in poi, inizialmente negli Usa e poi sostanzialmente ovunque.
Innumerevoli esempi hanno smentito, rapidamente per chi ha voluto vedere, questa pia illusione. Tra i tanti esempi che illustrano il problema uno (di cui chi scrive ha avuto resoconto diretto da alcuni partecipanti) ha riguardato il progetto di una cooperativa di produttori di latte nello stato indiano del Tamil Nadu. Dopo che diversi piccoli produttori avevano avviato la propria attività nel settore grazie ai primi finanziamenti, compresero che guadagnare un po’ di più della mera sopravvivenza occorreva riuscire ad occuparsi anche della trasformazione del latte e della distribuzione dei prodotti, cosa che non riuscivano a fare isolatamente. Poco dopo essere riusciti a compiere questo ulteriore passo la loro centrale del latte fu letteralmente “spazzata via” dalla concorrenza di produttori esteri che videro alcune (seppur modeste) potenzialità di quel mercato e ben pensarono di sfruttarle attraverso politiche di prezzo aggressive. Una seconda riguarda una piccola società creata – in una zona ancora più povera del resto del Paese – in uno stato africano grazie alla cooperazione odontoiatrica italiana da alcune donne, che si sono messe a produrre con ingredienti soprattutto locali un dentifricio di buona qualità. In questo caso non sono nemmeno dovute intervenire grandi società estere perché è bastato che dei commercianti locali si mettessero a praticare per alcuni mesi prezzi inferiori ai costi di produzione del nuovo prodotto rivale di quello che commercializzavano da anni per costringere la piccola società a chiudere.
Dall’altro troviamo una ideologia (perché davvero non ha dignità teorica, dato che come è noto non vi sono dimostrazioni teoriche del buon funzionamento allocativo di mercati lontani dalla concorrenza perfetta5 e/o incompleti e che le ormai innumerevoli ricorrenze di crisi di ogni genere dovrebbero aver avvertito tutti delle drammatiche derive cui questo approccio ci ha portati e di quelle anche peggiori cui ci sta conducendo) che punta a privatizzare ogni cosa rendendola occasione di guadagno sotto la pretesa che il settore privato sia più efficiente e in grado di trovare soluzioni efficienti per ogni problema. I fenomeni della crescita abnorme delle rendite parassitarie (che difficilmente possono essere considerate consustanziali a condizioni di efficienza), del land-grabbing, della privatizzazione delle acque, delle nuove forme di capitalismo estrattivo dovrebbero invece avere reso avvertiti, in particolare coloro che operano in questi ambiti, dei danni di queste iniziative e indurli a cercare soluzioni in altre, seppur più impegnative, direzioni.
Proprio in considerazione di questi accadimenti e prospettive c’è chi ha sostenuto che la microfinanza costituisca addirittura di fatto una “potente barriera istituzionale e politica ad uno sviluppo economicamente e socialmente sostenibile” (Milford Bateman e HaJoon Chang in “Microfinance and the Illusion of Development: From Hubris to Nemesis in Thirty Years”) ed alla riduzione della povertà, proprio per il loro indurre Stati e organizzazioni a credere che queste erogazioni siano sufficienti a garantire lo sviluppo o almeno a costituire una scusa utilizzabile per non impegnarsi nella progettazione e realizzazione di progetti di sviluppo. Secondo questa tesi, dunque, i possibili benefici di questi strumenti, limitati sia al breve periodo che in dimensione e nel numero dei beneficiari, sono decisamente superati dagli effetti negativi di lungo periodo, in particolare dai costi opportunità a livello di comunità e di Stati. In tale prospettiva il microcredito viene considerato come una innovazione che ha avuto un grande successo – soprattutto mediatico – perché “adottata” con entusiasmo da istituzioni sovrannazionali e da economisti di chiara impostazione neoclassica e neoliberista, che ne hanno fatto uno strumento ed una occasione di celebrazione del modello, persino ingenuo nella sua distanza dalla realtà attuale e nel suo ideologismo, del “fai da te imprenditoriale” (come se davvero ci si trovasse, anche solo nei Pvs, in un contesto simile a quello millesettecentesco della prima rivoluzione industriale in Gran Bretagna6) tipico del riduttivismo liberista, a tutto discapito delle ragioni per l’intervento pubblico nelle politiche di riduzione della povertà e di sviluppo. In questa lettura l’esaltazione del microcredito avrebbe dunque accompagnato i processi di globalizzazione ultra-liberista, fornendo prima un importante contributo ideologico e psicologico alla sua affermazione e poi una facile e comoda giustificazione per i disastri che produceva nei paesi più poveri7. Infatti attraverso la proposta e l’impiego di uno strumento che si presentava (indebitamente) come finalmente efficace e sufficiente (mentre non lo è mai stato né avrebbe potuto esserlo, come evidenziano gli esempi citati in precedenza) ad aiutare chi era in condizioni svantaggiate ma si impegnava personalmente, si scaricavano le responsabilità degli insuccessi su persone che pure avevano meriti, impegno e volontà più che sufficienti per riuscire ma non certo le conoscenze e le risorse economiche (ben più ampie di quelle in genere offerte dai microprestiti) necessarie per ottenere il successo economico nelle condizioni prevalenti, anche in molte realtà locali nei Pvs.
Anche tra chi riconosce al microcredito potenzialità positive non apprezzate da questa prospettiva (e legate in particolare alle dinamiche di gruppo e sociali, di reciprocità, solidarietà e costruzione di capitale relazionale, sociale e civile di cui si dirà) sono ormai parecchi coloro cui pare evidente che esso sia stato francamente strumentalizzato dalla retorica di molte istituzioni, che lo hanno sia indicato come strumento risolutivo e praticamente autosufficiente nella lotta alla povertà sia poi utilizzato in modo poco appropriato anche a consentirgli di svolgere il più limitato ruolo positivo che avrebbe potuto avere.
Negli ultimi anni molte analisi si sono orientate verso una valutazione critica dell’efficacia, di breve e medio periodo, dei progetti di microcredito (in particolare nei Pvs, ma poi per estensione i dubbi sul suo impiego si sono estesi anche ad altri contesti). Gli studi sul campo, condotti in varie parti del mondo con esperimenti controllati (randomized control trials), hanno infatti messo in dubbio la facile certezza con cui si dava per scontata l’efficacia dello...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Circa gli autori
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Introduzione
  7. 1. Micro-finanza, sviluppo e buona vita: contributi, potenzialità e problemi
  8. 2. Analizzare i progetti di cooperazione allo sviluppo: gli approcci recenti in economia e antropologia
  9. 3. La valutazione d’impatto dei programmi di cooperazione allo sviluppo: verso una concezione multidimensionale
  10. 4. La selezione dei progetti di microcredito
  11. Appendice 1
  12. Appendice 2
  13. 5. Il ruolo dell’empowerment femminile nello sviluppo delle capabilities dei bambini
  14. 6. Il programma arbor in andhra pradesh
  15. Filosofie dell’economia