Scritture
Il nodo che ritenne
Il fondamento è nel fatto che l’alfabeto di una lingua contiene già in sé tutte le parole possibili di tale lingua e la scrittura è il mezzo idoneo a esplorare (e fissare) le vie segrete delle combinazioni dei segni alfabetici e delle combinazioni stesse. Quando al poeta avviene di inscrivere in un verso due parole come MARIA RIAMA (o anche RIAMA MARIA) egli non mancherà di riconoscere che ciascuna di tali parole è deducibile dall’altra e che ciascuna contiene già l’altra, e l’anagramma indica le vie di combinazioni e aspetti verbali (cioè segnici) ricchi di sviluppi sempre altri rispetto a quelli propri dell’ordinaria convenzione linguistica. Per altro verso il limite della data lingua (mentre elimina la dilatazione combinatoria all’infinito della quale parla Borges nella Biblioteca di Babele) contiene tutte le varie e diverse possibilità dei percorsi che sprofondano nell’operatività scrittoria della detta lingua, il che rivela la segretezza dei percorsi stessi. I quali, infatti, non restano confinati nell’elementarità della morfologia verbale, ma incrociano fenomeni quali allitterazioni e iterazioni, repliche, equivoci, ambiguità e plurivalenze, bisticci e paronomasie pacifiche, fino a consonanze, assonanze e rime. Si tratta di diffuse criticità dello stato verbale suscettibili di essere portate a impensate ossessioni, a eccessi metonimici, a inedite simmetrie, a disposizioni e numeri che producono visività, sonorità accentuative ed armoniche, cadenze e ritmi in aggiunta alle organiche leggi della versificazione. Specie a partire dai processi di formazione delle lingue europee, per l’Italia si trovano registrati, tra i secoli XIII e XIV, almeno una quindicina di autori, nemmeno tutti tra i più oscuri, la cui attenzione risulta decisamente orientata ai detti fenomeni (e Dante e Petrarca non se ne trovano affatto immuni), e d’allora la schiera non s’è più interrotta, potendosene riconoscere l’orientamento negli odierni poeti concretisti e, per fare solo qualche nome, nel molto di Emilio Villa e nel tutto di Arrigo Lora Totino. E volendo domandarsi che cosa mai tutti questi autori cerchino attraverso i loro testi, una consapevole risposta si trova già nel secentista Ludovico Leporeo, il più abile e il più lucido tra tanti, il quale volle considerarsi come colui “che con versi tersi inusitata / mostra d’orma febea forma segreta”. E con tale forma segreta credo di poter sciogliere quel dantesco “nodo che ritenne” Jacopo da Lentino, Guittone e Bonagiunta di qua dal dolce stil novo. Non è difficile trovare il sonetto del più antico poeta italiano che si conosca, per l’appunto il Notaro da Lentino, Eo viso e son diviso da lo viso come la celebrazione della visionarietà sempre presente nei suoi testi: di fatto però il sonetto s’incardina sulle due parole viso e peraviso (passando per visare, aviso, diviso, e divisare) insieme alle quali giocano vistosamente le stesse forzature linguistiche permesse dalla lingua in formazione. Naturalmente il fiero ostracismo che si tramanda contro simili testi (e contro gli autori) nell’atteggiamento ben pensante li ha sempre considerati funambolismi formali, trastulli metrici, pedanterie, “ingegnose o meglio laboriose bagattelle”. Tuttavia qui aggiungerò, a contrasto, due semplici titoli odierni: Il sogno del segno (preziosa antologia di Francesco Durante, Napoli 1988) e Alfabeto in sogno (mostra e catalogo a cura di Claudio Parmiggiani, Milano 2002).
Controlli
Il “cambiare idea”, cioè prendere a pensare secondo angolazioni del tutto diverse o anche opposte a quelle seguite fino allora, è cosa di ordinaria quotidianità: la mente è in riorganizzazione continua dato che qualsiasi cosa intervenga in ciò che diciamo conoscenza, essa ristruttura l’assetto precedente anche in maniera profonda, radicale. Non è forse vero che l’uomo è un amas de contradictions? Tuttavia si apprezza la coerenza dell’individuo, e tale virtù non potrebbe consistere in altro che nella capacità individuale di controllare (cioè contenere, anche in senso di capienza) le continue ristrutturazioni mentali. Solo che, almeno nel caso dei politici, individui pubblici, ci si aspetta nelle loro esternazioni una linearità tale da non ammettere l’obiezione “è vero oggi (o ieri o domani)?”. Resterebbe pertanto da sapere come la pubblicità del pensare, propria della “natura comunitaria dell’uomo”, riesca a sopportare la continua ristrutturazione della mente, per quel tanto almeno che basti a esibirne il controllo. Perché l’obiezione appena riportata, se non può provenire da un nucleo di verità posseduto dall’obiettore, proviene dal suo bisogno di persuasione, che in ambito politico può essere determinante. Dunque il controllo che il politico aspira a esercitare sui suoi potenziali obiettori verrebbe a essere un caso particolare del controllo che ciascuno esercita sulle proprie ordinarie ristrutturazioni.
Della memoria
La memoria è uno strumento? Può darsi, perché no? Almeno nello stesso senso in cui diciamo che l’arte è strumento di conoscenza. Il fatto è che la memoria (o quanto meno l’esercizio della memoria) è un’arte essa stessa e tutti gli statuti antichi e moderni ne riconoscono la docilità al trattamento. È, questa, un’idea che non si può eludere nemmeno nell’occasione di questa inchiesta di AMP. Per la quale inchiesta, invece, potrebbe esserci più utile un nostro vecchio gioco fondato sulla paronomasia AMP-AMPère, secondo il quale alle installazioni di AMP andrebbe riconosciuto il carattere di misuratori delle intensità dei brividi estetici da cui esse nascono, e che provocano. Ora infatti AMP ci interroga (e si interroga) sulla efficacia delle correnti della memoria, e l’occasione è di natura artistica. E allora si direbbe che il modo tipicamente prossemico di AMP questa volta voglia aprirsi e sconfinare nei vasti domini dell’arte della memoria, arte antichissima. Gli antichi scrittori parlavano della memoria come di un’arte propria dell’ambito dell’arte retorica. Ricorrendo all’arte mnemonica si potevano costruire e disporre luoghi e immagini al modo che l’arte stessa suggeriva. Il poeta Simonide di Ceo, che per primo si giovò, e dunque scoprì quest’arte, si accorse che il ricordo gli offriva luoghi e immagini già disposte in modo da poterne ricavare un senso coerente con le sue intenzioni. Anche Epicuro, in seguito, troverà che le nostre anticipazioni di conoscenza (quando conosciamo per la prima volta qualcosa la ri-conosciamo), che egli chiamava prolessi, provenivano dalla memoria di simulacri introiettati anche senza che ce ne accorgessimo, ma che poi addirittura garantivano l’esistenza sensibile degli dei. Restava fondata, così, una teologia rigorosamente materialistica, e qui non pare il caso di richiamare Platone o S. Agostino, scrittori assolutamente metafisici. Quando si dice degli sconfinati spazi della memoria! Noi stessi, oggi, dopo di aver soggiaciuto per decenni alle prolessi relative ai neutrini, da ultimi ci siamo messi a sperare che davvero questi avessero una velocità maggiore di quella della luce, ma si è saputo subito che non è così: del resto si tratta di cose che nessuno potrà mai vedere con i propri occhi. La memoria è, però, arte umana, sensibile, praticabile da tutti. Nel trattamento che AMP vorrà riservarle, la memoria potrà essere usata come l’AMPerometro misuratore delle intensità estetiche di luoghi immagini cose, suggerendone anche la scelta e la disposizione più idonea a ricavarne quel senso, cioè quel tocco magico che vorremmo dire il tocco di AMP.
Polarità
Serbo memoria di un commento (moralistico) all’episodio di Isabella (Orlando furioso, c. XXIX, st. 11 ss.), il quale attesterebbe la sostanziale indifferenza dell’Ariosto davanti alla virtù sublime difesa fino all’eroismo, laddove io ero incline a leggere l’episodio medesimo come finalizzato a un fugace empito di entusiasmo per la figura di Isabella d’Este (st. 29). Per altro verso non parrebbe strano trovare strampalato (più propriamente, impensabile) l’elogio dei sovrani del momento (c. XXXVI, st. 39 ss.) indicati come gli intrepidi avversari del mostro dell’avarizia, da Francesco I, Carlo V e gli altri, fino ai signorotti italiani, tutti singolarmente nominati. Ma Ariosto resta scrittore che mostra sempre e solo quello che scrive (a differenza del Tasso, che vuole mostrare e dimostrare sempre anche altre cose), e ricordo altresì che un critico poté perfino esclamare: “oh, la penna morbida dell’Ariosto!”. Uomo (e all’occorrenza funzionario) di corte, senza perdere mai di vista il suo scelto uditorio, Ariosto non esitava a imprimere lungo le sue ottave narrative le più occasionali sterzate in direzione dell’attualità storica e mondana, fino alla galanteria dei suoi stessi umori e malumori di amante (v. fine e inizio dei cc. XXIX e XXX). Tali (assai frequenti) discese alla sua odiernità risultano organiche al testo e segnano la distanza dell’autore dalla strabocchevole materia che narra, ponendo in evidenza la libertà di ideazione e la stessa disinvoltura del trattamento scritturale. E come la Comedia chiude l’era della teologia (degli ascetismi, cesaropapismi, teocrazie ecc.), allo stesso modo il Furioso chiude quella del mondo delle favole cavalleresche, di cui non si sarebbe parlato più (anche se ci vorrà quasi un secolo prima che, in chiave modi e distanze diverse Cervantes riproponga l’operazione). Frutto del Rinascimento italiano prodottosi come effetto del fenomeno morganatico dell’Umanesimo, che aveva funzionato come spinta a rioccupare la terrestrità, a tale rioccupazione si deve la scrittura del Furioso, che non avrebbe saputo aver luogo se non sottoforma, per così dire, di polarità che potevano ristabilirsi tra il mondo dei sogni cavallereschi e la faticosa quotidianità in cui quei sogni si erano ormai del tutto usurati. Una misurazione di tempi, dunque, assai diversa dalle nostalgie boiardesche. E ciò, com’è ovvio, indipendentemente dai nostri giudizi moralistici o che individuino attentati alle nostre incrostazioni culturali.
Fatamorgana
I sudditi dell’Impero Bizantino erano tutti romani e convinti di appartenere all’unico stato romano esistente se ancora nel XIII secolo il santo imperatore Giovanni III (Vatatze), detto il Misericordioso, nel quadro della sua politica protezionista, esortava i suoi popoli ad accontentarsi esclusivamente di “ciò che produce il suolo romano e che fabbricano mani romane” (Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, tr. it., Einaudi, Torino 1968, p. 405), e del resto la di poco successiva grande opera storica di Niceforo Gregora (che tratta il periodo dalla conquista latina fino all’anno 1...