1.
La condizione del pensiero
Non è possibile isolare nell’opera di Jean-Luc Nancy qualcosa come una filosofia politica. Questa impossibilità non dipende tanto dall’estrema ramificazione della sua vastissima produzione, quanto dal fatto che la costruzione di una ‘filosofia politica’ – intesa o come lavoro teorico specificamente dedicato al problema della prassi politica, oppure come un più ampio esercizio di pensiero che, politicamente orientato, sottometta le proprie direzioni speculative a strategie di posizionamento già pre-elaborate – è del tutto incompatibile con un approccio che della razionalità politica ha inteso individuare solo i margini: la teoria, secondo Nancy, è chiamato a toccare questi bordi per riconfigurare un intero apparato categoriale. Che un pensiero possa, e anzi debba toccare, per essere tale: dovremo inizialmente esaminare questa possibilità e questo compito, insomma questa sua condizione. A partire da qui, si metterà in evidenza la caratteristica principale della riflessione di Nancy, ovvero la sua disposizione intramondana. È a partire da questa co-implicazione reciproca tra pensiero e realtà, che Nancy concepisce la politica. Tuttavia, prima di raggiungere questo nucleo ‘politologico’ della riflessione nancyana, sarà necessario saggiare – ed è il compito di questo primo capitolo – la spinta teoretica di questa filosofia, non certo per far derivare una politica da una teoria (schema che decade in questo contesto post-fondazionale), ma perché non si capirebbe il potenziale politico di questa filosofia – fragile e vigorosa insieme – se non si penetrasse la sua densità materiale. Giacché è proprio la concretezza dell’enticità, la positività del reale che Nancy intende prima di tutto recuperare.
Il tentativo nancyano di ripoliticizzare la democrazia – nel senso preciso di interrompere la sua coincidenza con la gestione governamentale delle vite, tratto precipuo dell’attuale scenario neoliberale – passa per uno spostamento della democrazia stessa fuori dallo spazio del politico.
Lo si può vedere in un volume che per molti versi costituisce il punto d’arrivo delle riflessioni politologiche di Nancy e che ha un titolo che suona sconcertante per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il suo lessico: il pamphlet uscito nel 2008 in occasione dell’anniversario dei moti del 1968, con il suo titolo Verità della democrazia sembra smentire un lungo e intenso esercizio filosofico nel corso del quale Nancy ha inteso porre al centro del suo lavoro, come si avrà ampiamente modo di vedere, la categoria del senso in opposizione a quella di verità. In realtà, come pure si vedrà in dettaglio, nel suo libro Nancy afferma – in stile piuttosto hegeliano – che la democrazia ha la sua verità fuori di sé. La stessa scelta del tema della democrazia è dovuta al fatto che essa non è, secondo l’autore, una forma politica, ma precisamente qualcosa che chiama in revoca, in un medesimo tempo, tanto il concetto di forma quanto quello di politica. Il politico non è qualcosa di sostanziale, non è nulla che si presti a essere formalizzato o formulato. Persino l’esistenza o la possibilità di qualcosa come una ‘filosofia politica’ è altamente problematica.
Qual è allora la risorsa politicamente attiva nel pensiero di Nancy? O meglio: qual è il terreno d’incontro di questo pensiero col politico? Il luogo di questo incontro è quello del ritiro, ovvero lo spazio che si apre nel ritrarsi di un incontro sempre mancato.
Quello di ritiro (retrait) è un concetto chiave nella filosofia di Nancy, l’idea che ne innesca tutto il movimento. Ciò che Nancy chiama retrait è simultaneamente la condizione del pensiero in generale, e la situazione di quello contemporaneo in particolare: dunque è condizione nella doppia accezione di ciò che rende possibile e di modo d’essere. Questo è un punto essenziale della filosofia di Nancy: il pensiero ha bisogno di spazio, di un’area in cui estendersi. Il retrait è il movimento che apre alla ragione quello spazio “senza esporsi al quale, non possiamo far altro che rinunciare a pensare”.
A proposito della nozione di possibilità, e ragionando sul trascendentale kantiano, Nancy afferma che esso “non è affatto la potenza che dà in anticipo le condizioni di produzione dell’oggetto, della conoscenza, e poi di seguito di tutte le regole dell’esercizio della ragione. Il trascendentale kantiano è piuttosto ciò che giunge quando non c’è più alcuna potenza originaria di donazione delle cose”. Che manca il dato: questa è la condizione del pensiero, la sua possibilità e la sua difficoltà. “Trascendentale vuol dire: dal momento che c’è trascendenza, evidentemente c’è un ritrarsi, un’uscita da, un’uscita dall’immanenza, uscita dal dato, altrimenti un dato sensibile potrebbe costituire il caos totale”. Questa uscita dall’immanenza del dato è quel movimento di apertura che fa sì che il pensiero non trovi alcuna ostruzione: “tutto ciò vuol dire che il trascendentale è un ritrarsi del dato in … in niente”.
In un certo senso tutta la sfida filosofica di Nancy è in questo affrontare l’assenza di una donazione; si tratta, per lui, di mettere a punto una riflessione che sia capace di reggersi da sé, non alla maniera di una ragione sostanziale che si fornisce da sé il suo proprio supporto, la sua soggettità, ma nel senso di un pensiero che sappia cogliere l’invito di questo ritrarsi dell’essenza in niente. Dunque un pensiero finito, che si imbatte sempre nella sua finitezza, che si sa non infinito, non centrato in sé ma sempre esposto alla propria finitezza. Questa è, in particolare, la condizione dell’epoca contemporanea, quella che si situa dopo una certa fine della filosofia. È da questa fine che Nancy inizia:
[…] vi è per noi un pensiero che è terminato, una modalità del pensiero che è stata liquidata col naufragio del senso, ossia con il compimento e l’intero arco delle possibilità di significazione dell’Occidente (Dio, Storia, Uomo, Soggetto, Senso stesso). Ma compiendosi e ritraendosi, questo pensiero fa sorgere una nuova configurazione (la sua, dunque, che si disfa sul proprio limite), alla maniera della marea più impetuosa, che ritraendosi lascia vedere modificato il limite della riva.
L’area dove si esercita la prassi della ragione è questo luogo di arretramento, di prosciugamento del Senso. È questo spazio di ritrazione, di sottrazione categoriale, il luogo di incontro tra filosofia e politica.
Iniziamo col dire che, secondo Nancy, filosofia e politica hanno un’origine comune. Ecco come egli si esprime nel 2001, in un dialogo con Roberto Esposito che fa da prefazione all’edizione italiana del suo Être singulier pluriel:
[…] politica e filosofia hanno in comune un tratto originale: entrambe nascono dalla scomparsa degli dei. Ciò pare evidente per la filosofia, ma vale pure per la politica: la città ha le sue divinità, ma si tratta, appunto, delle sue divinità. Come tali, queste divinità prendono il posto d’altre, che erano presenze vere, effettive ed efficaci, degli animali, delle fonti, degli alberi o delle nuvole. Gli dei della città non sono più presenze, luoghi, fenomeni, ma sono invece già metafore di essa. […] Filosofia e politica si fondano insieme nell’ambito di un ritrarsi essenziale: quello degli dei, quello dell’essere-insieme (gli dei custodivano l’insieme, e l’insieme era assemblato dai propri dei), ossia da un ritrarsi della presenza.
Il coinvolgimento reciproco di filosofia e politica, dunque, prima ancora di essere quello che fa dell’una la qualificazione dell’altra (come nell’espressione ‘filosofia politica’) è qualcosa di originario. Entrambe hanno luogo nello spazio aperto dal ritrarsi di ciò che teneva insieme il mondo, che faceva del mondo un insieme. Filosofia e politica sono la risposta al fatto che il dato si sottrae, esce dall’immanenza.
Nel passo appena citato, relativamente recente, è possibile leggere in filigrana tesi spec...