Risonanze
Intervista con Fabrizio Barozzi
Fabrizio Barozzi durante l’incontro all’Iuav © Nicolò Zanatta
RB: Nel 2016, in occasione della prima iniziativa da me curata a Palazzo Ducale qui a Venezia per il programma di collaborazione Iuav-MUVE denominato Salotto Longhena, presentasti una relazione sulla tua esperienza progettuale intitolata “Monumentalità aperta”; pochi mesi dopo alla Biennale di architettura diretta da Alejandro Aravena realizzavi un’installazione alle Corderie intitolata “Monumentalità sentimentale”. Mi pare tu attribuisca a queste denominazioni il significato più profondo della proposta architettonica del tuo studio Barozzi/Veiga.
FB: Quelle intitolazioni, riprese poi anche nella nostra monografia per le edizioni Park Books, cercavano di spiegare con una sorta di ossimoro le nostre posizioni rispetto al progetto architettonico o forse – potremmo dire – le nostre ossessioni. È stato in certo modo un lavoro di autoanalisi per spiegare, a noi stessi prima di tutto, la ricerca e la strategia che stanno alla base del nostro lavoro. In un primo momento avevamo declinato la monumentalità con l’aggettivo aperta per cercare di distinguerci rispetto al significato corrente di monumentalità, che non corrisponde certo ai nostri obiettivi. In un secondo momento abbiamo trovato più appropriato l’aggettivo sentimentale, che abbiamo scoperto in uno scritto di Pikionis a proposito del suo famoso progetto per la risalita all’Acropoli di Atene.
I due concetti opposti offerti dall’aggettivo sentimentale e dal sostantivo monumentalità traducono, da un lato, la nostra attenzione alla “specificità dei luoghi”, dall’altro la volontà di conferire alle architetture prodotte una “autonomia degli oggetti”. Insomma cerchiamo di trovare un punto di equilibrio fra i due concetti. L’idea di monumentalità identifica anche la natura pubblica degli edifici, rapportandosi quindi non tanto alla scala o alla dimensione emergente quanto alle regole intrinseche dell’edificio.
Per questo alle Corderie dell’Arsenale, riprendendo il carattere più evidente e specifico delle imponenti colonne che strutturano l’edificio esistente, abbiamo collocato semplicemente una nuova colonna, più astratta: un elemento specifico per quel luogo ma con una sua propria autonomia formale, di fatto un archetipo, che parla soprattutto di verticalità e di massa. Un oggetto che appartiene al luogo, ma cerca anche di astrarsene e quasi di dimenticarsene.
Il carattere archetipico dell’installazione si è reso ancora più esplicito quando abbiamo riallestito la stessa colonna in un contesto totalmente diverso, dentro un vasto paesaggio dell’interno catalano, dove ha riaperto rapporti col contesto del tutto inediti.
RB: Quest’ultima traslazione mi ricorda l’interessante esercizio che proponesti ai miei studenti del corso di Teorie dell’architettura qualche anno fa e che li invitava a rimontare architetture famose o comunque significative in contesti totalmente diversi realizzando dei fotomontaggi rivelatori di potenzialità inedite possedute da quegli oggetti architettonici, con una grande capacità evocativa.
I quattro progetti che hai illustrato nella conferenza testimoniano bene – mi pare – di questa capacità evocativa a loro intrinseca.
FB: Ho scelto di mostrare quattro progetti che potessero spiegare con chiarezza il passaggio tra l’ideazione e la realizzazione, a partire dalla Filarmonica di Stettino, che è il progetto che ci ha dato la massima notorietà, e a seguire con i tre interventi più recenti in terra svizzera.
RB: In un breve intervento a commento della tua Filarmonica, dopo il conferimento del prestigioso Premio Mies van der Rohe, scrivevo: “il nuovo vitreo complesso è soprattutto capace di interpretare da par suo il ‘carattere’ della città polacca senza ripetere in nessun modo forme storicistiche. È una figurazione allusiva ed evocativa, assolutamente moderna ma potentemente iconica” ed azzardavo un’assonanza con “le forme cristalline della Alpine Architektur di Bruno Taut o dei grattacieli di cristallo del primo Mies van der Rohe stesso”. Come hai impostato l’originale interpretazione dello spirito gotico della città di Stettino e a quali icone del moderno hai chiesto soccorso per tale interpretazione?
FB: Stettino, città fortemente danneggiata dalla guerra, che rase al suolo anche la precedente sala da concerti, è conformata da diversi tipi edilizi, da un lato i superstiti o ricostruiti monumenti e tessuti edilizi della tradizione medievale centroeuropea, dall’altro larghe parti edificate secondo i dettami dell’anonima architettura del periodo socialista. L’edificio adiacente alla nuova Filarmonica è un edificio pubblico dalle forme goticheggianti, che parlano di massa, verticalità, pinnacoli e tetti aguzzi. Questi caratteri identitari sono stati filtrati nel nuovo progetto, che però è un oggetto totalmente nuovo e autonomo, senza alcun accento nostalgico. Volevamo confermare l’angolo dell’isolato urbano, lavorando in continuità con il tessuto preesistente, ma senza mimetismi. D’altra parte pensavamo certamente alle architetture espressioniste che in epoca moderna hanno fatto parte di quel clima storico-geografico.
Abbiamo perciò scelto di lavorare in continuità col profilo della città, ma con materiali totalmente distinti: il vetro e il metallo. La facciata del nuovo edificio si è così configurata in certo modo come un elemento ornamentale, in vetro, marcato da grandi lame metalliche, così da ottenere un significativo cambio di immagine fra l’opacità diurna e la trasparente luminosità notturna. L’edificio si è così proposto come un catalizzatore urbano, oltre ad esprimere velatamente la sua natura interna.
Il programma funzionale richiedeva due sale da concerto ed era abbastanza complesso. Abbiamo cercato di semplificare la complessità identificando pochi elementi-base. Per esempio la copertura è fondamentale per costruire un rapporto con gli edifici vicini ma anche a far emergere l’edificio sopra gli alberi che lo contornano.
La pianta interna è impostata su una corona perimetrale che costituisce il filtro con l’esterno e delimita un grande spazio vuoto, di valore pubblico, entro il quale si situano i corpi delle due sale. È di fatto una piazza coperta, bagnata dalla luce zenitale. I movimenti di ascesa e discesa interni sviluppano un loop fra i vari piani, con una certa libertà d’uso: le scale diventano gli elementi connotativi dello spazio.
Le sale da concerto erano dedicate alla musica classica sinfonica. Abbiamo pensato a ciò dovesse corrispondere una sezione classica, arricchita da un’idea di ornamento che fa parte di quella tradizione. Partendo dal dettaglio di una piega sviluppata per ragioni di acustica, abbiamo deciso di modellare allo stesso modo tutta la sala. I dispositivi tecnico-acustici sono così diventati ornamenti. Non elementi meramente decorativi, ma elementi tecnici con una capacità di essere ornamento. La tradizione delle maestranze capaci di lavorare il legno e di impreziosirlo con la doratura a foglia d’oro sintetica ha fatto il resto; e la luce naturale (inconsueta per una sala teatrale) ha consentito di immettere una vibrazione al tutto.
RB: Mi pare che i più recenti progetti in Svizzera abbiano in certo modo accentuato una certa austerità nordica delle forme, probabilmente più appropriata a quella tradizione centroeuropea ed alpina, che in fondo è forse anche nel dna delle tue origini roveretane.
FB: L’ampliamento del museo di Coira ci ha proposto curiosamente di confrontarci con due tradizioni diverse: quella di un certo classicismo svizzero di matrice palladiana e quella egizia e orientale, presenti assieme nella villa-museo appartenuta a un mercante svizzero che aveva fatto fortuna commerciando con l’Egitto.
Peraltro la collezione del museo è ricca di opere dell’espressionismo tedesco e svizzero, con una presenza significativa dell’opera scultorea di Giacometti, i cui busti ci hanno accompagnato fin dall’inizio del progetto con la loro forte personalità.
Inoltre l’aria orientalista della villa era già stata raccolta e interpretata da un intervento fra i primi realizzati da Peter Zumthor, cui si devono le aggiunte di due giardini d’inverno in facciata.
Tutte queste presenze si leggono, credo, in filigrana nel nostro lavoro.
Nella ubicazione e nella pianta del nuovo edificio abbiamo raccolto l’assolutezza quasi archetipica dell’edificio neo-palladiano, ripetendone l’impostazione a doppia simmetria.
A...