I.
SUL MONTE TABOR
Porte. Tanto il fanciullo quanto l’uomo vedono delle porte in tutto ciò che vivono e imparano: ma per quello sono accessi, per questo sempre solo passaggi.
L’immagine della porta è un simbolo potente di un’erranza, non solo metaforica, che ha nell’ingresso alla scuola di “Porta” e nella chiusura con l’università di Basilea i momenti salienti della sua esistenza. Contemporaneamente alcuni sentieri (filologia/filosofia) e alte vette (l’accademia) convergono verso incontri fondamentali (con autori, discipline, persone), date di svolta (1872: La nascita della tragedia; 1879: Il Viandante e la sua ombra) e ritorni alla terra.
1. Accessi
Antitesi tra forma e vita
Le porte (die Thüren) separano: segnano il limite che distingue un interno da un esterno. Le porte si aprono e si chiudono: hanno una funzione pratica di selezione e di scelta. Esse contengono.
Quando una porta si apre o si chiude, ne sentiamo il rumore, un tonfo sordo, lo scricchiolio lento, ne percepiamo cioè il movimento anche se non lo vediamo, ma nell’aforisma 281 della seconda parte di Umano, troppo umano II Nietzsche usa il verbo “vedere”: il fanciullo e l’uomo vedono le porte (Das Kind sieht ebenso wie der Mann) in tutto (in Allem); vivendo (was erlebt) e imparando (erlernt wird) fanno esperienza di accessi (Zugänge), nel primo caso, e di passaggi (Durchgänge), nel secondo.
Nietzsche scrive le Opinioni e sentenze diverse nel 1878 e Il viandante e la sua ombra nel 1879 a conclusione del secondo volume di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi. Sono anni di “passaggi” decisivi, come vedremo, delle vere e proprie tappe di crisi e di liberazione che si compiono nell’inverno più doloroso della sua vita.
Gli “accessi” vengono teoricamente prima.
Se usiamo il tempo infinito si comprende meglio che accedere è un verbo che indica il movimento incompiuto dell’ingresso, uno stare per entrare; e passare il momento immediatamente successivo, l’attraversamento nel mentre avviene. Ad una prima lettura, i due movimenti avrebbero a che fare con una questione cronologica e, perché no, metafisica; in realtà, entrambi i momenti riguardano il problema, ben più complesso in Nietzsche, dell’acquisizione di una forma organica: “In verità non può esserci forma alcuna perché in ogni punto dimora un’infinità”.
Negli appunti del 1867–’69 risuona la lezione dei biologi cellulari (ma prima ancora di Schopenhauer riletto attraverso la lente di Lange e di Darwin) di un’antitesi tra “forme” e “vita”. Lo stesso criterio sarà ripreso nei frammenti degli anni ‘80, in cui la vita viene intesa come lotta tra valori contrari, fatto ereditario legato alla memoria e azione creatrice di nuove forme assimilate o rigettate: “come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio”. Una volta nato, il soggetto cresce in sé costruendosi l’illusione di una identità sempre uguale (Gleichheit) e fuori di sé esperendo le differenze (Unterschiede), ma per sopravvivere deve essere capace di aprire e chiudere le porte al momento opportuno:
Un uomo ben riuscito […] è un principio di selezione, lascia cadere molte cose […]. Reagisce lentamente agli stimoli, di qualsiasi genere siano, con quella lentezza a cui lo hanno allevato una cautela di lunghi anni e una voluta fierezza – egli saggia lo stimolo che arriva, è ben lontano dal volergli andare incontro.
La lentezza è per Nietzsche una postura filologica appresa attraverso lunghi anni di faticoso esercizio e opposta al tempo sbrigativo della modernità. L’andatura lenta e incatenata alla rigida formazione della filologia gli permette quindi il decisivo accesso alla Grecia classica: la lettura lenta è il solo cammino che gli consente di scendere in profondità (catàbasi) “guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte… (mit offen gelassenen Thüren)” (anàbasi).
Il movimento della porta somiglia quindi al processo di auto-regolazione dell’essere vivente, un “istinto di difesa” che ha però bisogno di aperture e larghi accessi:
In tutto questo – nella scelta degli alimenti, del luogo e del clima, degli svaghi – domina un istinto di autoconservazione, che si esprime nel modo più inequivocabile come istinto di autodifesa. […] Il difendersi, il non-farsi–avvicinare è una spesa – non ci si deve ingannare su questo punto – è uno sperpero di forza a fini negativi. […] avere aculei è una dissipazione, un doppio lusso, quando siamo padroni di avere non aculei, ma mani aperte… (keine Stacheln zu haben, sondern offene Hände…).
L’identità dell’organismo superiore non si compone semplicemente di un numero determinato di proprietà esterne da assorbire al medesimo (Gleich), ma si nutre di esterno, riconosce la resistenza di un’alterità e se ne appropria in sé (Selbst) per farne letteralmente indigestione. Se da Goethe Nietzsche prende la teoria della pluralità insita già nell’organismo dell’essere vivente per concentrarsi sull’aspetto della gerarchia, da Haeckel riprende la teoria dell’assorbimento per farne il fondamento della memoria: l’identità dell’organismo superiore è una composizione di forme diverse in lotta tra di loro, un permanente dispendio di potenze che si combinano di volta in volta in possibilità in-audite e in rappresentazioni im-pre–vedibili. Il principio di selezione di cui parla Nietzsche è ben diverso da quello darwiniano perché non è inteso come un accadere passivo e progressivo che porta all’evoluzione delle specie, al contrario:
[…] ogni accadimento nel mondo organico è un sormontare, un signoreggiare e a sua volta ogni sormontare e signoreggiare è un reinterpretare, un riassettare, in cui necessariamente il “senso” e lo “scopo” esistiti sino a quel momento devono offuscarsi o del tutto estinguersi. […] l’intera storia di una “cosa”, di un organo, di un uso può essere in tal modo un’ininterrotta catena di segni che accenna a sempre nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non hanno neppur bisogno di essere in connessione tra loro, anzi talvolta si susseguono e si alternano in guisa meramente casuale. “Evoluzione” di una “cosa”, di un uso, di un organo, quindi, è tutt’altro che il suo progressus verso una meta, e ancor meno un progressus logico e di brevissima durata, raggiunto con il minimo dispendio di forza e di beni – bensì il susseguirsi di processi di assoggettamento svolgentisi in tale cosa, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro, delle tentate metamorfosi di forma a scopo di difesa e di reazione, nonché degli esiti di fortunate controndicazioni.
L’evoluzione delle forme è sempre questione di forze in eccedenza, di assimilazioni sovrabbondanti che non è possibile ridurre a unità e che, secondo la lezione di Roux, Rolph e Virchow, sono anche la causa della morte dell’organismo. La stretta connessione di vita e morte è l’unica condizione di immutabilità delle forme viventi, benché l’uomo non abbia il senso della misura, lo apprende a sue spese, sperimentando queste “fortunate controindicazioni” della memoria, la quale immagazzina più di quanto sia capace di ricordare e si riforma continuamente sul rimosso, e dell’organico, che si avvelena mentre si nutre.
L’eccedenza è pharmakon, i suoi principi curativi permettono in qualche modo di tentare la vita attraverso incessanti metamorfosi e pratiche di erranza che non immunizzano l’essere vivente dall’esperienza dell’errore e della malattia. Nietzsche lo scriveva già nel 1867: “Ciò che è adatto alla vita si è formato dopo una serie infinita di tentativi falliti e riusciti a metà”.
La sua scrittura è questa topografia fitta di luoghi solitari, reali e metaforici: sottosuoli, caverne, deserti, mare aperto, alte vette e vie tortuose si confondono con le posizioni reali, le città, le pensioni, i teatri, qualche salotto, le aule. Sembra che Nietzsche non riesca a stare fermo, che la sua natura onnivora sia continuamente regimentata da uno stile di vita iper regolato: è la sua convalescenza che decide degli spostamenti, la sensibilità del suo stomaco e la vista delicata che lo portano verso il sud dove le temperature sono più miti e la luce più nitida. Il suo essere in eccesso si esprime nel movimento-legato dell’autoregolazione e grazie alla sua danza in catene gli saranno anche possibili grandi traversate.
A ferri corti con la vita
Ma cos’è che si lascia dietro quando chiude una porta? Le persone soprattutto. E quindi Wagner, Lou Salomé, Paul Rée, la madre e la sorella a fasi, Ritschl e Burkchardt suo malgrado… sono le ferite non mes...