Dibattiti e scontri
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Dibattiti e scontri

Per un nuovo orizzonte della politica

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Dibattiti e scontri

Per un nuovo orizzonte della politica

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Uscito finora solo in lingua spagnola, Dibattiti e scontri rappresenta il confronto di Ernesto Laclau con alcuni punti di riferimento della filosofia contemporanea sulle questioni politiche legate all'ideologia neoliberista, oggi dominante. Quali iniziative – pratiche e teoriche – ha ancora senso pensare e realizzare nell'epoca attuale? Laclau si propone di rispondere a questa domanda leggendo criticamente il pensiero di cinque "mostri sacri" come Žižek, Badiou, Agamben, Hardt e Negri.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857575513

DIBATTITI E SCONTRI

Per un nuovo orizzonte della politica

PREMESSA

I quattro saggi che compongono questo volume sono stati scritti negli ultimi otto anni e si occupano di aspetti cruciali legati al recente dibattito politico della sinistra. Il saggio relativo a Slavoj Žižek muove da una polemica da questi iniziata nella Critical Inquiry e tenta di mostrare le fallacie delle sue argomentazioni che sono solo un miscuglio indigesto di determinismo economico e di soggettivismo volontarista, al quale si aggiunge una distorsione sistematica della teoria lacaniana. (Questa distorsione è stata dimostrata inequivocabilmente nel libro di Yannis Stravrakakis, The Lacanian Left)1.
L’opera degli altri miei avversari in questo libro presenta una sostanza teorica assai più considerevole. Il saggio su Alain Badiou tratta – purtroppo in maniera molto sommaria – uno degli approcci più originali e promettenti della filosofia attuale. Una ponderazione più seria e sistematica della sua opera potrà trovarsi nel mio libro in preparazione, intitolato L’universalità elusiva. Il grande merito dell’opera di Badiou risiede, a mio parere, nella sua drastica separazione tra “situazione” ed “evento”, che pone la questione dello statuto ontologico di una interruzione radicale, che rompe con tutte le illusioni e le esche della mediazione dialettica. Dal mio punto di vista, i limiti della sua analisi sono dati da una indagine insufficiente di quanto è strutturalmente implicito in una interruzione radicale. Questo è il punto sul quale il mio approccio – “egemonico” – si differenzia da quello di Badiou, fondato su ciò che questi definisce “fedeltà all’evento”. È anche il punto sul quale la sua ontologia (matematica) differisce dalla mia (retorica).
Nel caso di Giorgio Agamben, la mia obiezione è analoga a quella rivolta a Hardt e Negri, malgrado gli aspetti che separano i rispettivi approcci teorici. Dietro la sua tesi fondamentale secondo cui la riduzione del bios a zoe segnerebbe il destino della modernità – che troverebbe il suo paradigma teleologico nel campo di concentramento – c’è una semplificazione del sistema di alternative aperte dalla modernità stessa. Come ho suggerito nel mio saggio, la sua idea, relativa a ciò che è implicito nella nozione di “potenzialità”, può aprire orizzonti a prospettive per la politica molto più sfumate rispetto a quelle da lui indagate.
Infine, i miei disaccordi con Michael Hardt e Antonio Negri ruotano intorno alla costituzione delle identità collettive. Per questi ultimi, l’articolazione orizzontale tra distinte lotte sociali dovrebbe essere trascurata a favore di un isolamento verticale delle diverse mobilitazioni che non richiederebbero la costruzione, tra loro, di alcun legame politico. Per le ragioni esposte in questo libro, non penso che si tratti di una prospettiva adeguata. Essa si ancora nell’indirizzo teorico dell’operaismo italiano degli anni Sessanta del secolo scorso, con la sua accentuazione dell’autonomia e il suo abbandono della categoria di “articolazione”. Sebbene condivida la tesi sull’impossibilità di ridurre quest’ultima alle forme istituzionali del “partito”, com’era accaduto nell’esperienza del comunismo italiano, penso anche che, nella programmazione di un progetto politico, continuino a essere essenziali forme di articolazione più complesse, che reintroducano una connessione orizzontale tra le mobilitazioni sociali.
Dietro ognuno degli interventi di questo volume c’è, per quanto mi riguarda, un unico progetto: riprendere l’iniziativa politica, vale a dire, dal mio punto di vista teorico, rendere la politica nuovamente pensabile. Per me, è motivo di profondo ottimismo il fatto che, dopo così tanti anni di frustrazione politica, i nostri popoli latinoamericani stiano affermando con successo la propria lotta per l’emancipazione. Tale orizzonte storico è stato alla base della mia riflessione per la stesura di questi saggi.
1Y. Stravrakakis, The Lacanian Left, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007.

CAPITOLO I

PERCHÉ COSTRUIRE UN “POPOLO” È IL PRINCIPALE COMPITO DELLA POLITICA RADICALE*

Sono rimasto alquanto sorpreso dalla critica mossa da Slavoj Žižek1 nei confronti del mio libro La ragione populista2. Poiché il libro includeva un forte riferimento critico all’impostazione di Žižek, mi aspettavo naturalmente una qualche reazione da parte sua. Come risposta, egli ha tuttavia scelto una strada piuttosto indiretta e obliqua: non risponde a una sola delle mie critiche sul suo lavoro, ma formula invece nei confronti del mio libro una serie di obiezioni che acquistano senso soltanto se si accetta pienamente la sua prospettiva teoretica, che è proprio quello che avevo messo in questione. Per evitare di continuare con questo dialogo tra sordi, prenderò il toro per le corna, riaffermando quanto trovo di fondamentalmente sbagliato nell’impostazione di Žižek; nel corso di tale argomentazione proverò inoltre a confutare le sue critiche.
Populismo e lotta di classe
Tralascerò le parti del saggio di Žižek concernenti i referendum in Francia e nei Paesi Bassi – una questione sulla quale le mie opinioni non sono lontane dalle sue3 – per concentrarmi invece sulle parti teoriche in cui esprime le nostre divergenze. Žižek inizia con l’affermare che io “preferisco”4 il populismo alla lotta di classe. Si tratta di un modo piuttosto insensato di presentare la questione. Suggerisce che il “populismo” e la “lotta di classe” siano due entità effettivamente esistenti nel mondo, tra le quali uno dovrebbe scegliere così come si sceglie di appartenere a un partito politico o a una squadra di calcio. La realtà è che la mia nozione di “popolo” e la classica concezione marxista di “lotta di classe” sono due maniere differenti di concepire la costruzione delle identità sociali, di modo che se una è corretta l’altra deve essere rigettata — o, piuttosto, riassorbita e ridefinita nei termini del punto di vista alternativo. Tuttavia, Žižek fornisce una descrizione accurata dei punti dove le due prospettive differiscono:
[…] la “lotta di classe” presuppone un particolare gruppo sociale (la classe operaia) come agente politico privilegiato; questo privilegio non è in sé l’esito della lotta egemonica, ma è fondato sulla posizione sociale oggettiva di questo gruppo: la lotta politico-ideologica è così ridotta, in fin dei conti, a un epifenomeno dei processi e dei poteri sociali “oggettivi”, nonché dei loro conflitti. Per Laclau, al contrario, il fatto che una qualche lotta particolare sia elevata a “equivalente universale” di tutte le lotte non costituisce qualcosa di predeterminato, ma è esso stesso il risultato della lotta politica contingente per l’egemonia – in una costellazione, questa lotta può essere la lotta operaia, in un’altra, la lotta patriottica anticoloniale, in un’altra ancora, la lotta antirazzista per la tolleranza sociale […] non vi è nulla nelle qualità positive intrinseche di una lotta particolare che la predetermini per un tale ruolo egemonico di “equivalente generale” di tutte le lotte.5
Nonostante una simile descrizione del contrasto sia ovviamente incompleta, non ho alcuna obiezione in merito al quadro generale che questa delinea rispetto alla basilare distinzione tra i due approcci. In aggiunta, tuttavia, Žižek propone un’ulteriore caratteristica del populismo che, in apparenza, non avrei preso in considerazione: nonostante abbia giustamente rilevato il carattere vuoto del Significante-Padrone che rappresenta il nemico, non avrei però menzionato la pseudo-concretezza della figura che incarna un tale nemico. Devo dire che non trovo nulla di consistente in tale accusa: la mia intera analisi è basata precisamente sull’affermare che qualsiasi campo politico-discorsivo è sempre strutturato attraverso un processo reciproco in cui la “vacuità” indebolisce la particolarità di un significante concreto — benché, per converso, tale particolarità reagisca fornendo all’universalità un corpo necessariamente incarnante. Ho definito l’egemonia come una relazione in cui una certa particolarità diventa il nome di un’universalità completamente incommensurabile. Così l’universale, mancando dei mezzi per una rappresentazione diretta, ottiene soltanto una presenza presa in prestito attraverso i mezzi distorti del suo investimento in una certa particolarità.
Lasciamo tuttavia da parte questo problema per il momento, poiché Žižek ha un’aggiunta ancor più fondamentale da proporre alla mia nozione teorica di populismo. Secondo lui,
una cosa da aggiungere è la maniera in cui il discorso populista sposta l’antagonismo e costruisce il nemico: nel populismo il nemico è esteriorizzato/reificato in un’entità ontologica positiva (anche se questa entità è spettrale), il cui annientamento ristabilirà l’equilibrio e la giustizia; simmetricamente, la nostra identità – quella dell’agente politico populista – è a sua volta percepita come preesistente rispetto all’attacco del nemico.6
Chiaramente non ho mai affermato che l’identità populista preesista all’attacco del nemico, bensì l’esatto contrario, cioè che proprio un simile “attacco” è la precondizione di qualsiasi identità popolare. Per descrivere il rapporto che avevo in mente, ho citato persino Saint-Just, il quale afferma che l’unità della Repubblica coincide soltanto con la distruzione di ciò che si oppone a essa. Ma vediamo come si sviluppa l’argomentazione di Žižek. Questi sostiene che la reificazione dell’antagonismo in un’entità positiva comporta una forma elementare di mistificazione ideologica e che, per quanto il populismo possa muoversi in una varietà di direzioni politiche (reazionaria, nazionalista, nazionalista progressista, e così via), “nella misura in cui, per definizione, sposta l’antagonismo sociale immanente nell’antagonismo tra il ‘popolo’ unificato e il suo nemico esterno, esso cova ‘in ultima istanza’ una tendenza protofascista a lungo termine”7. Egli espone, inoltre, le proprie ragioni per ritenere che i movimenti comunisti non possano mai essere populisti: mentre nel fascismo ogni idea si troverebbe subordinata alla volontà del leader, nel comunismo Stalin sarebbe un leader secondario – nel senso freudiano del termine – dal momento che questi è subordinato all’Idea. Che bel complimento a Stalin! Come tutti sanno, egli non era subordinato ad alcuna ideologia, bensì manipolava l’ideologia nella maniera più grottesca affinché essa fosse subordinata al suo pragmatico programma politico — a titolo di esempio, il principio dell’autodeterminazione nazionale ricopriva un posto di prim’ordine nell’universo ideologico stalinista; a condizione, tuttavia, che esso fosse applicato “dialetticamente”, il che significava che poteva essere violato ogni qual volta fosse considerato politicamente conveniente. Stalin non era una particolarità sussumibile entro un’universalità concettuale; era piuttosto l’universalità concettuale a essere sussunta sotto il nome “Stalin”. Da questo punto di vista, neanche Hitler mancava di “idee” politiche – la “Patria”, la “razza”, e così via – che manipolava in egual modo per ragioni di convenienza politica. È chiaro che con ciò non stia affatto sostenendo che il regime nazista e quello stalinista fossero indistinguibili, quanto piuttosto che, per quante differenze si possano trovare tra i due, esse non sono comunque fondate su una differente relazione ontologica tra il “Leader” e l’“Idea”8. (Per quanto riguarda l’effettiva relazione tra populismo e comunismo, vi tornerò più avanti).
Torniamo ora ai passaggi logici attraverso i quali è strutturata l’analisi di Žižek – a come concepisce il suo “supplemento” al mio costrutto teorico. La sua argomentazione è a malapena qualcosa di più di una successione di non sequitur. Eccone la sequenza: in primo luogo, egli cita dal mio libro un passaggio in cui, riferendomi al modo in cui erano costruite le identità popolari nel Cartismo britannico, dimostro che i mali della società non erano presentati come derivanti dal sistema economico, bensì dall’abuso di potere perpetrato da gruppi parassitari e speculatori9; in secondo luogo, trova che qualcosa di simile accade nel discorso fascista, dove la figura dell’Ebreo diventa l’incarnazione concreta di tutto quel che è sbagliato nella società (questa concretizzazione è presentata da Žižek come un’operazione di reificazione); in terzo luogo, conclude affermando che tutto ciò dimostrerebbe come in ogni populismo (perché? come?) albergherebbe “una tendenza proto-fascista a lungo termine”; ciò nonostante, in quarto luogo, il comunismo è ritenuto essere immune al populismo in quanto, nel suo discorso, la “reificazione” non avrebbe luogo, mentre il leader resterebbe prudentemente in secondo piano. Non è difficile percepire la fallacia dell’intera argomentazione: primo, il Cartismo e il fascismo sono presentati come due specie del genere “populismo”; secondo, il modus operandi di una delle specie (il fascismo) è concepito come “reificazione”; terzo, senza alcuna ragione dichiarata (a questo punto l’esempio del Cartismo è silenziosamente dimenticato), quel modus operandi della specie diventa la caratteristica che definisce l’intero genere; quarto, di conseguenza, una delle specie finisce per diventare il destino teleologico di tutte le altre specie che appartengono a quel genere. A questo dovremmo aggiungere, come ulteriore conclusione arbitraria, che se il “comunismo” non può essere una specie del genere “populismo”, ciò è presumibilmente (il punto non è esplicitato in alcun luogo) dovuto al fatto che la reificazione in esso non abbia luogo. Nel caso del comunismo avremmo un’universalità non mediata – sarebbe questa la ragione per cui quella suprema incarnazione del concreto, ossia il leader, non può che essere interamente subordinato all’Idea. Inutile aggiungere che una simile conclusione non è fondata su alcuna evidenza storica, ma solo su un’argomentazione del tutto aprioristica.
Ciò nonostante, ben più importante che insistere sull’evidente circolarità dell’intero ragionamento di Žižek, risulta esaminare i due presupposti indiscussi sui quali esso è basato. Il primo è che ogni incarnazione dell’universale nel particolare debba essere concepita come “reificazione”; il secondo è che tale incarnazione sia intrinsecamente “fascista”. A questi postulati saranno opposte due tesi: la prima è che la nozione di “reificazione” è del tutto inadeguata al fine di comprendere il tipo di incarnazione dell’universale nel particolare connaturata alla costruzione di un’identità popolare; la seconda è che tale incarnazione – se correttamente compresa – lungi dall’essere una caratteristica del fascismo o di qualunque altro movimento politico, è intrinseca a ogni tipo di rapporto egemonico – in altre parole, concerne il tipo di rapporto intrinseco al polit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Circa l’autore
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Premessa dei curatori
  7. Laclau vs Badiou e Agamben
  8. Laclau vs Žižek e Negri (& Hardt)
  9. Dibattiti e scontri