II
LA CITTÀ IN MOVIMENTO
Dinamiche corporee nello spazio urbano
In un saggio del 2014 intitolato Landschaft als Wahrnehmungsweise1 – il paesaggio come modo di percezione – Hermann Schmitz propone una tesi intrigante: che l’esperienza del paesaggio disponga il soggetto in una particolare condizione percettiva, caratterizzata dalla sospensione della consueta dialettica corporea tra contrazione (Engung) ed espansione (Weitung). Questo stato speciale non è di origine del tutto naturale, giacché è stato acquisito culturalmente a partire dalla “rivoluzione del paesaggio” del Settecento. Questo “modo di vedere” è oggi incorporato nella nostra interazione con l’ambiente naturale e ci consente di godere del suo potenziale ristorativo, espresso tipicamente da un “alleggerimento” della nostra sensazione corporea2.
Una delle possibili chiose di questa tesi è che la sensazione piacevole che spesso avvertiamo in un ambiente naturale deriva non tanto dalla presenza della vegetazione o dalle viste pittoresche, quanto piuttosto dalla risposta corporea – culturalmente addestrata – del soggetto a questo tipo di ambiente. Non è la natura a offrirci i piaceri del paesaggio, semmai la capacità acquisita di allentare la costante tensione corporea tra stati di contrazione ed espansione. Questa condizione può verificarsi, peraltro, anche negli spazi costruiti: come osserva Wolfgang Meisenheimer, “Lo spazio architettonico, con le sue contrazioni ed espansioni, è una rappresentazione della tensione elementare che definisce il nostro sentire corporeo”3.
Ciò che viene proposto da Schmitz e Meisenheimer è la sospensione del principio causale che considera il soggetto come plasmato dall’ambiente in una relazione unidirezionale. L’essere “accordati” ad uno specifico spazio – sia questo naturale o artificiale – avviene attraverso una forma di risonanza tra il corpo vissuto e la situazione contingente che emerge dall’ambiente4. Benché fondamentali, le qualità materiali di un ambiente rappresentano solo una parte di quanto produce questa dinamica: lo spazio si attua come relazione – a volte drammatica – tra ciò che colpisce il soggetto e la sua risposta corporea. Soltanto attraverso il corpo e la sua carica affettiva siamo in grado di apprendere l’ambiente che ci circonda sotto forma di spazio5.
L’esperienza quotidiana della città ci mostra come, in alcuni casi, lo spazio urbano è in grado di sollecitare una sensazione di “alleggerimento” confrontabile con quella che avvertiamo nell’ambiente naturale. Se avalliamo la tesi secondo la quale gli stati affettivi non sono definiti in maniera biunivoca dall’ambiente, ma piuttosto articolati dal reciproco rispecchiamento fra dinamiche corporee e situazioni spaziali, possiamo forse ipotizzare che lo specifico modo di percezione teorizzato da Schmitz per il paesaggio possa estendersi, almeno in alcuni casi, anche all’ambiente urbano. Nelle pagine che seguono vogliamo pertanto porci una domanda derivante proprio da queste considerazioni: possiamo ipotizzare che la città ci disponga verso una specifica modalità di percezione?
Il concetto di “città” include, nei fatti, molte realtà diverse – da una megalopoli asiatica a un piccolo centro storico europeo, un quartiere informale in Africa o una gated community in una zona suburbana americana. Nonostante le loro evidenti differenze, tutte queste configurazioni ricevono la stessa denominazione6. Eppure, sono molte anche le qualità sovrapponibili: nelle città l’artificiale sovrasta il naturale; lo spazio urbano è l’habitat primario per la vita umana, divenendo dunque teatro di innumerevoli attività ed interazioni; gli spazi aperti vengono adoperati, seppure con diverse declinazioni, per lo spostamento a piedi o meccanizzato. Sebbene le differenze possano superare le analogie, non intendiamo qui classificare le città a seconda della loro struttura tipologica od organizzazione funzionale: miriamo piuttosto ad esplorare come chi le abita le esperisca in quanto spazio. L’intento, dunque, consiste nel comprendere la relazione tra le dinamiche corporee, l’esperienza dello spazio urbano e la struttura fisica della città. Una maggiore consapevolezza di queste relazioni deve sottendere qualsiasi azione trasformativa per la città esistente, sia quando si tratti di analizzare una condizione data, sia per prefigurarne un assetto futuro.
Le teorie del corpo nel pensiero architettonico contemporaneo
In molti rami del pensiero contemporaneo – scienze cognitive, estetica, fenomenologia e, più in generale, scienze umane7 – viene ampiamente riconosciuta centralità del corpo. Anche nella teoria dell’architettura, a partire dalla metà degli anni Novanta, è emersa un’attenzione crescente nei confronti di questo tema grazie ai lavori di alcuni autori e critici8 basati sulla teoria del corpo di Maurice Merleau-Ponty9. Nel suo sistema fenomenologico, il corpo vissuto viene concepito come nucleo fondante dell’esperienza, in un connubio inseparabile con la situazione spaziale contingente. La qualità immediata dei suoi scritti e i frequenti ricorsi alla descrizione di situazioni spaziali rendono la sua opera facilmente accessibile al mondo dell’architettura, tanto da essere entrato negli elenchi di letteratura di molte scuole in tutto il mondo. Rispetto agli impianti teorici di altri autori, più legati a formulazioni astratte, il pensiero di Merleau-Ponty consente una traduzione relativamente diretta nella pratica empirica: “Nel progetto architettonico esperiamo il mondo in maniera sensibile, spazialmente e temporalmente, e da quest’esperienza produciamo qualcosa di materiale, tangibile, spaziale e duraturo. Questi aspetti dell’architettura risuonano con gli aspetti più profondi della nostra corporeità”10. Merleau-Ponty pone lo spazio al centro delle dinamiche corporee, offrendo una molteplicità di possibili collegamenti con le pratiche del progetto.
Il progetto filosofico di Hermann Schmitz, pur partendo da analoghe premesse, si discosta notevolmente rispetto alla fenomenologia di Merleau-Ponty. Il trasferimento delle emozioni da una sfera psicologica privata ad una condizione spaziale – lì dove, secondo Schmitz, si “trovavano” prima dell’avvento del pensiero greco classico, fino al V secolo a.C.11 – radicalizza l’idea di corpo inteso come “cassa di risonanza” degli eventi spaziali. Non a caso, Schmitz critica la teoria del suo predecessore francese, in cui ravvisa la sopravvivenza di un dualismo residuo tra corpo vissuto ed esistenza, descritte come entità autonome e separate12. Il corpo vissuto – Leib – viene considerato l’unico condensatore che riassume numerose altre entità, a partire dall’anima e dalla mente, artificiosamente separate dalla tendenza analitica del pensiero occidentale.
Nonostante il numero ancora limitato di traduzioni dal tedesco, l’opera di Schmitz sta diventando vieppiù rilevante nel pensiero architettonico contemporaneo. La sua concezione delle atmosfere come sentimenti spazializzati13 è divenuta, negli ultimi anni, una delle nozioni chiave nella teoria dell’architettura14. La diffusione è avvenuta prevalentemente attraverso l’opera di Gernot Böhme, il cui lavoro si rivolge spesso allo spazio architettonico e alla possibilità della “produzione” di atmosfere attraverso il progetto15. Böhme sostiene che le atmosfere emergono nello “spazio della presenza corporea” (Raum leiblicher Anwesenheit)16, un modello di spazio distinto sia dallo spatium (lo spazio geometrico cartesiano) sia dal topos (l’idea aristotelica del luogo come sistema di relazioni spaziali) e collegato al trittico, proposto da Minkowski, del moi-ici-maintenant quale descrittore dell’esperienza del soggetto17. Questo “terzo” spazio non ha origine in un sistema di relazioni fra oggetti fisici, bensì è il risultato delle sensazioni che il corpo vissuto riceve dagli agenti immateriali che occupano l’ambiente18. Queste entità, ontologicamente distinte dalle “cose” in quanto prive di sostanza materiale e di permanenza, colpiscono il soggetto con una forza simile – se non superiore – a quella degli oggetti propriamente detti19.
Dalla sua origine filosofica il concetto di atmosfera, nel suo stretto collegamento con l’esperienza incarnata, si è imposto fra le priorità della riflessione nella teoria dell’architettura. Rinforzando una tradizione preesistente di indagine fenomenologica sull’ambiente costruito, la triangolazione fra embodiment, emozioni e spazio fonda una comprensione più profonda di come l’architettura agisca sui soggetti che la abitano e degli strumenti progettuali capaci di dare voce a queste risonanze.
Un punto chiave condiviso dai vari orientamenti fenomenologici risiede nella presa di distanza rispetto ai temi della misurabilità, che implica una critica più o meno esplicita del metodo scientifico classico. L’esperienza in prima persona non può essere misurata direttamente, poiché questo condurrebbe ad un’oggettivizzazione della soggettività20: i dati estratti da questa misurazione, inoltre, non sarebbero comunque attendibili21. Il fiorire degli studi sui meccanismi neurali e fisiologici dell’esperienza architettonica getta certamente luce su alcuni aspetti dell’esperienza, confermando attraverso l’analisi quantitativa alcune nozioni già intuitivamente note. Tuttavia, una prospettiva di ricerca frammentaria e la mancanza di un quadro di riferimento generale rendono i risultati ancora difficili da interpretate e utilizzare. L’impossibilità di sperimentare nella prospettiva in prima persona riduce dunque la disponibilità di conoscenze condivisibili in relazione alla dinamica corporea nello spazio.
L’accresciuta rilevanza della dimensione esperienziale nella formazione architettonica e nella pratica progettuale è di certo un fatto positivo. Tuttavia, così come accaduto con molte precedenti fascinazioni della teoria dell...