PARTE TERZA
L’allievo
Se oggi, come abbiamo visto, si tende a considerare il soggetto come individuo formato secondo determinati criteri che corrispondono all’approccio positivista, fino all’estremo del capitalismo e del patologico, dove tutto è già espresso all’inizio e perciò conseguente alla diagnosi iniziale in una relazione di causa-effetto dalle conseguenze preventivabili, ecco che considerare l’allievo come soggetto significa configurarlo come un essere ancora aperto, che si dà in una forma finita, con questa che non corrisponde ancora alla totalità, latente, dell’allievo stesso, sul quale non può essere apposta alcuna parola definitiva. Non è dunque quell’allievo che oggi, nella deresponsabilizzazione alienante dell’umano, tende ad essere identificato attraverso l’oggettivazione della diagnosi che certifica uno stato conclamato e compiuto da cui partire. Nel DSM 5 e nella prassi educativa esistono diagnosi che coprono tutto lo spettro della soggettività, che va dallo scarso rendimento secondo criteri dati (BES; ADHD; dislessia etc), fino all’opposto, come ad esempio la diagnosi di “gifted”, ossia plusdotato. In un caso come nell’altro, l’agire educativo è tenuto ad aderire a dei protocolli standard sulla scorta della diagnosi; protocolli fondati sul disturbo causa del disallineamento dalla media o sulla sua problematicità in relazione al contesto, non già all’inespresso che ognuno porta in sé2. Il fare, in questo approccio, non è rivolto ad un soggetto, bensì ad un’etichetta apposta. Il portatore di questa etichetta potrà essere ignorato nel suo essere (vivente) Carlo, Nadia, Laura o Francesco, perché ogni azione sarà tutta rivolta al contesto relazionale, come se ogni cosa si esaurisse in queste relazioni e tutto dipendesse dall’esterno. Ciò che ripugnava i francofortesi è stato ribaltato nel positivo.
Quest’insegnante che si attiene ai protocolli avrà le spalle legalmente coperte in caso di imprevisto, ma come soggetto egli ha già abdicato, così come avrà violentato l’allievo che gli è davanti, in quanto la sua azione è mossa dalla forza e dal suo corrispettivo, il diritto, non certo dalla giustizia. Il futuro del soggetto non va perciò prefigurato attraverso una diagnosi posta a priori, ma va coltivato nel presente ancora aperto e oscuro, solo dal quale può nascere un futuro non pre-determinato, tendenza esperibile nell’ora. Perché la “possibilità reale risiede non in un’ontologia bell’e pronta dell’essere di ciò che finora è, bensì nell’ontologia, da fondare in maniera sempre nuova, dell’essere di ciò che non è ancora […] non c’è alcun vero realismo senza la vera dimensione di questa apertura”3. Perciò “dietro l’onda infranta di un Ci che si pretende raggiunto”4 vi è “la via della perdita dell’essere-statico fissato, addirittura ipostatizzato”5. E che cos’è l’educazione se non una modalità di portare a compimento la totalità latente presente nell’allievo in forma di traccia?6 Un compimento che sia coincidenza piena di forma e vita; fine certo utopico, ma da perseguire con una speranza non disperata, bensì sincera e compresa, vissuta in prima persona con tutto se stessi. L’allievo allora non sarebbe un oggetto da plasmare e individuare secondo le forme dell’epoca, date per buone acriticamente e spacciate capziosamente come suo interesse. Egli sarebbe un soggetto mai completamente realizzato nell’hic et nunc che, attraverso il cosalmente possibile e ancora di più attraverso l’oggettualmente possibile, griderà più o meno forte la sua domanda di compimento nel suo essere “fuori di chiave”. Un compimento che non sarà mai definito e definitivo, proprio per i limiti nel suo manifestarsi e per il suo continuo trasformarsi interno, in quanto vivo nell’oscuro dell’attimo vissuto. Compare dunque una domanda e una ricerca asintotica di compimento che richiederà un’infinita attività, consistente nel far combaciare forma ed essenza (vita). Coincidenza completa impossibile se intesa in una temporalità cronologica, perché giocata tra il molteplice interno che pulsa e il singolare presente nella forma, ma possibile nell’istante, finché esso non verrà superato dal non. L’oscuro dell’attimo vissuto dunque evita al soggetto il rapprendersi in una forma definita e compare così, all’interno dell’allievo, il multiversum, ossia una molteplicità nella contemporaneità. Intuizione che in psicologia è stata sviluppata da Binet, il quale nel suo Les alteration de la personalité affermava che ogni individuo ha molteplici personalità compresenti e solo una risulta dominante, ma non definitivamente, bensì per un periodo limitato di tempo, poi il suo posto verrà preso da un’altra personalità. Posta in questi termini l’educazione consiste nell’individuare il molteplice all’interno del soggetto, con tutte le difficoltà del caso, e individuare la singola specificità più adeguata all’ultimo presente per renderlo il più compiuto possibile. Ecco che educare significa, attraverso un’opera maieutica e concreta, il far vivere le vite non vissute che ognuno porta, latenti, con sé nell’hic et nunc. Questa molteplicità si presenta nella contemporaneità e sta all’educatore la scelta (decisione) di quale aspetto privilegiare per avvicinare l’allievo sempre più a se stesso.
Siamo ben lontani qui dallo scenario macchinistico, dove tutto viene caricato nell’anticipo e poi fatto agire automaticamente. Infatti “la categoria oggettiva della possibilità si svela in maniera dominante come ciò che essa è, non per se stessa, bensì grazie all’intervento stimolante degli uomini in ciò che è ancora trasformabile: come possibile concetto di salvezza”7. Questa salvezza che sarebbe la “riuscita identità di esistenza ed essenza, come la più decisiva categoria di salvezza. Infatti il punto ideale in cui essenza ed apparenza coincidono è sempre al tempo stesso l’assoluto punto di riferimento per la linea strutturale di ciò che è umanamente positivamente possibile”8. Di nuovo compare la dialettica come via al superamento della discrasia tra possibile ed impossibile, tra vita e forma, tra finito ed infinito. Dialettica che si dà nell’unico presente, la contemporaneità, in forma di molteplice compresente.
Nulla, al contrario del positivismo, si risolve nell’inizio e
Si tratta di “presupporre una possibilità al di là della realtà già presente”10.
Ma latenza e tendenza si danno contemporaneamente, perciò l’evidente non va dato per scontato e per assodato, ma va interrogato affinché riveli anche la latenza e di qui la tendenza delle quali è portatore. Educare significa perciò “penetrare ciò che non ha ancora avuto voce e non è stato ancora liquidato”11. Così “il non ancora conscio deve...