III
L’INQUIÈTUDE OU LE VIDE DU CŒUR
Questo movimento (o slittamento) di significato della nozione di inquietudine nella cultura letteraria e filosofica del XVIII secolo lo si coglie se si procede a una comparazione tra gli scritti del religioso Jean-Baptiste-Élie Avrillon e i romanzi di Antoine-François Prévost, a partire da uno dei più suggestivi “lieux thématiques”1 dell’inquietudine, quello del “vuoto del cuore”.
Nella Préface alle sue Reflexions theologiques, morales et affectives sur les attributs de Dieu (1705), nella scia di Sant’Agostino (meglio, “d’un agostinismo ritrasmesso da Malebranche”2) e in “uno stile accattivante” che si avvicina a quello di Jean-Baptiste Massillon3, Avrillon spiega come un cuore inquieto sia un cuore mutilato e sanguinante, agitato da furore e sospiri, da pianto e turbamenti, senza pace e senza equilibrio4: vuoto perché privo di quella che Avrillon chiama “la plenitude, c’est-à dire, toute la perfection” di Dio5.
Queste affermazioni di Avrillon sono come l’eco che ripete distintamente la voce di Massillon levatasi il 13 dicembre 1699 (in presenza del duca e della duchessa di Bourgogne, ma in assenza di Luigi XIV) durante il sermone Sur le délai de la conversion, durante il quale aveva affermato che gli uomini che vivono come sprofondati e inabissati nel peccato (dans le crime) devono da esso sortire.
Con la conversione, essi possono restituire la pace al loro cuore (“rendre la paix à votre cœur”), bandire da esso “quel caos di passioni” che è la causa di tutte le sventure della vita, “prepararsi almeno alcuni giorni felici e tranquilli, e, dopo aver tanto vissuto per un mondo che sempre ha lasciato [il cuore] vuoto e inquieto (vide et inquiet), vivere infine per un Dio che è il solo che può mettere la gioia e la tranquillità nelle anime”6.
Nella scia di Massillon, Avrillon specifica che Dio ha dato all’uomo ragionevole “un esprit & une volonté” per conoscere e per amare7. L’Autore della natura pone nell’anima una sorta di “lumiere naturelle”, che si sviluppa insensibilmente e ci conduce a un’altra luce che serve all’uomo per discernere tra tanti oggetti che si incontrano quali sono quelli ai quali bisogna dare la preferenza.
Una retta “lumiere” deve, secondo Avrillon, insegnare a orientare la volontà, facendole preferire gli oggetti più nobili e degni del nostro esprit e del nostro cœur, quelli che, in assenza di un falso giudizio o di una sregolatezza del cuore, non mancheranno di rivolgerci verso Dio8.
Seguendo alcune osservazioni di Giovanni Damasceno (espresse nel Libro I, capitolo I9 e capitolo III10 della Fede ortodossa) e di Tertulliano11, Avrillon può così affermare che nell’uomo ragionevole è presente “una tendenza (une pente), un’inclinazione e un istinto naturale che lo portano alla conoscenza e all’amore di Dio, come Autore della Natura […] L’esistenza di questo Essere supremo è inscritta nel fondo della nostra anima in caratteri ineffabili, di modo che solo l’insensato può dire che nel proprio cuore non vi sia Dio”12.
Per Avrillon, però, quei folli che, “contro i propri lumi naturali, deviano e si svagano (prennent le change13) per attaccarsi ad alcune delle creature, di esse se ne disgustano presto, per abbandonarsi volta per volta ad altri oggetti creati, che prima li seducono e alla fine li stancano come i primi, facendo in modo che la loro anima senta allora un vuoto che essa vorrebbe riempire, un’inquietudine che vorrebbe calmare, un’avidità di piaceri solidi e durevoli, ma essa non trova nulla intorno a sé che possa soddisfarla (qui la puisse contenter). Irritata allora, per ragione, per sentimento e per esperienza, dall’incostanza delle creature e della propria, essa s’eleva per fissare il proprio sguardo al Creatore: anche se sente bene che, malgrado tutti gli sforzi naturali, non ha abbastanza lumi per conoscerlo a fondo, né, conseguentemente, assai ardore per amarlo come si deve. La Grazia viene in soccorso della Natura; la religione eleva e perfeziona la ragione, e la fa passare dall’ordine naturale a quello soprannaturale, dà ad essa nuovi lumi, che producono nuovi motivi d’amore”14.
La religione impedisce così all’uomo di cadere in un’infinità di illusioni, di errori, di smarrimenti che, senza di essa, sarebbero inevitabili: gli interdice, aggiunge Avrillon, di riempire il proprio cuore “d’autre chose que de Dieu”.
I piaceri che gli esseri umani inseguono nella convinzione di riempire il vuoto che sentono dentro quando Dio si fa lontano (quando essi lo allontanano) lo svuotano d’ogni contentezza e di ogni repos: “Colui che ama i piaceri, che li gusta, che è attento solo a perfezionare la propria mollezza, può vantarsi d’avere un cuore pieno? Ahimè! Se egli lo immagina, è nell’errore; il cuore non è pieno quando non è soddisfatto, e i piaceri non possono che divertirlo e distrarlo (l’amuser), e mai soddisfarlo pienamente, perché manca loro sempre qualcosa di ciò che può renderli completi; essi sono sempre preceduti da inquietudini (d’inquietudes), da avidità e da turbamenti; essi sono sempre mescolati con l’amarezza e con la difficoltà; sono brevi e finiscono sempre con dispiaceri e rimorsi: così il voluttuoso ha un bel da fare, resta sempre un certo vuoto nel suo cuore, che non si può riempire se non con una voluttà pura, innocente, duratura, e questa voluttà non si trova se non nel possesso di Dio”15.
Con Agostino esegeta del De fuga saeculi di Ambrogio, Avrillon chiede agli uomini persi nella ricerca dei piaceri di evitare d’apparire (dove l’apparire dice la perdita del proprio essere più vero), di fuggire il mondo “in cui si trova dappertutto solo il nulla e mai Dio, dove tutto ciò che sembra pomposo e magnifico non è che un vuoto spaventoso”16 che inquieta l’anima e la perde.
In un’altra sua opera (Commentaire affectif sur le grand precepte de l’amour de Dieu), Avrillon riprende questo tema e scrive: “Interrogate il cuore troppo avido di voluttà sul sentimento che gli resta nel presente riguardo ai piaceri sensuali che egli ha altre volte sperimentati a spese della sua innocenza. Se è sincero, non mancherà di rispondervi che non ha mai gustato piaceri senza che fossero mescolati ad amarezza. Ammetterà in buona fede che le voluttà passeggere e mondane possono sì rallegrare (bien amuser) il cuore, ma mai riempirlo, che esse dapprima affascinano e alla fine stancano, che la ricerca non è mai senza inquietudine, che l’esperienza non è mai tranquilla e che la fine non è mai senza rimorsi e senza dispiaceri”17.
Avidità, mancanza, vuoto, inquietudine, amarezza, disgusto, rimorsi, dispiacere, malinconia, infelicità: questi termini (che in Avrillon appaiono soffusi d’una luce religiosa ma anche soffertamente umana) ritornano anche nei romanzi di Prévost, che, nel loro insieme, formano come un grande lago, in cui si riversano vari immissari: quello ampio delle Pensées pascaliane e quello sinuoso della “filosofia malebranchista o quietista”, al fondo dei quali sono presenti alcuni temi teologici ed esistenziali18: la “tristezza dolce-amara”, la “nostalgia dell’infinito”, la “obscurité de l’âme à elle-même”19, “l’inquietudine diventata primo motore dell’esistenza”20, il “divertissement”, il “vuoto del cuore”21, il “dégoût du monde” e il “goût de la retraite”22.
È a partire da queste influenze religiose, filosofiche e morali (tutte ispirantesi, “sans ambiguïté”, a quella dottrina che ancora dominava il pensiero teologico e morale del secolo classico, cioè “quella dell’illustre Sant’Agostino”23) che assumono maggiore intelligibilità alcuni aspetti della visione prévostiana del mondo: l’indagine del sentimento dell’esistenza, la rappresentazione delle malattie dell’anima e...