Milo De Angelis
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Milo De Angelis

Le voragini del lirico

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Milo De Angelis

Le voragini del lirico

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Informazioni sul libro

Il libro propone un percorso nell'opera di Milo De Angelis, dall'esordio di Somiglianze (1976) sino alle sue ultime raccolte, al fine di mettere in evidenza le caratteristiche di un autore che intende la scrittura in versi come radicale e tragica esperienza del reale, potenza originaria e dionisiaca. Segnata da una frontale contestazione del disincanto del moderno, così come da una declinazione "apocalittica" del sublime, la poesia deangelisiana cerca l'assoluto nell'istante lirico, approfondendo la postura verticale di un soggetto per il quale la coscienza del negativo e della finitudine umana rigettano non tanto la visione ottimistica dell'esistenza, quanto il depotenziamento passivo, o pessimistico, del pathos. A partire da questi concetti, il libro punta a cogliere e interrogare i nodi di una delle più compiute e perentorie riproposizioni del lirico nella letteratura europea dagli anni Settanta a oggi, mostrandoci il profilo di un autore che fa della scrittura una questione di vita o di morte, una "chiamata in giudizio" a cui non è dato sottrarsi.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857570914
Argomento
Literature
Categoria
Poetry

I.
LE VORAGINI DEL LIRICO

SPOSARE L’ASSOLUTO

La poesia è il reale, il reale veramente assoluto.
Novalis

1. L’assolutamente oltre

Renè Char, affrontando il significato e il portato dell’opera di Arthur Rimbaud nell’orizzonte della letteratura moderna affermava risolutamente che “fuori della poesia, fra il nostro piede e la pietra che esso calpesta, fra il nostro sguardo e il campo percorso, il mondo è inesistente. La vera vita, il colosso irrecusabile, non si forma che nei fianchi della poesia”1. Milo De Angelis è probabilmente il poeta italiano contemporaneo che meglio può riconoscersi, senza esitazioni o dilemmi, nella rivendicazione del lirico come ‘assoluto dell’esperienza’ cui Char allude nella citazione appena riportata. Dall’esordio degli anni Settanta sino ai giorni nostri De Angelis infatti rivendica una “visione totale della poesia” (CSP, p. 98), conservando nella sua pagina, sotto l’influsso del Rimbaud di Una stagione all’inferno e delle Illuminazioni, la ‘passione dionisiaca’, la scossa e il fremito del “ragazzo che vive in noi e ci ricorda sempre quel primo scontro con gli Assoluti” (LPD, p. 157), sospingendo il lirico al di là dei ‘sentieri interrotti’ della contemporaneità. Dagli abissi del soggetto lirico De Angelis trae una inarrestabile ansia d’infinito a partire dalla quale opporsi all’eclissi degli assoluti dall’orizzonte del proprio tempo, in forza di un sublime che non rappresenta più, kantianamente, un confine, bensì, nel segno di Leopardi2, si trasforma in una soglia che la poesia è chiamata ad attraversare, invitando l’uomo a puntare al di là della propria contingenza, pur restando incatenato ad essa.
Quel famigerato “bisogna essere assolutamente moderni”3, che il poeta di Charleville gridava in Addio, imponendo al proprio slancio poetico e spirituale la forza di una invocazione imperativa tesa a “possedere la verità di un’anima e di un corpo”4, impronta, o meglio marchia a fuoco tutta l’opera deangelisiana. Al passo rimbaldiano De Angelis si è ripetutamente, e ‘programmaticamente’ richiamato negli anni, a partire da Poesia e destino, esplicitando una idea di poesia segnata dalla necessità di “essere moderni nell’assoluto, e di rimanere assoluti di fronte all’impatto con la contingenza” (PED, p. 157). In pratica la linea ostinatamente verticale, e vertiginosa, della sua poesia, sospesa fra ebbrezza e ‘supplizio’ del presente, non conosce fughe e o compimenti idealistici; il suo gettarsi verso l’“assolutamente / oltre” (TP, p. 56) descrive una condizione mortale, l’orrore sacro di un soggetto che permane nel finito, e nel finito realizza il proprio assalto al limite. Sarà così attraverso una esistenza integralmente risolta nel puro fatto di esistere, senza supporti fideistici o ulteriori interrogativi morali o religiosi, che De Angelis avverte il manifestarsi di una potenza eccezionale in grado di proiettare il soggetto fuori di sé, tramutando altresì la coscienza della propria finitudine in “superiore trampolino di lancio”5 verso le verità eterne del negativo. Traducendo i miti romantici in fondamenti tragici del proprio esistere, vedendo il cielo crollare sulla sua testa, De Angelis impone al suo sguardo di fissarsi sulla caducità dell’umano e trasforma la sua idea di poesia in una personale, lirica declinazione dell’heideggeriano Sein-zum-Tode.
Così come il convulso taccuino di Rimbaud spingeva il suo autore verso un oltre, un al di là della scrittura e dell’esperienza che allacciava eterno e precario, interpretando questa lacerazione come l’unico modo per “stare al passo, non cedere”6, permanendo attuali dentro il cuore lacerato della contemporaneità, De Angelis intende la poesia come “caccia alla totalità”7, per dirla con Colli. In tale ottica il poeta milanese dà voce alla propria necessità di restare in contatto con il portato sublime del lirico in un tempo che sembra contestare non solo la rilevanza della poesia ma la sua stessa ragion d’essere, la sua capacità di incarnare un luogo elettivo del senso (tanto dal punto di vista simbolico quanto antropologico). Come ha infatti puntualmente rilevato Simonetti
[m]ai come oggi il timore sconvolgente, e per questo inconfessabile, è che una lirica perfetta, ambientata nella nostra lingua e nella nostra vita, non si possa più né leggere né scrivere: non per mancanza di talento dei singoli poeti, ma per una disabitudine collettiva, sociale, alla verticalità, alla concentrazione, all’ascolto della lingua – ciò che spinge ogni vero poeta a quell’atto per tutti sommamente misterioso (ma per lui tassativo, indispensabile) che consiste nell’andare a capo. Ebbene, l’opera di De Angelis […] ci ricorda invece, insieme a quella di non molti altri colleghi e colleghe, che l’espressione lirica resta possibile, che andare a capo ha un senso, insomma che si può ancora scrivere grande poesia - anche se forse questa pienezza di forma e di significato non la sopportiamo e non la meritiamo più.8
Aggrappato al lirico come ‘forma necessaria’, ustionante e viva, che ospita l’impronta digitale dell’io assieme all’energia dell’universo, De Angelis ci presenta, nella sua opera, un soggetto che esperisce e rivela la propria radice più intima e inquieta a partire dal riconoscimento dell’attualità dello ‘stato romantico’, rivendicando il proprio sentirsi, a cavallo fra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, di casa unicamente in un mondo in cui domini ancora
[i]l mito dell’individuo ferito dal mondo e quello dell’individuo come ferita del mondo; l’apoteosi della personalità prometeica e la dissoluzione di quella stessa personalità; il mito del cosmo come rete di connessioni significative e luminose e quello del regresso nel grembo primigenio della natura; la febbre di una intensità esistenziale nuova e il senso del mistero dell’esistenza, della sua precarietà, o, viceversa, l’esibizione proterva della propria ferita sul palcoscenico del cosmo.9
Nella poesia di De Angelis tutto ci è scaraventato addosso, troppo prossimo per essere messo definitivamente a fuoco o pienamente controllato. L’intensità incandescente del sublime sconvolge e sollecita il soggetto lirico, lo ‘innalza’ alla condizione di capro, quale strumento di mediazione, tragica, fra contingente e assoluto, fra eternità e nulla. Esposta da sempre alle irruzioni, destabilizzanti, del mito e del sacro, dell’irrazionale e di quella ‘parte maledetta’ messa in luce dal pensiero di Bataille, la poesia di De Angelis riconosce nella sua ‘esperienza dell’abisso’ ciò che di più umano c’è nell’uomo. L’io lirico si immerge nelle lacerazioni e nei brandelli del proprio vissuto, in ossessioni biografiche e al contempo ancestrali, convinto che solo a contatto con i baratri della negazione e allo stesso tempo mantenendo vivo il dialogo ‘impossibile’ con l’assoluto, proprio di un adolescenziale desiderio di pienezza e totalità, si possa produrre, nel soggetto, una scossa di eternità, un contagio del dionisiaco, tale da trasformare la coscienza del propria finitudine in febbre di vita, potenza, perturbante, dell’esserci. Il suo discorso lirico presenta così le caratteristiche di una urgenza allarmante, che divora il soggetto e al contempo lo trasforma in contenitore di una ‘emozione cosmica’. A partire da un travolgente ‘sentimento tragico della vita’, per dirla con Ortega y Gasset, De Angelis porta nel verso una concretezza allucinata, dove delirio e rendiconto esistenziale si ritrovano, con reciproco sgomento, in una prossimità che rende impossibili le distinzioni, e la poesia si manifesta come una scossa che sospinge, repentinamente, e a forza, l’io lirico ai limiti dell’esperienza. Prende in tal modo forma l’urlo della ragione e della non-ragione, la voce posseduta dal caos che attraversa, come un flusso continuo, la sua poesia:
E poi ritorna, perde il contatto.
Per bontà verso
di noi, tu gridi alla luce questo cervello
senza più terra. Intorno,
sorrisi di trionfo, donne
anch’esse innate. Qualcuno di me
brucia la gramigna, in fretta,
vedendo o sbagliando.
“Non posso impazzire” dice
un’altra volta. Si apre,
senza millenni, il costato. Rimarremo
come una lente esatta. (TP, p. 142)
La poesia si presenta sempre in De Angelis come ‘atto sovrano’, imposizione e pressione di qualcosa di enorme, eccezionale, che può trovare parola e forma solo come pura autoespressione lirica, terrore sublime che stravolge il soggetto e lo pone di fronte al proprio vuoto interiore riconoscendo in esso il suo centro vivo, pulsante. Per esprimere l’incandescenza di tutto ciò non è possibile affidarsi alle sole potenzialità del logos, né all’ordine di un discorso che rigetti le ragioni del silenzio e del negativo, le ragioni del vuoto e della follia.
Nella poesia di De Angelis non c’è biografismo né confessione, ma un severo diktat che impone di essere autentici, sino alla crudeltà (in senso artaudiano), scartando tutte le opzioni che può offrire la finzione. Al contempo la realtà non pare né abitabile né integra, resta per converso sempre, in qualche modo, estranea o carica di allarmi, rivelando terrori, voragini interne, tanto da togliere a ogni esperienza chiarezza, centro, domesticità. Il reale diviene, di volta in volta, una divinità da invocare, un labirinto in cui perdersi, un muro contro cui impattare, la porta di ingresso per la propria stagione all’inferno, il non-luogo di una guerra di trincea, uno scenario mitico e sacrale, un territorio devastato, una stanza popolata da incubi e amori che sembrano confondersi tra loro. Domina però l’urgenza di una verità che il soggetto vuole comunicare e che mette l’umano a nudo, nella sua fragilità, ponendolo nel vicolo cieco della propria contingenza, nella morsa di una ininterrotta ‘trattativa’ con la morte. Tutto ciò non diviene mai cronaca intimistica del privato, offrendosi, per converso, come iterato disvelamento di un destino e di un carattere subito proiettati verso l’orlo dell’estremo nonché connessi con l’universalità della condizione umana. A manifestarsi, nella pagina, sono le ombre e gli incubi di un io ‘squassato’ dal proprio stesso impeto, e, al contempo, apocalitticamente condannato “all’isolamento sanguinoso dell’unico superstite”10. Un costante stato di eccezione accompagna l’esperienza soggetto, proiettandolo all’interno di una passione del negativo che potenzia la percezione, l’esperienza e l’intuizione. Nell’assalto al limite dell’io lirico si ‘custodisce’ il contrasto fra finito e infinito, eternità e precarietà, panico e gioia, a cui questa poesia giura eterna fedeltà. L’angoscia poi si rivela come bussola di un pensiero agganciato alla vertigine dell’agnizione tragica, che confida nella solitudine del lirico e nel suo ‘eterno presente’, per dare la parola a una esistenza che, dalle origini dei tempi, abitata dalla morte, “assomiglia a una ferita che non può richiudersi”11.
L’assoluto deangelisiano si materializza nella perfezione del gesto atletico, nel caosmos delle pulsioni così come nella negazione pura e totale o nell’entusiasmo divorante di una adolescenza che rifiuta mezze misure. La sua è una ‘parola innamorata’ e catastrofica, fedele alla esaltazione prima, ebbra, di chi getta interamente se stesso nel pulsare dell’attimo, fra “agguato del dolore” (LPD, p. 138) e “guizzo di gioia” (Ibid.). Il soggetto lirico confliggendo contro il vuoto e contro la storia cerca di afferrare, come propria unica scialuppa di salvataggio, l’istante, inteso come diapositiva dell’eternità. La poesia deve per questo presentarsi, per De Angelis, nel reciproco rispecchiarsi di lirica e assoluto. Al contempo, per il fatto stesso che la lirica incarna l’unicità, il respiro irripetibile di ciò che accade una sola volta, essa porta con sé il battito tragico e il timbro ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. INDICE
  5. Dedica
  6. MILO DE ANGELIS E L’ESPERIENZA DELL’ABISSO
  7. I. LE VORAGINI DEL LIRICO
  8. II. IL TRIBUNALE DEL TRAGICO
  9. BIBLIOGRAFIA