Le domande di senso
1. Nessuno può prevedere del tutto le conseguenze e il senso generato dalle proprie azioni. Molto spesso, infatti, non ci si chiede quali siano le conseguenze del “fare”. Pensare, sebbene spesso inconsapevolmente, presume sempre la possibilità di proiettarsi nel fare, concreto o astratto che sia. Pensare “per fare” si riproduce, nello spazio di una frazione di secondo, in azione, articolandosi e strutturandosi in una percezione transitoria costante, che si accumula nel nostro sistema cognitivo e che nel tempo può riattivarsi – ma, non necessariamente – “rinominando” la latenza, a fronte di fattori stimolanti, endogeni ed esogeni.
La sconnessione tra pensare e fare è, sicuramente, la prima causa di quella mancata domanda circa il senso delle proprie azioni. Da qui discendono automatismi, disattenzioni e ritrazioni, consapevoli o inconsapevoli. E proprio dalla valutazione poco o per nulla circostanziata di quelle possibili conseguenze deriva l’inconsistenza di una visione adeguata, funzionale a scegliere consapevolmente e responsabilmente cosa fare e, così, valutarne l’impatto e prevederne i rischi, per poi decidere e cambiare.
Eppure, ciò nonostante, tutti percepiscono la propria vita come un insieme, più o meno groviglioso, di azioni, che, indiscutibilmente e, spesso, senza che se ne ravveda una logica, sono il frutto di altre azioni, proprie e degli altri, potenziali e reali. Anche il “non-fare” ci si presenta – e così lo viviamo – come azione, molto spesso mai tramutatasi in scelta consapevole, e da tale originaria convinzione facciamo derivare gli strumenti attivi e passivi che producono, scandendoli, i tempi dell’esistenza, in attesa di vederne i risultati in un fare definibile.
Il senso della vita, così, si dipana tra scelte, decisioni e cambiamenti o, soprattutto, presunti tali, diversi tra loro, eziologicamente e finalisticamente, e, ancor più spesso, altrettanto contrastanti e contraddittori per le dinamiche che possono attivare. La capacità di gestione delle scelte, delle decisioni e dei cambiamenti si traduce, praticamente, in un supposto “indice riassuntivo dell’equilibrio vitale”, da cui potrebbe derivare, volendo, la libertà di “fare”.
Non esiste una sola tipologia o un unico decalogo categoriale di tali strumenti di senso, né della direzione che tale senso può prendere. Ognuno ne elabora una propria e, in ogni epoca, ne sono state predisposte di vario tipo, utilizzate come giustificazioni di “principio” per ognuna delle parti di senso individuate o come autoreferenziale giustificazione delle “conseguenze” che producono.
Certamente, scelta, decisione e cambiamento costituiscono il filtro prioritario per “distinguere” individui e società, ruoli e istituzioni, tempi e spazi d’azione nella complessità dell’esistenza. A monte di questo “indice”, si interfacciano, come premessa di differenziazione individualizzante, sensibilità, atteggiamenti, caratteri, intelligenze, esperienze e abilità, in altre parole, la complessa dimensione dell’umana esistenza e coesistenza.
Pubblico e privato
2. La principale ripartizione sistemica, in quanto oggettiva ed evidente agli occhi di tutti, è, sicuramente, quella che consente di distinguere l’ambito pubblico dal privato. Da questa ripartizione derivano scelte, decisioni e cambiamenti che svolgono funzioni diverse, o presunte tali, nei due ambiti, ma dove tutti, in qualche modo, si sentono coinvolti e chiamati in causa, direttamente o indirettamente.
Nel momento in cui è stato strutturato lo Stato moderno ci si è posti proprio questo dilemma speculare, dovendo stabilire se e quanto i due livelli, pubblico e privato, avrebbero potuto effettivamente interfacciarsi, al di là di ogni limite e di ogni interesse da tutelare, al fine di produrre un senso comune. In conclusione, l’abbattimento di ogni filtro o barriera tra i due ambiti è formalmente prevalso o, almeno così sembrava, a fronte, anche, delle difficoltà oggettive che quel limite divisorio avrebbe costituito, in un mondo che si apprestava a cambiare radicalmente e a divenire complesso. La scelta era indifferibile, pur sempre nel dubbio della direzione di senso dell’interazione, ancora da definire, allora come ora.
La necessità di salvaguardare la privacy si giustificava, agli albori del mondo contemporaneo, e, in parte, ma diversamente, si giustifica ancora oggi, anche per la difficoltà di stabilire, a chi competeva, per un verso, la supervisione di regolare il confronto e, per l’altro verso, quale poteva essere l’impatto sull’azione individuale della valutazione e del controllo eterodiretto. Ci si è chiesto, in fine, quali parametri e indicatori si sarebbero potuti adottare per valutate e validare le azioni dei cittadini in un ambito specifico, non facilmente regolabile in senso formale, per la sua “naturale” eterogeneità, qual era l’ambito privato. Dalla scelta, in tutte le sue manifestazioni, sarebbe derivata la costruzione “ordinata” del futuro.
Era un problema di “equilibrio di giudizio”, che, di lì a poco, avrebbe perso la sua valenza “morale”, per eticizzarsi nell’insieme olistico e oggettivo del Welfare-State. Diverse furono le scelte tra i vari stati e i vari sistemi normativi, per il diverso peso attribuito ai limiti separatori. Una diversità che la globalizzazione sembra aver beffato, disseminando canali intrusivi, che non temono né regole, né volontà oppositive, né fini, in un ininterrotto processo di omologazione, commistione e confusione.
Non si trattava, all’epoca, e non si tratta, ancor meno oggi, solo di un problema di legittimazione formale e giuridica di penetrazione nell’ambito meramente privato, giacché la difficoltà di ripartizione tra pubblico e privato si è estesa progressivamente ad ambiti di vario genere, ma di sempre più dubbia e pericolosa delimitazione: come potere, economia, politica, religione, oltre a includere i sistemi relazionali “primari”, come famiglia, amicizia, amore, sentimenti, in genere.
Ma, non da meno, il problema della legittimazione di “interferenza” ha riguardato in progress, nella sua complessità indistricabile, ogni singola interazione, materiale e immateriale, invadendo e mixando le stesse categorie “interpretative”, che, già per loro natura, sono dinamiche e indefinibili. Categorie che non sono solo giuridico-formali, ma ancor più o prima ancora informali-istintive, fino a pervadere fiducia, coraggio, abilità, sicurezza, autostima.
In conclusione, si è delineato un insieme definibile come “programma” di massima di legittimazione del poter fare, oltre ogni limite e oltre ogni luogo. Oltre ogni senso.
Il caso e le possibilità
3. Il diritto è, per definizione, lo strumento principale che ha tentato di regolare e assestare l’equilibrio tra scegliere, decidere e cambiare, come modello “attivo”, previsto e condiviso, sistematicamente inclusivo. In questo senso, tutti vi attingono, semplici cittadini e gestori decisionali. Tuttavia, la vulnerabilità dello spazio, troppo...