Patografie: voci, corpi, trame
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Patografie: voci, corpi, trame

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Patografie: voci, corpi, trame

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Comparse alla fine del Novecento, le patografie dischiudono un'esperienza autobiografica di malattia attraverso una narrazione scritta. Malgrado le medical humanities si siano interessate ai memoir della malattia, in Italia manca una focalizzazione critica e teorica su questo tipo di testi. Il presente libro si propone di colmare tale lacuna introducendo la narrativa patografica da una prospettiva primariamente letteraria, analizzandone la natura e il funzionamento testuali e facendo il punto sugli studi esteri dedicati alle scritture della malattia. Attraverso un approccio comparatistico che prende in esame narrazioni in lingua tedesca, inglese e francese, oltre agli esempi italiani, la patografia viene indagata come oggetto letterario, rappresentativo di modalità espressive caratteristiche della narrativa contemporanea e atto a stimolare proficue teorizzazioni sulle possibilità del linguaggio, sull'etica della scrittura e sulla partecipazione del lettore.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788857574189

1. INTRODUZIONE: DEFINIZIONE DEL CAMPO D’INDAGINE

1.1. La letteratura malata prima della patografia

Mon père voulait que je fasse médecine. J’ai l’impression, à travers cette maladie, d’apprendre la médecine et de l’exercer à la fois. Dans la littérature, ce sont les récits médicaux, ceux où la maladie entre en jeu, que j’aime par-dessus tout: les nouvelles de Tchekhov où il est question de son art de médecin et de ses relations avec certains de ses patients, qui lui permettent de raconter de curieuses destinées; les Récits d’un jeune médecin de Boulgakov… La médecine était le destin que m’imposait mon père, aussi le réfutai-je. À quinze ans, au moment où il fallait choisir et où le choix pour moi était déjà fait, les tables de dissection me répugnaient. […] Aujourd’hui j’aimerais travailler sur une table de dissection. C’est mon âme que je dissèque à chaque nouveau jour de labeur qui m’est offert par le DDI du danseur mort. Sur elle je fais toute sorte d’examens, des clichés en coupe, des investigations par résonance magnétique, des endoscopies, des radiographies et des scanners dont je vous livre les clichés, afin que vous les déchiffriez sur la plaque lumineuse de votre sensibilité. (Guibert 1991, 94)
Queste parole sono tratte da Le protocole compassionnel, la seconda delle opere che lo scrittore francese Hervé Guibert dedica all’AIDS, la condizione patologica di cui soffre e che lo porterà alla morte prematura nel 1991. Nel passo citato emergono alcuni elementi che risultano caratteristici dei contemporanei racconti di malattia e che pertanto accomunano gli scritti più noti di Guibert alle narrazioni di altri autori. In primo luogo, spiccano una curiosità e un interesse sempre attuali per i temi medici, ampiamente inclusi in una tradizione letteraria che non cessa di offrire immagini e riferimenti a cui rifarsi. Secondariamente, il ripiegamento su di sé e il richiamo dell’auto-osservazione si accompagnano alla ricerca di un indispensabile consenso e della partecipazione da parte del lettore, affinché l’esposizione delle proprie piaghe assuma senso e giustificazione. Questi presupposti tracciano un primo, essenziale profilo della patografia, consentendone il riconoscimento come scrittura della malattia che ravviva il dialogo tra letteratura e medicina, si innesta sul fiorente albero dell’autobiografia e persegue una finalità testimoniale. Costituitesi e affermatesi negli ultimi cinquant’anni, le narrazioni patografiche coincidono con testi autobiografici estesi, dati alle stampe e pubblicati; assenti prima del Novecento, rappresentano una modalità espressiva in tutto figlia dell’epoca contemporanea. Con una diffusione crescente a cavallo del nuovo millennio, ad oggi le patografie sono una tipologia narrativa consolidata, tanto diffusa e legittimata quanto oggetto di attenzione in più aree disciplinari.
Gli studi letterari, tuttavia, potrebbero nutrire verso questa ennesima sottocategoria dell’autobiografia un interesse limitato, se non altro perché di rappresentazioni di infermità fisiche e mentali ci si è già lungamente occupati in sede critica: quale novità, d’altronde, nel connubio tra letteratura, malattia e medicina, riconoscibile come vero e proprio topos di una tradizione che ha percorso i secoli? Le descrizioni di mali e medici pronti a curarli popolano la letteratura già a partire dall’Iliade, nel cui primo libro una epidemia voluta dal dio Apollo semina morti nel campo degli Achei. Filottete è l’omonimo protagonista sofferente di una delle tragedie di Sofocle, Boccaccio rappresenta la peste nel Decameron e Montaigne riporta i propri mali negli Essais; Molière ironizza a più riprese sui medici, i romantici idealizzano la tubercolosi e i decadenti si ammalano di malinconia; a Dostoevskij dobbiamo una rappresentazione ottocentesca dell’epilessia, mentre nel Novecento vedono la luce i racconti medici di Bulgakov, cari anche a Hervé Guibert, e Der Zauberberg (La montagna incantata) di Thomas Mann, con il suo affresco di vita in sanatorio; nello stesso secolo, infine, salutiamo il ritorno della peste con Camus.
Un simile schizzo basta a dare l’idea della pervasività e persistenza, nella storia della letteratura occidentale, del tema patologico-medico, declinato in molteplici varianti: la forza creatrice che il poeta trae dalla sua infermità, la tubercolosi che consuma un’anima pura, la figura del medico-scrittore, la donna in cerca di emancipazione fatta passare per folle e per questo reclusa, la malattia come metafora di situazioni politiche e storiche.1 Quando la condizione patologica è elemento costitutivo della trama e ad essa funzionale, riveste generalmente un valore simbolico e appartiene, visibilmente, al mondo fittizio dell’artificio letterario. Invece, quando l’io narrante coincide con quello dell’autore, i mali di cui racconta sono quelli di cui ha fatto esperienza nel proprio vissuto e dunque il velo della finzione viene meno. Tuttavia, tale narrazione resta a lungo inibita, nella storia letteraria, dall’aderenza a un discorso squisitamente pubblico, il cui tono non dischiude l’esperienza soggettiva, intima, emotiva della persona reale colpita dalla malattia. Si narra con altre finalità: non l’esposizione del privato, ma per istruire, informare, costruire o confermare un’immagine pubblica decorosa. Nel V secolo a. C., Tucidide offre nelle Storie un resoconto della peste scoppiata nell’Attica in qualità di cronista ed è solo in quanto testimone e per dovere civico verso la comunità che giustifica un’intrusione della prima persona nel suo racconto altrimenti in terza:
[…] io invece dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi, osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa: io stesso ho avuto la malattia e io stesso ho visto altri che ne soffrivano. (Tucidide 1982, 349)
Persino negli Essais di Montaigne, opera pionieristica per lo sviluppo dell’autobiografia, l’accesso al privato della malattia è misurato, legato a intenzioni prevalentemente didattiche e votato all’indagine filosofica. Giambattista Vico, pure di salute cagionevole, registra i suoi mali di passaggio nell’Autobiografia, scritta in terza persona; ad essere messo in rilievo, perché investito della fatalità dei segni che non possono che condurre l’autore a dar vita alla Scienza Nuova, è il solo episodio, redatto in termini anatomici, della caduta in età infantile (cfr. Vico 1992, 14). Non trascurabile, poi, è il fatto che nessuna di queste opere, sebbene non finzionali, sia interamente dedicata alla malattia e dettata dalla circostanza dell’infermità; inoltre, tutte rimandano a uomini dall’immagine pubblica già riconosciuta.
Del resto, la stessa autobiografia impiega secoli ad affermarsi nella sua forma pura, non diluita nel discorso filosofico o spirituale. Alla cornice religiosa in particolare, la pratica della scrittura di sé deve molto e l’espressione stessa dell’esperienza della malattia è originariamente legata al rapporto con il divino. Tra i topoi riconoscibili e costanti, che nel tempo permettono di codificare l’autobiografia e renderla familiare e identificabile al lettore, ve ne sono alcuni che evocano il legame tra malattia e spiritualità. Lungo il percorso di affermazione dell’autobiografia emergono il cronotopo narrativo del filo, la figura dell’innocente perseguitato dalla sorte avversa, l’enfatizzazione della solitudine, dell’originalità e della malinconia del genio, l’orgoglio professionale, l’ostentazione di modestia, il furore creativo, la conversione e la predestinazione (cfr. Battistini 2007, 83). Proprio questi due ultimi motivi consentono di risalire alla comune radice che mette in diretta comunicazione tra loro malattia e scrittura di sé. E se la scrittura autobiografica tout court finirà con l’emanciparsi dalla giustificazione spirituale, quella che si concentra sulla malattia conserva tuttora tratti provenienti da questa tradizione.
In riferimento a questo comune denominatore, l’Encyclopedia of Life Writing, alla voce “Illness and Life Writing”, presenta una sintesi delle tracce lasciate dalla malattia nelle scritture dell’io prima del Novecento. Le autobiografie spirituali vengono individuate come precedenti storici, in cui l’evento centrale, rappresentato dalla conversione, assume la forma dell’infermità fisica. Ne costituiscono esempi la conversione di San Paolo, avvenuta in seguito all’accecamento sulla via di Damasco o, in età medievale, la malattia che dava luogo all’esperienza visionaria tramite cui potersi avvicinare alla divinità, come si evince da quanto racconta Santa Teresa d’Avila. Ci sono naturalmente eccezioni a questo schema, quali Thomas de Quincey, che dedica un’opera alla sua dipendenza da oppiacei, o Charles Darwin e John Stuart Miller, che nelle loro autobiografie non occultano i propri disturbi mentali.2 Viene sottolineato, però, che queste ultime sono tutte personalità eminenti del mondo intellettuale, mentre con il Novecento si assisterà ad un notevole ampliamento del bacino di fruitori e autori di quelli che saranno esplicitamente racconti del patire.
Pertanto, risultano degni di nota, non in quanto patografie, ma per le epoche in cui hanno visto la luce e l’alto tasso di dettagli riferiti alla malattia, le Devotions upon Emergent Occasions di John Donne (1624); il diario settecentesco di Samuel Cole Davis, con al centro la sua esperienza di cancro al labbro; il resoconto, in una lettera, della mastectomia che Fanny Burney subisce nel 1811; le pagine finali del diario di Henri-Frédéric Amiel (1881); la descrizione da parte di Alice James dei suoi ultimi giorni (1892).3

1.2. Cartografia di un fenomeno

Fino all’età contemporanea, insomma, lo spazio riservato alla malattia nelle scritture autobiografiche resta sostanzialmente esiguo e discontinuo. Dunque, il ribaltamento di questa situazione può essere spiegato con una serie di osservazioni di carattere sociale e culturale.
Due criteri forniscono un orientamento al tentativo di periodizzazione: da un lato, l’estensione del fenomeno nello spazio, ovvero la sua presenza simultanea in aree geografiche diverse, e il suo accumularsi nel tempo; dall’altro, la sua comparsa in settori differenti della vita sociale, in varie forme e strutture dell’immaginario e della comunicazione.4 Per quanto riguarda l’esposizione dell’esperienza privata della malattia e il riconoscimento del molteplice valore di tale atto di svelamento (commerciale, terapeutico, culturale, politico, letterario), entrambi i criteri vengono soddisfatti, sancendo così la rilevanza e la consistenza del fenomeno. Se la localizzazione primaria, centro in cui il fenomeno si manifesta in maniera massiccia e con tratti più definiti, coincide con gli Stati Uniti, negli stessi decenni conclusivi del Novecento si riscontrano suoi effetti anche in Europa.
Le patografie costituiscono solo una parte, seppure significativa, di una più ampia sensibilizzazione nei confronti delle narrazioni della malattia, che si profila nel momento in cui un modello biomedico ciecamente votato alla tecnica e sordo al sentire e al volere del paziente non risulta più accettabile. Questo avviene, e non casualmente, in concomitanza con l’affermarsi dei movimenti civili per l’autodeterminazione dell’individuo caratteristici degli anni 60, quando consumatori, neri, donne e omosessuali danno voce ai propri diritti. Alcune pubblicazioni emblematiche del mutamento di rotta che si reclama per assistenza sanitaria, legislazione, formazione e pratica medica vedono la luce proprio negli anni 60 e 70. Ne sono esempio l’articolo di George L. Engel The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine (1977), in cui viene proposta l’adozione di un modello biopsicosociale; il saggio di Susan Sontag, uscito nel 1978 e tuttora influente, Malattia come metafora; il lavoro di Elisabeth Kübler-Ross La morte e il morire, che indica possibili strade da intraprendere per un fine vita a misura d’uomo (pubblicato nel 1969, ma riedito nel 2008); il testo-manifesto Noi e il nostro corpo (1970; più noto con il titolo delle successive edizioni Our Bodies, Our Selves), firmato dal Boston Women’s Health Collective, che invita le donne a divenire piene responsabili delle scelte che riguardano il loro corpo.
Parte di queste rivendicazioni rientrano tra i fattori ipotizzabili per l’emergere delle patografie:
[…] there are many explanations for why and how illness memoirs evolved into a thriving genre in the late twentieth and early twenty-first centuries. When science developed better explanations for disease and more effective treatments, personal stories of illness were displaced from clinical settings in the United States and surfaced elsewhere. With the growth of the publishing industry, changed attitudes toward personal disclosure, patient activism about women’s health and AIDS, and the rise of the Internet, more people turned to the written word to give illness meaning. (Jurecic 2012, 18)
Un deciso segnale di cambiamento in direzione patografica viene fatto corrispondere con le narrazioni novecentesche, comparse tra gli anni 20 e 60, dei degenti nei sanatori e dei colpiti dall’epidemia statunitense di poliomielite.5 È tuttavia con gli anni 80 e l’esplosione dell’AIDS che le storie di malattia si moltiplicano e si impongono come spazio di denuncia, infrangendo l’invisibilità a cui erano state confinate le vittime dell’epidemia. Da allora, il racconto della propria esperienza di sofferenza, terapia, guarigione o inesorabile declino è stata svincolata dalle specificità patologiche e oggi si riscontrano narrazioni che vanno dal cancro alla sclerosi multipla fino alla sindrome di stanchezza cronica (cfr. Hawkins 1999, 3-14; Jurecic 2012, 1-10).
Diversi fattori, tra cui l’importanza identitaria assegnata al corpo, la paura di morire e invecchiare, il mutamento dei confini di ciò che si considera decoroso e degno di essere raccontato, contribuiscono a delineare un paradigma inedito, in cui la malattia in sé assurge a motivo sufficiente per dare avvio a una autobiografia in cui altri eventi trovano collocazione solo se rilevanti per il discorso sul patologico (e non viceversa come nella tradizione autobiografica precedente). Il vero discrimine rispetto al passato modo di rapportarsi alla malattia privilegiando la scrittura è il diverso quadro culturale di riferimento, emerso a partire dagli anni ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Circa l’autore
  3. Frontespizio
  4. Copyright
  5. Indice
  6. Patografie: voci, corpi, trame
  7. Premessa
  8. 1. Introduzione: definizione del campo d’indagine
  9. 2. Presupposti di una narrativa testimoniale
  10. 3. Tra scarti e modelli: trame e generi a confronto
  11. 4. Declinazioni Dell’io narrante
  12. 5. Silenzi e omissioni: il non detto della patografia
  13. Bibliografia