Recitar cantando
Per chi appartiene alla mia generazione, gli anni Cinquanta sono stati gli anni del primo risveglio “alla vita dello spirito” come si sarebbe allora detto: gli anni del Liceo, dell’ingresso al Ghislieri e all’Università, dell’incontro con una cultura densa di sapori e con un modo coinvolgente di proporre la filosofia. Quella “stagione irripetibile” è stata la stagione di Brecht al Piccolo ma anche della Callas alla Scala. Insieme sono stati i tempi del prender piede di quella che Fulvio Papi chiamerà “Scuola di Milano”; e perché dimenticare il primo affacciarsi alla ribalta di Enzo Jannacci e di Giorgio Gaber, e di Mina (grande estimatrice della Callas). La rappresentazione di L’opera da tre soldi (e qui è da ricordare Milly, accanto a Buazzelli e a Carraro) è più o meno vicina all’anno della morte di Banfi, la Medea di Cherubini si è imposta negli anni che stanno tra Ingens Silva, La coscienza inquieta e Praxis e empirismo. Con emozioni assimilabili si potevano frequentare lezioni di filosofia e mostre a Palazzo Reale. Coevi sono film di atmosfera milanese quali Rocco e i suoi fratelli (con quel non poco di Traviata che vi riecheggia: di quegli anni sono anche le celebri regie di Visconti alla Scala); all’inizio degli anni Sessanta apparvero La Notte, Il posto… Al di fuori dell’ambito milanese, ma vicinissimi per la nostra sensibilità, apparvero sugli schermi Senso (che come noto si apre su una scena del Trovatore alla Fenice) e più tardi La dolce vita, L’avventura; per non dire di Ordet, del Settimo sigillo e del Posto delle fragole, del grande cinema francese e americano che scoprimmo allora….
Suscita a tutt’oggi uno stupore che non esiterei a chiamare amaro che si potessero (e si possano) privilegiare – da parte di intellettuali pur engagé dell’epoca (e di poi…) – gli spettacoli così coinvolgenti del Piccolo, il mondo degli Studi, rispetto agli spettacoli in scena alla Scala, quasi appartenessero questi a una cultura di scarto, quasi fosse sempre altro ciò che “veramente” conta. A questo proposito mi scrive opportunamente Emilio Sala: il “sentimento antiscaligero (di ieri e di oggi) […] lo ricollego al tipico ‘pregiudizio antioperistico’ di cui parla Lindenberger e che fa parte, ahimè, di una certa cultura modernista che vede nell’opera solo una specie di tradizionalismo becero…”.
Non si vede perché La Vestale con cui la Callas inaugura la Scala nel 1954, o La Traviata che poco dopo, reinterpretandola, letteralmente riscopre, rivestano minor rilievo rispetto ad altri coevi eventi culturali. Senza contare che scambi tra la Scala e il Piccolo vi furono, e furono di grande rilievo: basti pensare ai nomi di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler (di cui mi è rimasta viva anche la recitazione e la regia dell’Histoire du Soldat alla Piccola Scala nel 1957). E di Milly, che alla Piccola Scala recitò; di lei resta tra l’altro indimenticabile l’interpretazione di L’istruttoria di Peter Weiss al Piccolo Teatro, che avvenne però nel 1967. Personalmente frequentavo entrambi i teatri – resta un fiore all’occhiello per me.
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Degli anni di Maria Callas alla Scala si è non poco detto. Non mi trattengo qui dal segnalare (è anche un modo di tenerli in vita) gli spettacoli cui ho assistito. La prima, memorabile, è stata il 18 febbraio del 1956: La Traviata: con la regia di Luchino Visconti, con la direzione di Carlo Maria Giulini, con Gianni Raimondi e Aldo Protti; per me (pur verdiano da sempre) è stata la scoperta dell’enorme spessore di Violetta come persona; e della profondità dell’opera. Poco dopo è venuto Il barbiere di Siviglia: dirigeva Carlo Maria Giulini, la regia era di Carlo Piccinato; cantavano Tito Gobbi, Nicola Rossi Lemeni, Nicola Monti. Del giugno dello stesso 1956 è Fedora, diretta da Gianandrea Gavazzeni e con Franco Corelli. Il 2 marzo del 1957 c’è stata La Sonnambula, con la regia di Luchino Visconti, diretta da Antonino Votto (originariamente da Leonard Bernstein), e con Nicola Monti, Eugenia Ratti, Nicola Zaccaria. Il 24 aprile dello stesso anno un’inarrivabile (“una delle sue più impressionanti e poetiche interpretazioni”) Anna Bolena: ancora con la regia di Visconti, diretta da Gavazzeni; tra i cantanti Giulietta Simionato (vera amica della Callas, e da me poi sempre privilegiata), Nicola Rossi Lemeni, Gianni Raimondi. Quest’ultima opera in particolare può risultare noiosa (qualcosa di analogo la Callas diceva della Medea) se non le si imprime un ritmo, l’espressività di una grande interprete. Infine (e purtroppo fu per me l’ultima volta), il 1 giugno del 1957, Ifigenia in Tauride: diretta da Nino Sanzogno, con la regia di Visconti, con Francesco Albanese e Dino Dondi. Mi è rimasta nelle orecchie la grande scena iniziale, il motivo che culmina in L’innocence habite en nos coeurs, poi più volte ripreso. Ho ancora negli occhi la tenuta scenica splendida, gli spazi creati dalla gestualità, il perfetto dominio della voce, il timbro limpido, intenso ma mai forzato della Callas. Se dovessi dare una voce, una carne all’utopia (nel suo senso alto, non nel senso di fuorvianti utopismi) questa sarebbe quella di Maria Callas, il suo timbro ha per me un accento nett...